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Autore: DigitalGenius    27/06/2013    7 recensioni
Garfield arrossì lievemente. Non poté evitare che il cuore gli si fermasse, nel guardarla, anche se non era la vera Raven.
«Allora, cosa ti porta qui?» gli domandò lei sorridendo.
Garfield dischiuse le labbra per risponderle. All’improvviso tutti i suoi piani, tutti i discorsi a cui aveva pensato per riportare Raven tra i Titans, sembravano inutili. Chinò lo sguardo e strofinò per terra una suola della scarpa.
Sentiva quegli occhi addosso a sé e quello sguardo lo trafiggeva.
«Dov’è che sono le altre emozioni? Potrei parlare con alcune di voi?» esordì all’improvviso agitando le punte delle orecchie.
Coraggio scrollò le spalle. Il sorriso le si spense mentre si avvicinava al bordo del precipizio su cui si trovavano. «Loro non verranno» annunciò rassegnata. «Si vergognano»
«Perché dovrebbero?» le domandò il ragazzo seguendola. «Sono sempre il buon vecchio Beast Boy, credevo di piacere almeno alla metà di loro»
«Tu ci piaci» lo tranquillizzò lei nel vederlo quasi nel panico. Gli sorrise. «Diciamo che non sono pronte ad incontrarti. O almeno non lo sono la maggior parte di loro»
«Perché?» domandò Garfield mogio. «Perché loro no e tu sì?»
«Perché?» ripeté lei. «Perché io sono il Coraggio»
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beast Boy, Raven, Robin, Starfire
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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GIORNI DI SOLE


Appena fuori dall’edificio, Garfield rischiò di inciampare sul marciapiede e ruzzolare per terra. Contare i soldi della sua busta paga camminando per strada non era stata una buona idea. Li rimise nella busta, la ripiegò e la infilò nella tasca posteriore dei pantaloni. Si guardò attorno con curiosità, riconoscendo il familiare ambiente cittadino. Lo stomaco brontolava leggermente, ricordandogli la colazione mancata. Guardò l’orologio al suo polso, notando che il suo incontro di lavoro si era prolungato più del previsto. Ringraziò il cielo che mentre era stato nell’ufficio del suo capo non ci fossero stati disordini in città, perché altrimenti avrebbe dovuto interrompere l’incontro e messo a repentaglio il suo lavoro e la sua copertura.
Mancavano una decina di minuti all’una e lui sapeva che il locale all’angolo aveva un menù particolarmente interessante. Si assicurò che la sua moto fosse ancora al suo posto, poi percorse il marciapiede, passando davanti all’edicola lanciò un’occhiata soddisfatta all’espositore. L’ultimo volume del suo fumetto era uscito appena un paio di giorni prima e lui non poteva che essere soddisfatto della fama che stava acquisendo uscita dopo uscita.
Si fermò al semaforo assieme ad un consistente gruppo di pedoni, tutti in attesa che le auto si fermassero per lasciarli attraversare. Quando questo successe la folla sciamò sulle strisce pedonali, per poi disperdersi una volta arrivati sul marciapiede opposto.
La vetrina esponeva numerose leccornie, ma Garfield sapeva bene a cosa mirava quel giorno. Si mise in coda, aspettando il suo turno. Nel frattempo recuperò il cellulare dalla tasca dei jeans, scoprendo di avere un nuovo messaggio e due chiamate perse.
Era ovvio che si fossero accorti della sua assenza, data la tarda ora. Di solito riusciva a sgattaiolare fuori e rientrare prima di pranzo.
“Torno tra un’oretta” , scrisse. Inviò il messaggio direttamente al cellulare di Richard e rimise via il proprio. Quando sollevò lo sguardo scoprì che era quasi arrivato il suo turno. Lanciò un’occhiata al cartellone appeso alla parete, scorrendolo con un’occhiata rapida senza prestarci veramente attenzione.
«Un panino con un hamburger di soia ed insalata, per favore» chiese accennando un sorriso alla signorina dietro il bancone. Lei ammiccò, poi farcì il panino e lo infilò in un sacchetto di carta. «Nient’altro?» domandò la ragazza sistemandosi il grembiule. «Qualcosa da bere?»
