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Autore: IlariaJH    27/06/2013    11 recensioni
Appena tirata su, la colazione perde tutta la sua importanza. Non sento più l’odore di brioches e caffè. Non presto nemmeno attenzione al mio stomaco che continua a brontolare dalla fame. Sono seduta davanti all’attore per cui ho una cotta da quando avevo sedici anni. Sono seduta davanti a Josh Hutcherson.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: PWP
Capitoli:
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Blackout.

Don’t kid yourself,
And don’t fool yourself.
This life could be the last,
And you’re too young to see.
Muse – Blackout.

 
 

Ore 10.30, Los Angeles.
 
Josh aveva passato tutta la sera prima e la mattina stessa seduto sul divano in salotto ad aspettare. Non aveva nemmeno dormito. Nonostante ne sentisse il bisogno, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi andare al sonno. Lei sarebbe potuta arrivare da un momento all’altro.
«Non vuoi nemmeno fare colazione?» Connor si avvicinò porgendogli una porzione di frittelle ancora fumanti.
Lo stomaco del ragazzo si contorse dalla fame e si ritrovò a pensare che mangiare non l’avrebbe poi distratto così tanto dalla continua contemplazione dell’ingresso. Così accettò le frittelle, mormorando un leggero ringraziamento al fratello.
Aveva notato che anche lui era preoccupato da tanto ritardo. Ilaria, dopotutto, era una ragazza puntuale. L’aereo sarebbe dovuto atterrare alle tre di notte e lei, tramite Janet, aveva comunicato che avrebbe usato un taxi per tornare a casa. Quanto ci voleva dall’aeroporto a casa? Un quarto d’ora. Venti minuti, se proprio c’era traffico. Ma Josh non credeva che alle tre di notte le strade fossero poi così intasate.
Aveva passato tutta la notte a chiedersi se lei avesse scelto di non tornare a casa. Se avesse scelto Alex, invece che lui. Il solo pensiero gli faceva serrare la mascella dalla gelosia. Quel biondo tutto muscoli non gli era mai andato a genio, ma quando si era avvicinato e aveva posato un bacio sulla guancia della sua ragazza non ci aveva più visto. Era riuscito a tenersi le cose dentro fino a due giorni prima poi, però, era scoppiato. Ovviamente, nel momento stesso in cui aveva pronunciato il suo ultimatum e visto la delusione negli occhi di Ila, se ne era pentito. Ma ormai era stato troppo tardi per cambiare idea. C’era comunque anche da dire che non poteva essere sempre lui quello accomodante. Le aveva fatto capire benissimo che il vederla scherzare con Pettyfer gli dava fastidio, ma lei non aveva smesso. E a giocar col fuoco, prima o poi, ci si scotta.
Adesso, però, il pensiero che lei lo avesse lasciato per quell’odioso pezzo di… okay, si doveva calmare. Non poteva continuare così.
«Josh, io non vorrei essere sempre…»
Da quando Connor si era svegliato, non aveva smesso di lanciargli occhiate furtive. Josh non le sopportava. Non voleva che il fratello lo guardasse con quella espressione che gli toccava sorbirsi tutte le volte che una ragazza lo scaricava. Che ne sapeva poi lui, che era anche più piccolo! Ila non lo aveva scaricato per Pettyfer. Era molto probabile che l’aereo fosse partito in ritardo. Che ci fossero stati problemi con i voli e lei fosse ancora in Canada ad aspettare di partire.
«Arriverà, Connor. Me lo sento.»
«Josh…»
«Non dire il mio nome in quel modo. Io so che tornerà. Lo so.»
E ne era davvero sicuro. Nonostante gli fosse passato per la testa che se l’aereo non fosse partito o ci fossero stati cambiamenti di orari di sicuro Janet lo avrebbe informato, aveva accantonato l’idea. Ilaria non lo avrebbe lasciato così.
Il fratello si zittì, e Josh notò ancora quella occhiata piena di pena e di compassione. Cos’è, lo credeva veramente così disperato in fatto di ragazze? Non è che solo perché l’ultima l’aveva scaricato per un altro, adesso doveva diventare un rito.
E poi… Ila era diversa. Lei ne aveva passate di tutte i colori nella sua vita. E ne aveva passate di tutti i colori con lui. La loro storia non sarebbe finita così, per colpa di un biondo egocentrico.
Improvvisamente, perse il filo dei suoi pensieri e cominciò a sentire le palpebre pesanti. Si diede un pizzicotto al braccio e i suoi occhi tornarono ad aprirsi.
«Conn, mi sporgi del caffè, per favore?»
Avrebbe per forza dovuto ripiegare sul caffè. Doveva rimanere sveglio.
Si sedette più comodamente sul divano e sentì qualcosa di duro sotto la coscia. Tastando, trovò il telefono e, continuando a tenere sotto controllo la porta, si assicurò che non ci fossero novità. L’unica cosa che trovò fu un messaggio lasciato in segreteria, presente nelle sue notifiche dal pomeriggio del giorno prima. Da quanto tempo era che non guardava il telefono?
Si portò il telefono all’orecchio per ascoltarlo.
E riconobbe immediatamente la sua voce, perdendo quasi un battito.
 
