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Autore: Moonspell    27/06/2013    2 recensioni
Ogni Potter sembra avere il proprio fuoco con cui scaldarsi e scottarsi, James Sirius pare aver trovato il proprio, in una rincorsa di gelosia e tranelli.
Questa storia si è classificata 5° al contest "Is this the end?" indetto da SilverKira sul forum di EFP
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dominique Weasley, James Sirius Potter | Coppie: James Sirius/Dominique
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Questa storia ha partecipato al contest Is this the end? indetto sul forum di EFP da SilverKira classificandosi 5°





Il tranello della Vipera

 
 
 

10 Ottobre

 

Le giornate s’impigrivano, si facevano più sornione ed il sole iniziava ad assopirsi già con le ultime ore del pomeriggio, svanendo oltre l’orizzonte, lasciando dietro di se rossi riverberi che lambivano un paesaggio dai colori accesi. Le voci degli studenti erano un brusio lontano, sfumate dall’instancabile animo di un vento infantile che correva e volteggiava con la spensieratezza di un innamorato, danzando ed esibendosi senza alcuno spettatore. Mulinelli di brezza alzavano foglie dorate, spettinavano l’erba folta e facevan ridere le fronde degli alberi in quella moltitudine di calde sfumature autunnali, preziose ed ammalianti.
Tutto era avvolto da un’aura serafica che alleviava i cuori dalle proprie preoccupazioni, lenendo il bruciore di adolescenziali tormenti per regalare semplicemente attimi per sorridere, senza ragione. Sensazioni, semplici necessità che in quei frammenti di giornata trovavano lo spazio di emergere tra tutti gli affanni di ogni giovane adolescente, specialmente tra chi, oramai, iniziava a scorgere uno dei propri traguardi, forse il più importante. Quello, di fatti, fu l’ultimo anno ad Hogwarts per James Sirius Potter, dopo di che il sogno sarebbe svanito, diventando un semplice ricordo racchiuso in una piccola sfera dorata, la sua prima vittoria; riflesso in un album fotografico, lo scrigno di momenti a cui si sarebbe aggrappato per il resto della vita; incastonato tra i fili di saggina di una scopa che avrebbe sempre rievocato i brividi e le sensazioni di una libertà selvaggia.
Pensieri che in quel momento gli offrirono una tregua, lasciandogli la possibilità di rilassarsi rigirando tra le mani una semplice bottiglia scura, piena solo per metà della burrobirra che si era concesso in quel tardo pomeriggio, al termine della sua terza sessione di provini di Quidditch in qualità di Capitano. Stare seduto tra le vaste gradinate degli spalti del campo gli dava pace, così come le risate concitate dei suoi compagni di squadra, vecchi e nuovi, che seduti attorno a lui si perdevano in chiacchiere gioiose; in piccanti battute che saldavano il forte spirito di gruppo che lui, per tre anni, aveva sempre promosso. A gambe divaricate, con i gomiti appoggiati sulle cosce, si limitava ad osservarli, contemplando la felicità di chi era stato confermato come giocatore ufficiale della squadra e di chi, invece, aveva appena iniziato la sua carriera sotto la sua guida. Impossibile decidere chi tra loro fosse più euforico, più esaltato o più motivato a concludere in grande stile quel campionato che dovevano ancora cominciare.
In quel momento James sentì di aver dato vita a qualcosa di bello, di unico, che avrebbe lasciato un segno ad ognuno dei suoi compagni, ma soprattutto a se stesso. Sospirò, grato che la sua carriera di studente monello avesse potuto ricalcare il successo di suo nonno, di suo padre ed infine degli zii Fred e George nonché di suo cugino Fred Jr.
Per lui quegli sguardi, quelle risate, quei bonari insulti giunsero ad avere un significato molto importante, essenziale e fondamentale non solo per il successo sul campo da Quidditch, ma anche per il suo semplice percorso personale che, in quanto figlio di Harry Potter, non era assolutamente facile a discapito delle credenze popolari.
Fu con quel pensiero che istintivamente andò ad incrociare lo sguardo di Lily, perdendosi nella sua gratitudine, nell’orgoglio smisurato che la colmava: sapeva quanto significasse per lei poter avere un posto in squadra e sapeva perfettamente che mai nessuno se lo fosse meritato più di lei, lui compreso. Era fiero di sua sorella e avrebbe voluto solo trovare le parole giuste per dirglielo, ma tutte quelle che si accalcavano nella sua bocca gli sembrarono insignificanti, sciocche. Si limitò così a sorriderle, a bearsi di quel riso che non riusciva a svanire dal suo volto.
Non saprei dire per quanto tempo rimasero a guardarsi, a parlarsi senza dir nulla, a condividere la complicità che solo due fratelli, tra un litigio ed un altro, possono saldare. Tuttavia fu la voce di Lysander che li interruppe quando richiamò il suo capitano, guidando la sua attenzione ai piedi della gradinata dove una figura candida li stava fissando a braccia conserte. Capelli ramati che, sospinti dal vento, frastagliavano un viso dai lineamenti soavi su cui risaltavano occhi cerulei. Il suo virtuosismo strappava un sospiro a chiunque indugiasse su di lei, ma per lui, la sua visione era come una fitta al cuore, una stilettata che lo fece sussultare. Dominique Weasley era senza dubbio il tormento di molti cuori, del suo in primis.
 