«Un bicchiere grande di succo d’arancia, magari» rifletté Garfield. Aspettò di essere servito e salutò le commesse con un cenno.
«Paga alla cassa»
Una volta fuori il profumino del suo pranzo – e quello del resto dei cibi del locale – era ancora nelle sue narici. Ora non gli restava che trovare un angolino tranquillo e pranzare con calma.
Il parco, pensò, non era molto distante. Tornò alla sua moto, infilò il sacchetto sotto il sedile e mise il casco.
Il parco era più affollato di quanto si aspettasse. Le prime giornate di primavera avevano a quanto pare attirato parecchie persone. Le famiglie che sedevano sull’erba nel bel mezzo di un pic-nick erano un paio. Scrutò il parco alla ricerca di un albero sotto cui sedersi per rilassarsi un po’. Finalmente avrebbe potuto festeggiare le sue vittorie della settimana e, ovviamente, rimuginare un po’ sul giorno che, nonostante lui non ne fosse poi così felice, si avvicinava inesorabilmente.

Lilith chiuse gli occhi, seppellì il volto dentro il colletto della giacca nera mentre sbuffava. Seduta su un’anonima panchina di un altrettanto anonimo parco, non poté fare a meno di pensare che essersi persa in quel modo fosse una cosa fin troppo stupida. Nemmeno suo fratello Jerry sarebbe stato in grado di sbagliare così platealmente.
Maledetto autobus, pensò.
Il parco pullulava di persone: coppiette sedute all’ombra degli alberi, un paio di famiglie stavano facendo picnic sui tavolini e bambini si lanciavano palloni. Lilith distolse lo sguardo, sperando che quei rumori fastidiosi smettessero di echeggiarle in testa.
Si concentrò su un anziano dai capelli radi e grigi che si stava avvicinando al laghetto delle anatre ed aveva preso a lanciare pezzi di pane dentro l’acqua. Avvertì un angolo della mente improvvisamente calmo, una lieve malinconia l’avvolse, stordendola. Strinse i denti e chiuse gli occhi. Estraniati, s’impose, queste non sono le tue emozioni.
Un uomo in giacca e cravatta le passò davanti alla panchina. Correva, gli occhi puntati all’orologio da polso, portava con se una ventiquattrore. Diverse sensazioni confuse le rimbombarono in testa, l’uomo si allontanò. Le sfuggì un sospiro stanco, spero che Jerry mi trovi in fretta.
«Ehi, rossa» disse una voce maschile «Posso sedermi?».
Alzò lo sguardo, un ragazzo dai capelli castani le rivolse un sorriso gentile, teneva stretto al petto un pacchetto unticcio e nella mano libera aveva un fumetto. La figura sfumò, una distorsione – simile a un lampo di energia nera – le attraverso gli occhi; ora il castano aveva la pelle verde. Il sorriso, però, era lo stesso.
Avvertì un fondo di tristezza gonfiarle il cuore. No! Pensò Lilith, estraniati, estraniati, estraniati. Lo sconosciuto le sventolò il fumetto davanti ai volto, le pagine le solleticarono il naso «Ehi, mi hai sentito?» chiese «Posso sedermi, Rossa?».
Lilith sbuffò, la sensazione di pesantezza continuava ad opprimerle il cuore «Fai pure, Macchia Verde». Si spostò di lato, ma il ragazzo rimase in piedi con la bocca spalancata. Passò lo sguardo dalla propria mano, al volto della giovane.
«Tu mi vedi? Cioè!» si pizzicò la guancia con forza. Fissò il proprio palmo aperto e batté indice contro un anellino grigio «Non ci credo, si sono scaricate le batterie a ‘sto coso?».
«Devo dedurre che non ti vuoi più sedere?» gli chiese.
Lo sconosciuto mosse le mani in segno di diniego: il cuore di Lily s’alleggerì, anche se aleggiavano ancora i rimasugli della sensazione negativa «No, che certo che mi siedo!» proseguì lui. Si lasciò cadere sulla panchina ed inspirò.
Nello stesso istante, anche Lilith prese un profondo respiro. Uno dei motivi per cui detestava essere empatica era l’essere così soggetta ai sentimenti delle altre persone.