«Ciao Josh, sono Ila. Ecco… volevo augurarti buona fortuna per l’incontro con i produttori, ma Janet mi ha detto che sei già con loro, quindi… beh, fammi sapere com’è andata e… Dio, non so che dire! Mi… mi dispiace per ieri sera. Io… io credo… io ti amo e ho sbagliato. Ho sbagliato perché sapevo cosa provavi ma… era come, non so… Ogni volta che ero con lui era come se mi dimenticassi del resto e… Io… io ti chiedo solo di perdonarmi perché sei la cosa migliore che mi sia capitata e… sai, non voglio perderti solo perché sono un’idiota. Sappi che… sappi che sono disposta a tutto per te e, anche se sei arrabbiato, non mi arrenderò. Esattamente come tu non ti sei arreso con me. Non… non era mia intenzione farti soffrire. Davvero, sono… E’ solo che a me servono le batoste per capire che forse sto sbagliando. Mi dispiace. Ci… ci vediamo a casa. Ti amo.»
 
Dovette ascoltare il messaggio due volte per comprendere appieno il significato di quelle parole e poi si lasciò andare sul divano.
Aveva scelto di stare con lui. Non lo aveva abbandonato per Alex. Lei sarebbe rimasta.
E allora perché non arrivava? Perché non era ancora tra le sue braccia?
Il filo dei suoi pensieri venne interrotto da Connor.
«C’è Janet in linea.» disse, porgendogli il cordless.
I loro occhi si incontrarono un attimo e, per un istante intravide il panico nello sguardo del fratello. Solo una frazione di secondo. Poi passò, come se non ci fosse mai stato.
Prese il cordless, le parole di Ilaria ancora che gli ronzavano nella testa, rendendo tutto un po’ più confuso e incorniciato da un alone di felicità.
«Pronto?»
«Ma dove hai il telefono?!»
La voce della donna lo sorprese. Poche volte nella sua vita l’aveva sentita così. Il tono pacato e sicuro non veniva mai sostituito da nessuna sorta di emozione quando lavorava. Poche volte l’aveva vista concedersi una risata, figurarsi lasciarsi andare al panico totale!
«Stavo…»
«Accendi la tv. Guarda il notiziario. Adesso!»
Mentre frugava tra le pieghe del divano, cercò di pensare a qualcosa che potesse essere talmente grave da mandare nel panico Janet, ma non gli venne in mente nulla. Perfino durante l’arrivo dell’ultimo uragano che aveva miracolosamente lasciato indenne Los Angeles aveva mantenuto il suo tono professionale. Credeva che nemmeno un’invasione aliena l’avrebbe piegata. Quella donna era una pietra.
Iniziò a preoccuparsi anche lui.
«Connor, dove diavolo è finito il telecomando?!»
Nessuna risposta. Eppure il fratello era solo a una stanza di distanza.
«Connor?»
Si alzò dal divano, la preoccupazione ormai aveva preso il sopravvento su qualunque altra cosa. In cucina, il fratello aveva acceso sul notiziario. Scene confuse si susseguivano. Un pullman ribaltato in fiamme, persone ferite, altre che venivano portate via in ambulanza, miracolosamente vive. Un sacco di facce che non aveva mai visto, che lo portarono a chiedersi perché mai avrebbe dovuto accendere la tv sul notiziario.
E poi la vide.
Avrebbe riconosciuto quel viso anche senza vederlo.
Coperto da graffi, contornato da una pozza di sangue, gli occhi chiusi. Ma lui la riconobbe.
Per poco non gli cadde il telefono di mano.
«Josh..?» la voce di Janet gracchiò dal telefono.
Ma lui non sentiva niente. Nonostante l’immagine fosse cambiata, lui continuava a vedere quel viso immobile. Tutto intorno a lui non esisteva più nulla.
Sentì soltanto la voce lontana del fratello che, come sempre, riusciva a tramutare i suoi più profondi pensieri in parole.
«Josh, credo che nessuno aprirà quella porta oggi.»