Silenziosamente e con aria funebre andò ad alzarsi, pigramente, affidando la propria burrobirra al suo omonimo, James, il miglior portiere che la squadra di Grifondoro avesse mai avuto nella propria storia. Non ebbe alcuna fretta nell’andare a scendere la gradinata, muovendosi con estenuante lentezza, quasi tentasse di posticipare il più possibile quell’incontro. “Arrogante e strafottente” come molti si permettevano di definirlo, “codardo” come preferivano etichettarlo i Serpeverde o semplicemente “svogliato ed insofferente” come lo descriveva sua madre.
La guardò attenderlo, innervosito dalla sua presenza inaspettata ed evidentemente indesiderata. Detestava quelle invasioni di capo che lei era solita infliggergli, sconfinando spregiudicatamente nei suoi spazzi, valicando il perimetro della sua individualità, finendo con l’imporre la sua presenza anche quando si ritirava con gli amici, ma soprattutto quando lui si dedicava al Quidditch. Era palese quanto le rodesse il fatto che lui sfiorava la vetta del piacere morale semplicemente standosene li, in quell’ovale tra i suoi compagni, più di quanto non succedesse nel loro letto.
Indugiò sull’ultimo gradino, lasciando vagare nel vuoto il piede, quasi con incertezza, prima di lasciarsi andare sul soffice terreno erboso. Pochi passi lo dividevano da lei, mortalmente severa in viso, gli occhi fissi su di lui a giudicarlo, cristallizzata nella sua fredda collera, estremamente controllata, misurata come ogni suo atteggiamento.
Avvicinandosi di malavoglia, James portò la mano sinistra a scostare dalla fronte i folti capelli neri, ricci e scarmigliati come un mare in burrasca, tradendo con quel gesto una sfumatura di disagio che si amalgamò malamente al suo sguardo seccato, che evitò saggiamente di incrociare con quello di lei. Un tipo irritante, così lei stessa lo definiva ogni volta che finivano col discutere (piuttosto spesso effettivamente) e lui volle evitare di alimentare quella miccia già pronta ad esplodere, sperando così di liberarsi in fretta da quell’impiccio.
 
«Avevi detto che dopo gli allenamenti non avremmo potuto vederci perché dovevi studiare…» la voce di Dominique era resa graffiante da un’irritazione velata, che rimarcò sistemando l’intreccio delle braccia, con la stessa aria autoritaria di Molly Weasley. Una visione che provocava i brividi.
 
«È così» apatico nel suo tono, James si sforzò di alzare gli occhi nocciola su di lei, quasi la sua meravigliosa visione potesse mitigare la scintilla di rabbia che le sue parole avevano appena acceso. Cercò i suoi occhi, anelando un lampo di passione, trovandovi però un moto di sfida a cui non riuscì a sottrarsi, troppo dannatamente orgoglioso.
 
«Non mi pare stiate studiando lassù…» una singola risata beffarda risalì il suo petto, provocatoria, irritante, sfrontata. Assottigliò gli occhi, lo studiò, ne sostenne saldamente lo sguardo senza batter ciglio in quel confronto silenzioso. Sembrò che entrambe cercassero di imporsi l’uno sull’altra con il carisma della propria espressività, snocciolando la propria sicurezza e la propria determinazione in un semplice confronto visivo. Due pavoni, meravigliosi nella moltitudine di vivide cromature, un caleidoscopio di decise sfumature che li rendeva forti personalità incapaci di prevalere l’uno sull’altra, in una danza eterna tra l’eterno ragazzino Peter Pan e l’oramai cresciuto Uncino.
 