Lo sconosciuto poggiò il fumetto al suo fianco e aprì il sacchetto unticcio «Ah!» esclamò, si voltò verso Lily «Non mi sono ancora presentato sono Garfield, piacere». Tirò fuori dal sacchetto un hamburger di soia «Sembri di cattivo umore» commentò con un sorriso, diede un morso e inghiottì rumorosamente «Vuoi un po’?».
«No, grazie» La ragazzina si mordicchiò il labbro inferiore, che seccatore, pensò. Si passò una mano tra i capelli, come faccio a contattare Jerry? Non sono mai stata in questa zona. «Ti piacciono i fiori?» chiese Garfield.
Lilith sbatté le palpebre diverse volte, prima di voltare la testa contro il ragazzo verde «Prego?» chiese «Come hai fatto a capirlo?».
Garfield le sorrise di rimando, accartocciò il sacchetto e lo lanciò dentro un bidone. Si sfregò il naso con l’indice «Hai tante di quelle fragranze addosso, tutte piante che fioriscono in questa stagione» gli sfuggì una risata. Sembrava così vera, eppure, grazie alla sua empatia, Lilith si accorse che il ragazzo si sforzava di essere allegro. «Devo dire che è un poco fastidioso starti vicino» proseguì lui, annusò l’aria intorno a se.
Grazie tante! Lily scrollò il capo, forse l’idea migliore era ignorarlo.
Garfield arricciò il naso, afferrò il fumetto «Sei stata in una chiesa, recentemente? Odori anche d’incenso» strizzò gli occhi, prima di passarsi per l’ennesima volta la mano sotto le narici. Lilith si mise una mano sul colletto della giacca, scostò un lembo e, sforzandosi di non farsi vedere, l’annusò. Possibile che i suoi vestiti si fossero impregnati così tanto d’incenso?
Garfield batté le mani davanti al volto «Visto che sei stata tanto carina da farmi compagnia» disse, «Posso darti un passaggio fino a casa tua? Dove abiti?».
Le spalle le bruciarono, mentre il calore s’espandeva fino alle guance. Doveva essere diventata rossa. Il passaggio di quello strano tizio le avrebbe fatto comodo, ma Jerry l’avrebbe rimproverata. Non poteva lasciare tracce.
«Io» mormorò la ragazzina, incassò la testa tra le spalle «Veramente, dovrei prendere l’autobus, adesso. Ho un impegno».
Un ghigno divertito s’allargò sul volto di Garfield «Non mi dire. Ti sei persa?».
Lilith ingoiò una rispostaccia, «Sì» esalò.
Il ragazzo le rivolse un’espressione comprensiva, la esortò ad alzarsi e la condusse via dal parco «Vieni,» le disse, incoraggiante «la fermata è a nemmeno due minuti da qui». Camminarono in silenzio; la ragazzina, a poco a poco, iniziò a riconoscere gli edifici e i pochi punti di riferimento che ricordava. Al punto che oltrepassò Garfield e prese a camminare, veloce, verso le strisce pedonali. Le sarebbe bastato attraversare la strada per arrivare a destinazione.
Le mani del ragazzo si poggiarono sulle sue spalle, e la costrinsero a compiere un brusco movimento all’indietro «Non così di fretta!» ridacchiò, la spinse dentro un negozio.
La sensazione di lieve infelicità – quella di Garfield – che le aveva stretto il cuore fino ad allora, scomparve. Gli occhi della ragazzina si animarono, felici. Quel tizio verde l’aveva condotta da un fiorista.
Lasciò scorrere lo sguardo sulle piante disposte negli scaffali, si ripeté i nomi con cui erano conosciute comunemente e quelli in latino. Sorrise, fermandosi davanti a un giglio.
«Ti piace?» chiese il ragazzo.
Lilith sfiorò con i polpastrelli il vaso del fiore «Sì» dischiuse le labbra, più che altro, si disse, le piaceva uno dei significati che poteva avere. «Non è il mio preferito, ma sì». Il giglio simboleggiava la purezza d’animo e, per un certo senso, lo invidiava. Si portò una mano al petto; per quanto lo desiderasse, non sarebbe mai stata come quel fiore.
«Davvero?» ora la voce di Garfield era venata di una lieve curiosità «Quale fiore preferisci?».
Un sorriso increspò le labbra di Lilith «Il mughetto».