 
Stesso giorno, ore 19.30, Torino.
 
Lesse l’ultima frase del capitolo, sconvolto dalla piega che avevano preso gli eventi per il povero personaggio principale, costretto a dover scegliere se tradire la patria o morire. Adesso doveva assolutamente sapere che cosa sarebbe successo. Voltò la pagina e prese a leggere un altro capitolo ma, in quel momento, puntuale come solo un orologio svizzero avrebbe saputo essere, la moglie lo chiamò per cenare. 
Non ebbe fretta di alzarsi. Probabilmente per avere il piatto pieno avrebbe dovuto aspettare almeno un quarto d’ora buono. La moglie era una di quelle persone per cui vedere l’orologio segnare le dieci e mezza equivaleva a vedere l’orologio segnare le undici.
Ma a quanto pareva lei non voleva mollarlo. Sentì i suoi passi raggiungerlo e, in meno di un secondo, si ritrovò senza libro.
«Ho detto che è pronto.» gli disse, guardandolo male.
Lui alzò gli occhi al cielo e la seguì in cucina. Si sedette, come sempre, al suo solito posto e, come sempre, si ritrovò a pensare a quanto fosse strano trovarsi seduti a tavola in tre, invece che in quattro.
La sua era diventata quasi un’abitudine. Durava ormai da un anno e non ne aveva reso partecipe nessuno, sperando che prima o poi passasse. Ma non passava, anzi, peggiorava.
Sapeva benissimo che Ilaria stava bene, a Los Angeles. Josh la rendeva felice ogni giorno di più e, anche se non avevano sue notizie da quando aveva interrotto le riprese del film per dare gli esami, erano convinti che la sua vita fosse praticamente perfetta.
Ogni sera, però, si ritrovava a guardare la sedia vuota, sentendo il cuore appesantirsi dalla tristezza di non poter vedere la figlia più grande ogni volta che lo desiderava. E, ogni sera, vedeva la moglie e la figlia più piccola fare lo stesso.
E poi, tutto passava.
«Come è andata oggi a scuola?»
«Il lavoro?»
«Oggi è successa una cosa che…»
«Mia mamma ti manda le acciughe.»
«Quel cretino del mio capo…»
«Il mio professore è un idiota.»
E la cena passava. Come sempre. Poi si sparecchiava tutti assieme e ognuno tornava a fare quello che stava facendo prima.
Così, sbadigliando, tornò a sedersi sul divano, deciso a finire il capitolo e, se ci fosse riuscito, anche il libro. Tolse il pezzo di carta che usava come segnalibro, si sedette comodamente, spostando i cuscini per allungare le gambe, pronto a rilassarsi e…
Il telefono squillò.
«Irene, rispondi al telefono!»
La ragazza gli corse davanti in direzione del cordless. La vide rispondere e fare una smorfia. Quella era la smorfia delle “chiamate indesiderate”: quelle telefonate da gente che voleva proporti qualunque cosa, dai contratti alla frutta. Così tornò a prestare attenzione al suo libro. Irene se la sarebbe cavata da sola.
Si sorprese quando vide con la coda dell’occhio la figlia raggiungerlo e porgergli il telefono.
«Chi è?»
«Una tizia che parla in inglese. Non si capisce niente.»
Alzò un sopracciglio, ritrovandosi a pensare che non conosceva nessuna persona inglese.
«Pronto?» rispose alla voce della donna.
Doveva essere americana, perché si mangiava tutti i finali delle parole e cambiava l’uso dei verbi. La sua voce cercava di essere tranquilla, ma si sentiva che stava nascondendo la preoccupazione.
Cominciò dicendogli che chiamava da un ospedale a Los Angeles, che c’era stato un incidente: un pullman si era ribaltato dopo che l’autista, alla guida in stato di ebbrezza, era andato a scontrarsi contro un guard-rail. L’autista ne era uscito indenne, con solo qualche graffio e un braccio rotto, ma c’erano stati sette feriti gravi, otto morti e due ragazzi in coma.
L’uomo continuò ad ascoltarla durante tutto il suo racconto, ma non capiva dove volesse arrivare. Il fatto che lo chiamasse l’ospedale di Los Angeles lo incuriosiva e al tempo stesso lo preoccupava. Il viso della figlia più grande era impresso nella sua testa, ma il suo cervello continuava a negare quell’ovvietà a cui ormai era arrivato.
Quando finalmente la donna smise di girare attorno alla notizia che gli premeva sapere, il suo cuore prese a battere troppo forse. O forse perse un battito. Per un attimo vide tutto nero e sentì le gambe molli. Fortuna che era già seduto o sarebbe caduto a terra. Chiuse la conversazione, mormorando un appena udibile “okay” e poi il suo sguardo si perse nel vuoto.
«Papà, che cosa voleva?»
La voce della figlia gli arrivò così lontana alle orecchie che per un attimo pensò di essersela immaginata. Cercò di riprendersi.
«Devo partire subito per Los Angeles. Devo… Ilaria… io…»
E svenne.