«Dominique, per cortesia, non ripropormi questo discorso… sono stanco di doverne sempre riparlare: sono uscito dalla doccia degli spogliatoi dieci minuti fa, volevo solo bermi una dannata burrobirra prima di mettermi sui libri» un lungo sospiro seguì quelle parole, a sfogare l’alterazione repressa nel tono della voce, ma molto meno velata in quelle parole che non aveva scelto con cura, lasciandosele sfuggire istintivamente.
 
«E non potevi bertela con me?» un brivido la percorse, il fremito di irritazione che affiorò quando lo sentì chiamarla per nome, come chiunque altro, come un qualsiasi compagno di scuola. Alzando il mento cercò di mostrarsi solida, imperiosa, nascondendo le sue debolezze, sfoggiando quell’icona di Valchiria che per sette anni aveva dipinto su se stessa, ma che su di lui non aveva mai sortito grandissimi effetti.
 
«Sai bene che non potevo: è una tradizione brindare alla Squadra. È come un’iniziazione ai nuovi membri e lo dovevo a Lily. Per nessuna ragione al mondo le avrei potuto togliere questa semplice mezz’ora per poter festeggiare la realizzazione di un sogno: se l’è più che meritato» alzò le sopracciglia con quella sfrontatezza che lo rendeva, per molti, insopportabile. Sapeva perfettamente che tirare in gioco sua sorella sarebbe stato un colpo basso, ma era l’unica arma che aveva per mettere a tacere quella tediosa discussione, conscio che Dominique non si sarebbe mai accanita sull’argomento se c’era la possibilità di sminuire l’adorata cugina.
 
«Va bene…» lapidaria troncò il discorso, sospirando consapevole del fatto che non avrebbe mai cavato un ragno dal buco a discutere di certe questioni con il Capitano di Grifondoro:«Ad ogni modo non ero qui per “riproporti questo discorso”, ma per dirti che ho spedito la mia richiesta di ammissione all’Accademia degli Obliviatori, a Parigi» fu con tono superficiale ed annoiato che gli rifilò quella notizia, quasi stesse facendo un puro atto di carità nei suoi confronti, rendendolo partecipe delle sue scelte.
 
«Cosa? » quasi si strozzò con la propria incredulità, profilandosi appena verso la spalla sinistra per offrirle l’altro orecchio alla fidanzata, quasi cercasse un’acustica migliore prima di riproporle la domanda ed essere certo d’aver capito correttamente:«A… Parigi?» scosse il capo, incredulo:«Ma io studierò all’Accademia Auror a Londra: non credi che prima avremmo dovuto parlarne assieme? Saremo dannatamente lontani…» non riuscì a trattenere la sua ruvida irritazione, già pronta a sfociare nella collera.
 
«Certamente che ci ho pensato, ma è una settimana che cerco di ottenere un’ora del tuo preziosissimo tempo per poterne parlare da soli… ma tu sei sempre così indaffarato o perennemente con quei due fessi di Lorcan e Lysander. Così ho preso la mia decisione da sola» sospirò, trovando la propria tranquillità nell’alterazione di lui. Vederlo prendersi a cuore quel discorso fu un balsamo per il suo umore, una goccia di siero capace d’alleviare il bruciore della rabbia che quel suo continuo trascurarla alimentava oramai da tempo.
 
«La tua è una carognata bella e buona… potevi dirmelo che dovevamo parlare di questo!» più lei riusciva a controllare le sue emozioni, più lui si lasciava sfuggire di mano la pazienza in pochi, infimi attimi. James non era un ragazzo dallo spiccato autocontrollo, fin troppo vivace per riuscire a dominarsi, fin troppo sicuro di se per vedere le proprie aspettative mutare in una direzione che non era propriamente di suo gradimento.
 