Lanciò uno sguardo fuori dalla vetrina del negozio: un vecchio autobus si stava avvicinando alla fermata. Lilith lasciò perdere il giglio ed uscì fuori dal negozio, Garfield le corse dietro «Ehi!» protestò «Uffa!».
Lilith si bloccò quando giunse davanti alle strisce pedonali, il ragazzo si piazzò di fianco a lei e le mise tra le mani il proprio fumetto.
«Visto che non hai accettato l’hamburger, il passaggio o i fiori» le sorrise «Almeno permettimi di lasciarti questo». Lilith annuì sbrigativamente, poi attraversò la strada «Arrivederci!» urlò Garfield. La ragazzina strinse il fumetto al petto «Grazie!» disse, salendo sull’autobus.

Garfield guidò fino al molo, sfrecciando tra le strade di Jump City con fin troppo entusiasmo. Amava correre a quel modo, avere il vento addosso lo faceva sentire quasi potente. Era come se il mondo gli scrollasse di dosso tutti i problemi ed il dolore.
Peccato però che durasse poco. Già in prossimità del molo dovette rallentare, fermandosi poi davanti al vecchio magazzino che lui ed i suoi compagni di squadra utilizzavano come garage per i loro mezzi in borghese.
Smontò dalla moto per avvicinarsi al controllo elettronico, digitando a memoria il codice ed aspettando che la serranda del garage si alzasse completamente.
Nell’oscurità della stanza si delineò una fascia di luce che si espanse rapidamente. Ben presto tutte le vetture furono illuminate. L’auto sportiva di Victor era sempre la più fiammante; blu, ben lucidata e decisamente ed irrimediabilmente modificata. La bicicletta di Koriand’r era abbandonata in un angolo – aveva sempre preferito mezzi ecologici, per muoversi. E poi c’era lo spazio vuoto lasciato dalla moto che il mutaforma aveva temporaneamente fregato a Richard. Sperava che l’amico non si accorgesse mai che a volte, quando era in ritardo per sbrigare le sue commissioni, usufruiva del preziosissimo mezzo personale di cui era tanto geloso.
Rise tra sé, si sfilò l’anello olografico ed uscì, di nuovo proprietario del suo peculiare colorito verde. Aspettò che il garage si richiudesse dietro di lui, prima di avviarsi al pontile di legno.
Quel giorno la banchina era più affollata del solito; oltre al vecchio signor Smith, abitudinale traghettatore, c’erano anche un ragazzino minuto dai capelli scuri ed un giovanotto dall’aria goffa. Quest’ultimo cercava di caricare un pacco non troppo piccolo sulla barca ma, anche con l’aiuto del signor Smith, sembrava avere qualche problema.
Garfield inarcò la testa incuriosito. Il rumore dei suoi passi sul legno era coperto dal frusciare delle onde, ma questo non impedì al ragazzino di notarlo.
Lo vide scattare in piedi, come un soldato a cui avessero appena detto di scattare sull’attenti, poi strattonare la maglia del vecchio per attirare la sua attenzione.
Il pacco quasi cadde di mano al signor Smith, sarebbe finito dritto in acqua se Garfield non si fosse lanciato a prenderlo.
Quando il supereroe ebbe riportato al sicuro la scatola si rivolse ai due con un sorriso. «Non facciamo danni, eh?»
Strizzò l'occhio al fattorino alquanto sconvolto, sorridendogli.
«S-salve» balbettò il ragazzotto incerto.
Garfield sospirò e decise di aiutarlo a togliersi d’impaccio. «Quel pacco è per noi?» chiese divertito. Il fattorino doveva essere stato assegnato a quella zona recentemente, perché non ricordava di averlo mai visto prima di allora. Comunque, la domanda bastò a riscuoterlo.
«Sicuro» arrancò il ragazzo. «Può mettere una firma qui?» gli domandò poi formale allungandogli il suo taccuino ed una penna.
Garfield firmò senza esitazione. «Cyborg aspettava questo pacco da settimane, temeva che non arrivasse più. Giuro, l’altro giorno era disperato»
Fece l’occhiolino al ragazzino, che lo guardò divertito oscillando sul posto.