 
Stesso giorno, ore 8.30, Los Angeles.
 
Billie ne aveva visti tanti come lui.
E come loro.
Con il suo lavoro non poteva essere altrimenti.
Facevano tutti la stessa fine.
L’autista ubriaco che decide comunque di mettersi alla guida di un pullman di linea.
L’incidente.
Il ragazzo che viene ferito gravemente. La ragazza che subisce solo qualche graffio. Quella che si rompe qualche osso. Quello che finisce sulla sedia a rotelle per il resto della sua vita. Quello che va in coma. E quella che muore.
Perché alla fine qualcuno ci rimette sempre la vita. L’autista ubriaco ne esce illeso ogni dannata volta. Ma un innocente ci rimette sempre.
Billie ne aveva viste tante di tragedie. E finivano sempre così.
Tutto attorno alla carcassa ribaltata dell’autobus era confuso e agitato. Alcuni vigili del fuoco spegnevano le fiamme, altri correvano dai loro camion all’autobus, portandone fuori le persone ancora vive e cercando a fatica quelle morte. Le sirene delle ambulanze si avvicinavano ululando, facendo capire chiunque passasse di lì che c’erano dei problemi. Le volanti della polizia si fermavano tutto attorno al luogo della tragedia, cercando di tenere lontani i curiosi e i giornalisti che, non si sa bene come, spuntavano come funghi da tutte le parti.
Le persone ferite venivano portate vicino alle ambulanze dove i medici si davano da fare per curare momentaneamente i loro mali. In seguito sarebbero stati portati tutti in ospedale. I cadaveri, invece, venivano soltanto allontanati dalle fiamme, e lasciati a terra in modo che non intralciassero il lavoro dei vigili del fuoco.
Billie notò con amarezza che, come tutte le dannatissime volte, i cadaveri erano più dei sopravvissuti. Chiuse gli occhi, cercando di isolarsi da tutta la disperazione che sentiva avrebbe raggiunto quel posto di lì a poche ore. Non capiva perché fosse venuto anche lui lì. Dopotutto, adesso che era diventato il capo del suo dipartimento, poteva benissimo starsene seduto in poltrona a dare ordini. Ma, puntualmente, lui lasciava la poltrona per seguire i suoi uomini sul campo.
«Stai invecchiando, Billie.» gli diceva ogni tanto sua moglie, preoccupata. «E’ arrivato il momento che lasci andare altri a fare il lavoro sporco.»
Ma lui proprio non ce la faceva. Metterlo in poltrona era come proibire ad un bambino di fare qualcosa. Sicuramente, prima o poi, il bambino avrebbe fatto quella cosa che gli era stata proibita di fare. Come sicuramente, prima o poi, lui si sarebbe alzato da quella poltrona.
Si avvicinò ai cadaveri. I loro volti ancora scoperti, dato che quelli della scientifica, come sempre, erano in ritardo e nessuno si era ancora preso la briga di coprirli. Volti di ragazzi sconosciuti che non avrebbero più avuto un futuro. Che non avrebbero più aperto gli occhi. Che non avrebbero più cambiato posizione.
Billie li fissò tutti attentamente, cercando di imprimere ogni dettaglio di quei visi nella sua testa. Non sapeva bene perché, ma lo faceva tutte le volte che vedeva dei morti il cui decesso era dovuto a cause non naturali. Come a volersi ricordare delle atrocità di questo mondo.