«Così io sarei una carogna?» quelle parole furono un’artigliata in pieno volto. Sciolse l’intreccio delle braccia ed inspirando ampiamente assunse una posizione impeccabile, autoritaria, cercando si ovviare alla differenza d’altezza rendendosi più incisiva anche negli atteggiamenti:«Devo prendere appuntamento un mese prima per passare un po’ di tempo con il mio ragazzo senza avere la corte dei miracoli tra i piedi. Sinceramente mi sono un po’ stancata…»
 
«Ah, quindi l’hai fatto per ripicca!» le puntò contro il dito, conscio di come quel gesto la infastidisse, sapendo perfettamente di provocarla più di quanto non potesse fare minacciandola semplicemente con la bacchetta. Si godette semplicemente la scena, vedendola strabuzzare gli occhi per osservare il suo indice, dilatando poi le narici per inspirare ampiamente, nervosa. Fu in un attimo che la vide tentare di afferrargli la mano, sicuramente speranzosa di conficcarci le sue adorabili unghiette, ma lui fu più veloce. Con tranquillità si ritrasse, lasciando andare a vuoto quel suo futile tentativo, tradendo un’immensa soddisfazione in quella piccola e infantile vittoria.
 
«No, l’ho fatto perché per una buona volta ho avuto un po’ di amor proprio!» arricciò il naso, indispettita, prima di riabbassare lentamente il braccio, con nonchalance, fingendo d’ignorare il fatto che era appena riuscito a prendersi gioco di lei:«Sono stanca di dovermi sentir dire che tu hai bisogno dei tuoi spazzi, di sentirti libero, che le restrizioni ti vanno strette e che devo prenderti così come sei: un egocentrico incostante» con quel sibilo furente riversò il nervosismo che non è riuscita a sfogare con quella presa mancata:«Per una volta ho semplicemente pensato alla Mia di libertà, al fatto che non volevo rinunciare all’Accademia in cui Voglio studiare per seguire una persona che non ha tempo di darmi retta, troppo indaffarata a coltivare la sua fama tra i propri ammiratori» un lieve rossore accese le sue gote, semplice sintomo di quanto ribollisse di gelosia.
 
«E non hai pensato a noi due?» ignorò spudoratamente quella sequenza d’insulti ben poco velati alla sua persona:«Non posso credere che tu abbia preso questa scelta dando la colpa, più che ingiustificata e crudele, a me. Abbiamo passato l’estate a progettare il nostro futuro e tu ora cambi le carte in tavola da un giorno all’altro. Ma la cosa peggiore è che ti giustifichi dando la colpa a me!» si diede un paio di colpi sul petto, indicandosi con movenze teatralmente affrante, con una lentezza nei gesti quasi drammatica e le sopracciglia corrugate in un espressione delusa.
 
«Ti faranno Santo Martire, James Sirius Potter…» guardò la sua espressione dissolversi in pochi attimi, facendo spazio a quella più seccata di chi, nemmeno quella volta, sembra essere riuscito ad impressionarla:«Io ho pensato sempre a noi due, ma sono stanca di dover cucire la mia vita attorno alla tua: voglio fare ciò che desidero per me. Pensavo che potessi arrivare a capirmi visto che tu lo fai costantemente e ti aspetti che io comprenda…» sbuffò, cercando di mantenere la pazienza davanti a quel teatrale vittimismo, perfettamente conscia che ogni sua parola non avrebbe avuto alcun impatto su quel cocciuto.
 
«Quindi ammetti che lo fai per ripicca!» non si smentì, sentendosi ancora una volta l’ingiusta vittima di una crudeltà tutta al femminile. Tentò così di puntarle nuovamente il dito contro, ma fu costretto a batter immediatamente ritirata quando la vide alzare a sua volta la mano, pronta a non lasciarsi fregare una seconda volta.
 
«No, lo faccio perché è quello che voglio! Non ha nessun valore per te quello che Io, Dominique Weasley, desidero?» alzò un sopracciglio, curiosa di conoscere la risposta che avrebbe ricevuto, leggermente tesa per quell’istinto che la portava ad essere comunque prevenuta.
 
«E non desideri una casa in città, noi due, i nostri amici…» fu con mortificazione che snocciolò quell’elenco, affidandosi ad un tono docile, affettuoso, perdendosi nei suoi occhi con un sospiro ed un aria sognatrice. Conosceva bene i desideri di sua cugina, progetti che aveva sempre rimandato e declinato con astuzia per non ritrovarsi accasato troppo presto, ma che in quei momenti gli sembrarono comunque un’ottima scusa per non lasciarsela scappare.
 