Il vecchio signor Smith, con la schiena ricurva e la barbetta bianca appena accennata, diede un colpetto sulla spalla del fattorino. «Bene, credo che tu possa andare, da qui possiamo occuparcene noi»
Il giovane annuì, allontana dosi tra il deluso e il sollevato. Il signor Smith rise sotto i baffi, poi si rivolse a Garfield: «Allora, pensavamo che non passassi più» disse saltando sul motoscafo con un po’ di difficoltà. Tese le braccia perché l’eroe verde gli passasse il pacco e poi, con attenzione, lo depositò sul fondo della barca.
«Ho avuto un incontro interessante, questa mattina» dichiarò Garfield con un sospiro.
«Una ragazza?» lo stuzzicò il vecchio.
Il mutaforma scosse la testa sorridendo. «Sì, si può dire così» poi si voltò a guardare il ragazzino. Aveva rilassato le spalle, ma non si era ancora mosso di un solo centimetro. Sembrava quasi che stesse a guardia dell’enorme sacco di lettere che Garfield riusciva ad intravedere dietro di lui; posta dei fan, senza alcun dubbio.
Il signor Smith parlò prima che lui gli chiedesse spiegazioni. «È il mio nipotino Julian, ci teneva a dare la lettera di persona ad uno di voi, così oggi l’ho portato con me. Spero che non ti dispiaccia»
Garfield sorrise a tutta bocca. «Nessun problema» poi si rivolse direttamente al ragazzino. «Allora, Julian, io sono Changeling» si presentò gentilmente. «Di che lettera si tratta?»
Lui si frugò nelle tasche tirandone fuori una busta bianca stropicciata. «È per Raven» rivelò. «So che non è più nella vostra squadra, ma speravo che uno di voi potesse dargliela. Lei è il mio eroe preferito» Il mutaforma dovette sforzarsi per reprimere il groppo in gola e continuare a sorridere. Erano mesi che non arrivavano lettere per lei; dopo che i titani avevano indetto una conferenza stampa per annunciare che aveva abbandonato la squadra i fan avevano smesso di inviarle.
«Vedi» cominciò Garfield dopo aver preso un gran sospiro «Noi non sappiamo dove sia lei adesso, ma ti prometto che se uno di noi dovesse incontrarla gliela consegneremo di sicuro»
Julian sorrise, poi lanciò un’occhiata soddisfatta al nonno, mentre Garfield infilava la lettera sotto la camicia, proprio sul cuore. L’avrebbe messa insieme a tutte le altre, nella speranza di fargliele leggere un giorno.
«Sei soddisfatto adesso?» domandò l’anziano al nipote.
Lui annuì convinto, mentre Garfield caricava il sacco di lettere sullo scafo. Il signor Smith lo aiutò a non farle cadere e poi, mentre il ragazzo saltava a bordo, fece un cenno serio al nipote. «Aspettami qui, accompagno il signor Changeling alla torre e sono da te. Non muoverti»
Julian annuì ubbidiente ed incrociò le braccia dietro la schiena, sorridente. Osservò il nonno mettere in moto ed aspettò che il motoscafo partisse, prima di rilassarsi e saltellare verso la spiaggia.
Garfield godette degli spruzzi delle onde che gli arrivavano dritti in faccia, rinfrescandolo ed inumidendogli la camicia.
Il signor Smith osservò la sua espressione corrucciata mentre si assicurava che il loro mezzo percorresse la giusta direzione.
I loro spostamenti lasciavano una scia di schiume bianca sull’acqua. La baia dei Titans distava solo pochi minuti dal molo, quindi non c’era tempo di intavolare lunghe chiacchierate o introdurre i discorsi con delicatezza.
E poi il signor Smith odiava temporeggiare. Preferiva arrivare subito al sodo. «Ci faranno sempre impazzire, eh?» domandò con un lieve tono di divertimento nell’osservare il ragazzo all’improvviso così mogio.
Garfield sollevò il volto confuso. «Cosa?»
Il vecchio gli sorrise gentilmente, facendogli notare il modo in cui stava strofinando le mani una contro l’altra, segno che il suo umore era precipitato notevolmente, mentre la sua mente era tornata a vagare in pensieri che da tempo aveva preferito ignorare.
«Le ragazze» chiarì l’uomo con un velo di nostalgia.