Graffi, sangue, bruciature. Posizioni innaturali. Graffi, sangue, bruciature.
Si sentiva male ogni volta, ma continuò a passare in rassegna a tutti i corpi.
Uno di essi catturò la sua attenzione. Era il corpo di una ragazza. Gli occhi chiusi, il corpo pieno di graffi e, dalla posizione innaturale del braccio sinistro, probabilmente un osso rotto. La testa era immersa in una pozza di sangue. Il corpo immobile. Era, ovviamente, morta, ma il suo viso lo attirava insolitamente.
Come se quella ragazza l’avesse già vista da qualche parte. Come se la conoscesse.
Billie si chinò su corpo cercando di immaginare quel viso privo di graffi, magari sorridente… Fu allora che comprese. L’aveva già vista in foto. Gliela aveva mostrata sua figlia dicendo che era la ragazza più fortunata del mondo perché stava con un certo Josh Hutchqualcosa.
Ne era sicuro al cento per cento. Era lei. Gli bastava immaginarsela con un sorriso sognante, gli occhi castano-verdi luminosi, i capelli lisci senza quel contorno ripugnante di sangue e, in fine, a braccetto di quel giovane immortalato in tutti i poster con cui sua figlia aveva tappezzato la camera.
Gli venne un groppo in gola.  
Fortunatamente, l’arrivo della scientifica, lo distrasse dai suoi pensieri.
«Signore, dobbiamo coprire i corpi.»
Si allontanò un poco, continuando a fissare gli uomini che armeggiavano con dei teli neri. Quando finirono, però, mollarono i cadaveri lì, rimandando a più tardi il loro spostamento.
«Signore, i giornalisti chiedono di lei.»
Un ragazzo mingherlino dalla chioma bionda gli si parò davanti. Un novellino, sicuramente. Chiuse gli occhi e scosse piano la testa.
«Non voglio parlare con quella gentaglia.»
«Ma, signore…»
«Falli parlare col capo dei vigili del fuoco. Io non ho fatto nulla qui.»
«Signore…»
Il ragazzo stava per aggiungere qualcosa, ma Billie gli voltò le spalle camminando verso i cadaveri. C’era come una forza di attrazione che lo spingeva ad andare vicino al telo nero che copriva la ragazza…
«Io…» il novellino, però, non dava segno di volerlo lasciare in pace.
«Ragazzo, fai quello che ti ho detto.»
Non aveva voglia di sgridare nessuno, ma i novellini testardi proprio non li reggeva.
«Sì, signore. Vado subito, signore.» il ragazzo fece per allontanarsi, aggirando il corpo che Billie continuava a fissare intensamente. Dopo pochi passi, però, si fermò. «Mi ha chiamato, signore?»
Billie lo guardò come se fosse matto. Gli aveva appena dato un ordine e gli aveva detto di eseguirlo subito. Perché era ancora lì che gironzolava cercando scuse e chiedendogli se avesse pronunciato il suo nome?!
Come se fosse diventato lui il pazzo, invece che il novellino.
«Ragazzo, non so nemmeno qual è il tuo nome!»
«Josh, signore, e qualcuno…» si guardò attorno, cercando la persona che aveva pronunciato il suo nome.