«I tuoi amici» stroncò senza indugio quel suo infido tentativo di ruffianarla, scuotendo il capo indignata dal fatto che potesse far leva sui propri sentimenti, sui suoi desideri per tenerla li, legata a lui:«Si, lo desidero, ma desidero anche seguire l’Accademia degli Obliviatori a Parigi..» mantenne un tono deciso, inflessibile:«Sai, anche Parigi è una città, anche li affittano case e anche li hanno un Accademia Auror. Se vuoi trasferirti con me mi renderesti la donna più felice del mondo» questa volta fu lei ad addolcirsi con un sorriso.
 
«Sai che ci tengo a frequentare l’Accademia di Londra: è migliore di qualsiasi altra in Europa» osservò il languido sorriso ampliarsi sul suo volto, facendosi beffardo e trionfante. Fu quindi costretto a mettere immediatamente le mani avanti, arrendendosi, cedendole la vittoria solo perché si era messo nel sacco da solo. Chiederle di rinunciare al proprio percorso quando lui non l’avrebbe mai fatto sarebbe stato un gesto eccessivamente ipocrita:«Andrai a stare da tua Zia Gabrielle?» chiese cercando il suo viso con il dorso della propria mano, accarezzandone dolcemente i profili. Nel vedere il suo sguardo addolcirsi si sentì pervadere da un calore pungente, quello dell’amore, del desiderio, quella passione che con irruenza lo assaliva ogni volta che con tanta determinazione lei gli si opponeva per poi sciogliersi semplicemente ad un suo gesto affettuoso.
 
«No, pensavo di prendermi un appartamento indipendente» chiuse gli occhi, abbandonandosi a quel gesto, lasciandosi corrompere dalle sue attenzioni che la attirarono verso di lui, languide. Gli avvolse la vita tra le braccia, trattenendolo con un impeto di possesso, serrando le dita sul cotone del maglioncino, assaggiando quel corpo che l’era nascosto. Lo sentì trattenere il respiro per un istante, un respiro che era suo e suo soltanto, un respiro che lei gli aveva tolto, lei e nessun’altro. Si perse nei suoi occhi nocciola, dimentichi finalmente di tutto ciò che li circondava, fissi semplicemente su di lei senza che dovesse dividerli con nessuno: per un attimo solamente era suo, come lei lo desiderava.
 
«Come prospettiva non è male… almeno ogni volta che ti verrò a trovare non dovrò preoccuparmi in quale stanza della casa ci troviamo per poterti baciare senza eccessivo pudore» soffiò quelle parole contro la sua pelle prima di lasciarsi strappare un bacio, casto, eppure così pieno di promesse ed aspettative. Un ampio sorriso gli sfuggì, lo specchio della sua soddisfazione per ciò che, dopo tutto, quella semplice separazione poteva comportare: molto più tempo libero per se e molto più ardimento da parte di Dominque nel dargli il ben venuto a Parigi ogni qual volta fosse sceso.
 
«Se tu non verrai a vivere a Parigi, beh… avevo intenzione di dividere comunque le spese con qualcun altro. Quindi non saremmo proprio soli soli…» assunse un aria pericolosamente angelica, così fragile, innocente… uno sfarfallio di ciglia ed un timidissimo sorriso furono lo stridente suono d’allarme che si era lasciata ingenuamente scappare, quella nota stonata che rimbombò platealmente a far accapponare la pelle al giovane fidanzato, allarmandolo.
 
«Perché ho il sentore che sai già con chi e che la cosa non mi piacerà affatto?» chiuse le palpebre per risparmiarsi quella visione così poco promettente, qual cipiglio così innaturale di purezza e dolcezza che non appartenevano in alcun modo alla sua ragazza, tanto meno nel bel mezzo di una discussione. La sentì aderire maggiormente al proprio petto, farsi più stretta e poté tranquillamente immaginare in che modo si stesse mordicchiando il labbro inferiore, tradendo la tensione che l’assaliva ogni volta che la coglieva con le mani nel sacco. Il suo lungo silenzio, quell’indugiare prima di dargli una risposta gli provocò un forte senso di vertigine, una sensazione che detestava e che solo lei sapeva infliggergli. Lui che amava l’altitudine, il volo istintivo, privo di confini, era vittima di capogiri solo quando teneva i piedi poggiati a terra, solo quando Dominique Weasley gli faceva sfiorare la vetta dell’asia.
 