Finse di non notare l’espressione addolorata di Garfield, poi aggiunse: «Con il tempo andrà meglio, vedrai».
Il Titan sperò che lui avesse ragione, perché a volte quei pensieri non lo lasciavano neanche respirare. Aveva passato settimane intere a cercare Raven, aveva cercato di giustificare la sua fuga in mille modi diversi ma nessuno era riuscito a convincerlo veramente. Nonostante tutti i suoi tentativi di non pensarci il dubbio del tradimento era nascosto sul fondo della sua mente e lui era incapace di scacciarlo, ma non era disposto ad ammetterlo nemmeno a sé stesso.

Gettò l’ennesimo bullone arrugginito nel vecchio secchio. Nell’ultimo periodo sembrava che tutto, in quella torre, stesse andando in malora.
La T-Car era nel suo angolo, la fiancata completamente rigata, quasi un dolore fisico per il ragazzo. Era successo un paio di settimane prima, durante lo scontro con un supercattivo giù in città. Victor l’aveva presa più che bene, considerando che nessuno dei suoi amici si era fatto male e il criminale era stato consegnato alla giustizia nell’arco di mezz’ora. Più il tempo passava, più i Titans miglioravano. Si capivano senza dover comunicare, s’intendevano con uno sguardo ed i loro movimenti e le azioni erano sempre più coordinati. Chi non avesse conosciuto la loro storia non avrebbe neanche immaginato che la squadra non avesse sempre avuto quella formazione.
Sospirò, consapevole che presto si sarebbe abbattuto e perso nei ricordi. Appoggiò la schiena contro una parete, incrociando le braccia. Si domandò se il graffio sulla T-Car sarebbe stato paragonabile a quello che era stato inferto alla squadra e se qualcuno sarebbe stato in grado di ripararlo. La porta del garage si spalancò con violenza. Si voltò per sapere chi fosse, pronto ad avvertire di non essere così brusco. Poi notò Garfield che stringeva un pacco tra le mani. Sorrise, illuminandosi di colpo.
«Ehi Cy, guarda che è-» esordì il ragazzo verde.
Ma Victor lo interruppe accorrendo, esaltato. «È arrivato il mio pacco!» esultò quasi strappandolo dalle mani dell’amico.
«Esattamente quello che volevo dire io» appuntò Garfield divertito, seguendo il mezzo robot alla scrivania. Lo vide corrucciare la parte umana del volto, contrariato nel non aver trovato spazio per poggiare il nuovo arrivo.
Garfield batté due dita sulla gamba, in attesa. Victor gli aveva sempre impedito di toccare qualunque cosa, nel suo garage, ed ora non poteva non sfruttare le sue affermazioni per divertirsi.
«Allora?» sbottò spazientito il ragazzo più grande. «Ti dispiace liberarmi un po’ di posto?»
«Io non posso toccare nulla in questa stanza» gli ricordò Garfield sorridendo sbilenco. Una zanna scintillante gli spuntava fuori dal labbro inferiore, rendendolo ancora più malevolo. Victor fece roteare l’occhio, sbuffando. L’avrebbe colpito con piacere, se non avesse avuto entrambe le mani impegnate. «Sai che sei davvero una spina nel fianco, a volte?» borbottò indispettito.
Garfield sollevò un dito, saccente. «La parolina magica», disse.
«Caro amico» iniziò Victor. «Ti dispiacerebbe liberarmi la scrivania cosicché io possa poggiarvi dolcemente sopra questo pacco che sto aspettando pazientemente solo da quattro settimane?»
«Nessun problema» rassicurò il mutaforma. Poi, con alcune manate decise, spinse verso il muro la moltitudine di piccoli pezzi di ferro che appestavano la superficie scura. Alcune viti ruzzolarono per terra rotolando per qualche metro, invadendo il pavimento sporco.
Victor lo guardò storto, decisamente contrariato. Poté finalmente poggiare il suo pacco. Si voltò verso Garfield per sgridarlo e costringerlo a recuperare i dispersi, ma il ragazzo era già chino per terra e si astenne.
«Com’è andata in città?» chiese allora.