Anche Billie si guardò attorno, ma erano circondati da cadaveri. E sicuramente nessuno di loro, nemmeno volendo, avrebbe potuto parlare. Il ragazzo stava decisamente delirando.
Fece per mandarlo via e fu allora che lo sentì: appena udibile, se non per un orecchio attento. Un sussurro flebile che si spezzo quasi subito. “Jo…”, diceva.
Abbassò lo sguardo sul telo nero che ricopriva la ragazza, si chinò di scatto e lo scostò con forza. Avvicinò l’orecchio alle labbra appena socchiuse della giovane e quasi gli venne un colpo quando si accorse che stava respirando. Lentamente e con non poche difficoltà, ma stava respirando. Stava respirando davvero!
Si scostò di scatto. «E’ viva! Và a chiamare qualcuno, subito!»
Il ragazzo non si mosse, pietrificato sul posto dalla sorpresa.
«Ragazzo, và! Potrebbero ancora salvarla!»
Dovette dargli uno spintone per farlo riprendere, e poi lo guardò correre via verso l’ambulanza più vicina iniziando a parlare a raffica e indicando con gesti frenetici Billie e il quasi-cadavere.
Scostò definitivamente il telo dal corpo e prese tra le sue la mano della ragazza.
«Ti chiami Ilaria, giusto?» gli era venuto in mente in quel momento e, anche se sapeva che lei non avrebbe risposto, provò a parlarle lo stesso. «Sì è così. Mia figlia mi ha parlato di te. Ti stima molto, sai? Ti considera un esempio lampante del fatto che tutti possiamo fare avverare i nostri sogni, se ci crediamo veramente.» Accostò nuovamente l’orecchio alle sue labbra e sentì ancora i suoi respiri lenti e affaticati. Diminuivano. Se non l’avessero portata subito in ospedale sarebbe morta. «Ora però, Ilaria, devi promettermi che non morirai. So che puoi farcela. So che vuoi ancora vivere. Chissà quante persone là fuori ti vogliono bene! Non puoi mica deluderle così, vero?»
Vide correre verso di loro i medici.
«Coraggio! Ancora poco e sarai salva. Coraggio.»

 
 
 

SPAZIO AUTRICE.

 

Voi non ci crederete, ma avevo in testa questo capitolo da quando ho iniziato a scrivere questa FF. Il resto, per qualche capitolo, è già tutto pronto nel mio cervello. Deve essere solo più messo per iscritto, quindi immagino che aggiornerò più spesso! **
 
Anyway, su Facebook ho chiesto chi poteva essere il terzo narratore, anche se ovviamente sapevo che non ci sareste potute arrivare (Ilaria cattiva mode: on :P) ma è stato bello leggere i vostri commenti :3
Sì, mi prendo bene per così poco. E sì, sono un caso disperato .-.
 
Questo capitolo è uscito un po’ corto, lo so, ma dilungarmi troppo in descrizioni inutili non mi sembrava bello così.. beh, questo è il risultato!
 
Il prossimo capitolo tornerà a essere scritto in prima persona dal punto di vista di Ila v.v
Però lo scrivere in terza persona è stato davvero piacevole e, se il mio progetto di scrivere una storia originale andrà in porto, la scriverò in terza persona ^^
 
Vi lascio in link della mia pagina FB - - - > Ilaria.
 
Un bacione, Ila. 

  
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