«Daniel… McKenzie» fu un bisbiglio il suo, pieno d’incertezza. Si strinse nelle proprie spalle e chiuse gli occhi, preparata ad affrontare una piccata reazione, già perfettamente calcolata e forse studiata. Lo sentì sussultare ed allentò la presa sui suoi abiti, pronta a ritirarsi.
 
«COSA?» un urlo secco, così stizzito che persino dagli spalti lo sentirono, interrompendo il loro chiacchiericcio, voltandosi a guardarli, basiti. Lui si limitò semplicemente ad ignorarli:«Allora lo vedi che sei stronza? Lo fai per ripicca, per spudorata ripicca!» con decisione l’allontanò da se, mostrando comunque un certo garbo sebbene l’irritazione era riaffiorata rapidamente:«Lo fai perché ti ha dato fastidio che quest’estate sono andato a Liverpool a vedere una partita con Meredit?»
 
«COSA? Sei andato via una giornata intera con quella scrofa della Mance? Non dirmi che eravate soli…» la sua indignazione rincorse l’eco dell’urlo che si era appena spento tra le pareti dello stadio, riuscendo a far alzare in volo un gruppo di cornacchie appollaiate sugli spalti del corpo insegnanti.
 
«Non lo sapevi? Miseriaccia…» chinò il capo, maledicendosi per quella sua stupidità. Si sfregò la fronte con energia, cercando di far riaffiorare il ricordo di come, quell’estate, avesse gestito quella situazione con Dominique, di quale menzogna le avesse dolcemente rifilato, cercando di non fare un altro passo falso. Optò così per accantonare il discorso: sicuramente la mossa più saggia e sicura:«Non è questo il punto, non tergiversiamo, riportiamo il discorso su di te, su di noi…» con ambo le mani indico prima lei, poi se, dando per una volta la parvenza di porla al suo stesso livello in quella discussione, non ponendosi al centro della questione come individuo singolo, come vittima, tirando in ballo la coppia, lei:«Perché mi fai questo?» fu con voce affranta che fallì in quell’intento. Riportò tutta la faccenda su di se ingenuamente, inconsciamente, istintivamente.
 
«No, no, no… torniamo sul discorso della Mance: io la schianto fino a che non si scorda come si chiama! Non sarà necessario obliviarla…» ruggì, letteralmente:«Giuro che quando vado a vivere a Parigi, con McKenzie, dormirò ogni notte con il completo in pizzo che mi hai regalato tu, anche a costo di non metterlo mai a lavare e di puzzare! Ci girerò sfacciatamente per casa ogni santo giorno!»
 
«Poi non sei vendicativa, mh? Bene, fallo, anzi risparmiati la sgradevole sensazione di puzzare: gira direttamente nuda» alzò la mano destra, furente, chiudendola in un pugno saldo che portò alla bocca, mordendosi con decisione, cercando di sfogarsi in quel modo.
 
«Eviterei senza dubbio la fatica di stirare… ottima idea Potter!» fu in quel preciso istante che sfoderò un ampio sorriso che abbinò ad uno sguardo sornione, con quel suo tono sprezzante, quel suo essere così irritante che sapeva perfettamente competere con lui.
 
«Io ho sempre ottime idee, a differenza tua Weasley! McKenzie, che cosa ci trovi in quel tizio?» portò entrambe le mani al viso, a coprirselo, a cercare di scappare da quella situazione che lo stava facendo letteralmente impazzire. Sentiva l’adrenalina intorpidirgli gli arti, la testa vorticava e stava cominciando ad essere vittima di tediose vampate di calore. Tra tutti gli uomini della faccia della terra lei era andata a pescare quello che meno tollerava. Persino Malfoy era meno irritante di quel tardo ed insulso scimmione.
 
«Tu cosa ci trovi nella Mance?» sistemò le mani sui fianchi, assottigliando gli occhi nell’attendere che avesse nuovamente il coraggio di mostrare la sua faccia, così nervosa e tesa che fremeva come una vipera, pronta a scattare per infierire con brutalità sulla sua preda.
 
«Ha delle tette enormi!» sgranò gli occhi nel riemergere dal proprio nascondiglio, le sue mani. Sfoggiò una tediosa faccia da schiaffi, quel sorrisetto esaltato, compiaciuto, quello sguardo estasiato che durò per pochissimi istanti.
 
«Sei morto!» la bacchetta era già puntata contro il suo petto, a premere contro lo sterno. Quei suoi occhi celesti erano attraversati da una moltitudine di ombre e luci, un gioco bizzarro che rifletteva semplicemente la vivace corsa delle nuvole ma che le conferiva un’aria burrascosa. Era livida in faccia per l’umiliazione e la collera.
 