Garfield tenne la testa china, ripoggiando alcune viti ed un paio di bulloni sulla scrivania. Strofinò le mani sui pantaloni, poi tornò a raccogliere i mancanti. «Bene» esordì con convinzione, sollevandosi. «Ma potrei avere un problema con l’anello olografico, una ragazzina al parco mi ha visto verde» disse sfilando l’anello dalla tasca dei pantaloni e porgendolo all’amico.
Victor lo afferrò e lo studiò un istante. «A me sembra ok» disse. «Lascamelo qui che ci do una controllata, ti serve urgentemente?»
Il mutaforma scosse la testa. «Ho dovuto annullare tutti i miei appuntamenti. Le ragazze dovranno fare a meno di me, questa settimana» scherzò, facendo l’occhiolino.
Il mezzo robot lo colpì forte ad una spalla, divertito. Poi poggiò l’anello su una mensola. «Controllo il mio pacco e poi ci lavoro, parola mia»
«Grazie, sei un mito!» esultò Garfield avviandosi alla porta. Fece per chiudersela alle spalle, ma ci ripensò solo per voltarsi ed annunciare dispettoso: «Ti lascio le nostre lettere della settimana qui fuori, ci pensi tu a portale di sopra, vero?»
«Ma non stai andando tu?» domandò in fretta Victor. Ma Garfield aveva già chiuso la porta per correre via. «Certo che ci penso io» terminò rassegnato. Poi afferrò la carta della scatola e, con un gesto secco, la strappò via.

Le porte dell’ascensore si aprirono con un ding distorto.
La luce del soggiorno investì Garfield che socchiuse gli occhi, per poi massaggiarsi le orecchie doloranti. Udì Richard e Kori ridere, poi il raschiare ritmico di un mestolo contro un tegame. L’aroma di cioccolato bruciato appestava l’aria.
Arricciò il naso «Chi sta bruciando del buon cibo?» chiese, entrando in soggiorno.
Richard, stretto in un grembiule macchiato di crema e farina, alzò lo sguardo dalla ciotola, gemette «Eh?». Il suo sguardo corse verso la fidanzata «Kori!» esclamò, si buttò verso il piano cottura e spense il fornello.
«Oh?» Kori si voltò verso il ragazzo, sbatté le palpebre «Non andava bene?».
Richard sospirò, le sorrise mentre tornava a rivolgersi alla ciotola «Sì, sì, ma per la tenerina il cioccolato va fatto raffreddare, ora» le fece un cenno del capo «Che ne dici di dividere i tuorli dagli albumi?».
La ragazza annuì, «Quanti?» chiese, attenta.
Richard prese tra le mani un foglietto spiegazzato «Quattro» lesse. Kori prese il primo uovo e lo sbatté contro l’angolo della ciotola, il guscio si ruppe. L’albume e il tuorlo caddero a terra, mischiandosi «Ho fatto troppo forte?» chiese.
Una debole risata sfuggì dalle labbra di Garfield, un’espressione stanca si fece strada sul volto del moro «Giusto un poco» disse. Quello prese un altro uovo e lo batté, delicato, sul bordo della ciotola. Allo stesso modo, l’aliena né afferrò un altro e imitò i movimenti del fidanzato.
Garfield storse il naso, infastidito la puzza di bruciato. Mosse qualche passo verso la televisione, deciso a perdere un po’ di tempo con i suoi amati videogiochi: la voce tremula di Richard lo bloccò sul posto «Vieni a cucinare tu?» chiese. Nel suo sguardo si leggeva una muta supplica. Il ragazzo verde fece un gesto di diniego, si voltò «Passo» disse, mentre un sorriso saccente gli si allargava sul volto. Vide il moro impallidire, Kori, al suo fianco, rovesciò l’intero pacchetto di zucchero nella ciotola. Rivolse un’espressione gioiosa a Garfield «Come procede Black Wing?».
L’interpellato si fermò sul posto, colto alla sprovvista dalla domanda. In fondo, quasi tutti i Titans preferivano evitare di parlare del fumetto che stava disegnando. Richard, infatti, distolse lo sguardo; evidentemente più interessato agli albumi per la tenerina.
Garfield tamburellò le dita sulla coscia «Beh» si grattò il capo, imbarazzato «Black Bird e Mark si sono appena detti addio, conto di far arrivare la battaglia finale entro un paio di numeri».