«Scherzavo! Non stavamo litigando perché tu vai a vivere da sola con McKenzie?» pallido in viso con cautela cercò di scostare quel candido legno di betulla che più di una volta aveva causato spiacevoli contusioni a chi era stato così folle da provocarla. Con movimenti lenti deviò la bacchetta verso sinistra, a mutare il suo raggio d’azione senza che la fidanzata opponesse resistenza.
 
«Vai al diavolo, Potter… l’unica cosa che ti fa infuriare è il fatto che io vada a vivere con un altro uomo» quando riuscì a distrarlo con quella semplice minaccia, catturando la sua attenzione sulla propria bacchetta, fu con uno schiaffo vigoroso sulla spalla che lo colpì a tradimento, detestandolo, imprecando a denti stretti contro di lui.
 
«Non è con un altro uomo, è con McKenzie… McKenzie! Tu uscivi con lui tre anni fa, con quel cerebroleso che non ha mai smesso di ronzarti attorno…» incassò il collo tra le spalle, promuovendo un leggero passo laterale per scappare a quel ceffone che lo colse alla sprovvista e che gli causò non poco dolore. Eppure non volle darle la soddisfazione di piagnucolare per il dolore: sentiva la pelle in fiamme, il muscolo indolenzito ma mai si sarebbe dimostrato ferito da lei, ben conscio che anche la sua mano stava pulsando di dolore per quell’urto.
 
«E l’ho piantato per te… ho scelto te James, ho sempre scelto te per ogni dannatissima cosa» nemmeno lei volle fare la misera figura d’essersi fatta male nel suo stesso tentativo di infliggere quella punizione corporale, sfregando così, con indifferenza, il palmo paonazzo contro la gonna grigia della divisa:«Sei un gallo, pensi solo ad avere la cresta più alta degli altri, ti da fastidio se un polletto da quattro soldi entra nel tuo recinto e non ti importa se la tua gallina dalle uova d’oro cambia fattoria. A te basta che non ci sia un altro pompato come te a cantare per lei ogni mattina quando si sveglia»
 
«Non puoi pretendere che ti prenda sul serio quando usi certe metafore…» alzò istintivamente le mani, pronto all’evenienza di un altro schiaffo, piuttosto prevenuto ora che la fidanzata aveva dimostrato d’aver superato il suo ampio limite di sopportazione.
 
«Mi fai saltare i nervi!» si coprì il volto con ambo le mani, esasperata, oramai esausta per quell’assurda discussione, per l’assurdità stessa di quel ragazzo:«Lo vedi come sei? Non sai mai prendere le mie necessità seriamente, non sei mai in grado di capire di cosa io ho realmente bisogno: sei un cretino e il tuo solo problema è McKenzie!» oramai in quello stato ibrido che conduceva dalla rabbia al pianto di esasperazione, lasciò cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi, disarmata, stufa di combattere contro i suoi mulini a vento.
 
«Tu hai bisogno di McKenzie?» inarcò un sopracciglio, perplesso. La guardò quasi inorridito, ferito nel profondo da quella sua stessa sciocca incomprensione.
 
«No!» incredula alzò gli occhi al cielo, invocando l’aiuto di chiunque avrebbe potuto offrirglielo, oramai priva di alcuna speranza, semplicemente esausta.
 
«Allora perché ci vai a vivere assieme e non resti a Londra con me?» incalzò, sollevato da quella sua risposta negativa, tornando a respirare con molta più tranquillità.
 
«Perché sono stanca di seguirti per sentirmi messa da parte… di sentirmi nascondere le cose, mortificata dal fatto che non mi hai mai chiesto una volta di venire a vedere il Quidditch con te, preferendo quella scrofa della Mance… non voglio rinunciare alle mie aspettative per essere messa in secondo piano. Ti bastano come motivazioni?» per la prima volta dall’inizio di quell’assurda discussione aveva assunto un tono di voce pacato, semplicemente avvilito dall’ostinazione del suo ragazzo.
 
«Tu non sei mai in secondo piano è… è che io…» scosse il capo, finalmente conscio della sua superficialità, finalmente cosciente del senso di tutta quella discussione:«Forse hai ragione: mi arrabbio, mi innervosisco e mi nascondo ogni volta che tu mi chiedi di rinunciare a qualcosa. Mi sembra quasi di perdere la mia libertà, la mia indipendenza e ti allontano» fece un passo avanti andando ad abbracciarla, sentendola abbandonarsi totalmente a quel gesto. Le sorrise, grato di non aver ancora toccato il fondo della sua pazienza, di concedergli la possibilità, ancora una volta, di farsi perdonare:«Non posso chiederti di rinunciare ai tuoi sogni, posso solo appoggiarti, sostenerti e fare il possibile perché si realizzino e ti rendano felice»
 
«James… sei quasi sdolcinato» lo rimbeccò con il sorriso sulle labbra, alzando il volto per osservarlo, per contemplarlo, appoggiando stancamente il mento sul suo torace, gli occhi rivolti verso l’alto per potersi perdere nei suoi:«Ti amo» un semplice sussurro.
 
«Anche io ti amo!» una semplice risata, muta, un moto di gioia, di soddisfazione e di gratitudine. Le sorrise dolcemente con lo sguardo, con il proprio cuore così grato d’esser compreso, di essere amato in maniera incondizionata. Si chinò a concederle un bacio fugace prima di ritirarsi per poterle sottoporre le proprie precisazioni:«Ma giurami che non andrai a convivere con McKenzie» serio in volto, minaccioso nel tono.
 
«Solo se tu dedicherai meno tempo agli altri, eviti di uscire ancora con la Mance e ti godi quest’ultimo anno assieme a me come non hai mai goduto prima…» tese un bieco sorriso beffardo, provocandolo, ottenendo il suo silenzioso assenso, quel suo bacio che la travolse con quella sua  indomita passionalità e quella sua dolce ingenuità…
 
 

***

 

30 Giugno

 

Il binario 9 ¾ era pervaso dalla candida coltre di fumo che pigramente singhiozzava dal Rosso Espresso di Hogwarts. Ombre si agitavano, voci si accalcavano e si rincorrevano in richiami. Tutto era annebbiato, come un sogno che finisce.
 
«Ei, McKenzie… a quanto pare a Parigi dovrai soddisfare le tue necessità personali in completa solitudine…» James Sirius Potter incrociò per puro caso il giovane Tassorosso, stoppandolo con un’amichevole pacca sulla spalla, beffardo e trionfante.
 
«Parigi? Magari poterci andare… ma mi aspetta l’Italia! Sono riuscito ad entrare nell’università Romana! Un sogno che si realizza. Parigi può aspettare…» il suo ampio viso così ingenuo, così eternamente solare e cordiale lo rendeva senza dubbio uno dei giovani più affabili della scuola, una vera irritazione per James Sirius che lo trovava noioso ed amorfo:«Perché mi hai chiesto di Parigi?» la sua espressione ignara fu un duro colpo per il suo interlocutore.
 
«In Italia hai detto?» il sorriso era scomparso dal suo volto, improvvisamente pallido:«Non dovevi andare a vivere in Francia?» chiese aggrappandosi a quell’ultima colomba di speranza, rifiutando con tutto se stesso l’idea di essere stato così stupidamente raggirato.
 
«No, Parigi non è mai rientrata nei miei progetti! Chi te l’ha detto?» lo fisso in viso, sorpreso per quella sua domanda, tanto da ignorare bellamente il fatto che i suoi occhi lo superarono, andando a guardare oltre le sue spalle.
 
«Dannati Serpeverde, che se li porti via la Piovra Gigante…» mormorò trovando immediatamente la chioma ramata di Dominique, così piacevolmente persa nei suoi chiacchiericci solari e piccanti con la sorella Victoire, due vipere che si rincontravano dopo mesi:«Me l’ha fatta di nuovo quella serpe… mi ha rimesso nel sacco maledizione!» si sfogò con uno semplice scappellotto a McKenzie, un ragazzo innocente, ignaro e colpevole di essere dannatamente stupido. Quel giorno, James Sirius Potter dovette accettare la sconfitta, dovette rassegnarsi al fatto di aver trascorso un anno a soddisfare ogni assurda richiesta di Dominique Weasley sotto un ricatto totalmente fasullo.
 
Sorrise, realizzando che, ancora una volta, un Potter si era scottato con l’amore per una donna dai capelli come il fuoco, in un circolo vizioso che parve essere oramai un dono di famiglia.

   
 
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