Kori rimestò l’impasto grumoso con la spatola «Però Black Bird riuscirà a salvarsi!» sorrideva, canticchiò una melodia allegra, gocce giallastre d’impasto caddero sul tavolino.
No, sparirà. Si disse Garfield, o qualcosa del genere. Ridacchiò, si massaggiò una spalla, dirigendosi verso la televisione. Prima la ragazzina che lo vedeva verde, poi la lettera per Raven e ora quella domanda sul suo fumetto.
Si lasciò cadere sul divano. Si mordicchiò il labbro inferiore, chi voleva prendere in giro?
Aveva iniziato a disegnare Black Wing sperando di poter scrivere una storia alternativa; una storia dove l’eroe senza macchia avrebbe salvato la principessa del male, a qualsiasi costo. Accese il televisore poi la playstation, sullo schermo apparve il menù iniziale Zelda Ocarina of Time. Garfield spinse start, deciso a ignorare il dolore che provava al petto.

Lasciò che l’ascensore si chiudesse alle sue spalle senza preoccuparsi di voltarsi. Tornò a battere le mani sulla gamba, improvvisando un ritmo che gli impedisse di pensare a dove stava andando. Premette alla ceca il tasto del piano che doveva raggiungere. Conosceva la torre talmente bene che avrebbe potuto percorrerla in piena notte e con gli occhi bendati.
Riprese la lettera che il ragazzino gli aveva dato e la rigirò tra le dita. Forse avrebbe dovuto metterla con le altre, pensò. Era davvero troppo ingenuo pensare di poterla davvero recapitare, penso sorridendo con lieve rammarico.
L’ascensore si fermò, un altro ding gli ferì le orecchie sensibili. «Oh, miseriaccia!» si lamentò scuotendo la testa per scacciare la sensazione di aver sentito le unghie graffiare una lavagna. «La prossima volta prendo le scale» si disse.
Sapeva che non l’avrebbe fatto davvero; la torre aveva parecchi piani e non avrebbe retto a farne la metà. Uscì nel corridoio deserto. Era molto che non arrivavano lettere per Raven, e quando accadeva la cosa non passava inosservata. Con il tempo Garfield e Kori avevano preso l’abitudine di sistemarle in un vecchio armadio conservato in uno dei ripostigli abbandonati. L’edificio era talmente grande che sarebbe stato impossibile frequentare assiduamente ed occupare ogni stanza.
La porta si aprì con un leggero fruscio, Garfield entrò e spalancò le ante dell’armadio. Uno dei sacchi quasi gli cadde addosso, ma riuscì ad afferrarlo per riportarlo in equilibrio.
Non potevano aspettarsi davvero che sarebbe tornata, pensò riflettendo per un istante se fosse bene buttare finalmente tutte quelle buste nel cestino della raccolta differenziata. Prima o poi, si disse, avrebbero dovuto smettere di sperare.
Lanciò la busta sulla cima di uno dei vecchi mucchi, ma quella scivolò e ricadde sul pavimento. Le parole dei ragazzino gli tornarono in mente, assieme al suo volto innocente ed a tutta la speranza che la sua voce esprimeva.
Almeno una di quelle lettere non doveva finire nel dimenticatoio, pensò, tornando ad infilarla in tasca. Richiuse l’armadio a testa china.

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L'angolino delle Autrici

E così, dopo lunghe battaglie e assurde chiacchierate su come disporre gli eventi, finalmente siamo in grado di postare il primo capitolo. Che si aprano i cieli per ringraziare la recensione di AlexRae, perché è solo dopo quella che l'ispirazione ha bussato alla porta di Digital. Prima faceva come il vento, che come dice la canzone di Cristina D'Avena "arriva e vuole giocar, bussa alla porta ma poi però lui si nasconde, dove non so". Fateci sapere se vi piace.
Genius

P.s. Ohibò - forse mi avete già riconosciuto da questo - forse dovrei sentirmi un po' offesa dalle parole di Genius. In realtà vi chiedo scusa per il ritardo e vi vorrei fare una piccola richiesta. All'inizio delle recensioni ai capitoli che vi piacciono particolarmente, potete scrivere "Boom!"? Non chiedete il perché di questa richiesta, per favore. xD Ciao anche da Digital, e grazie per aver letto da entrambe.

  
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