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Autore: Aries K    28/06/2013    3 recensioni
Dopo la caduta di Arthur Emrys si rifugia nella caverna dei cristalli. Consumato dal dolore e dalla disperazione getta un incantesimo che, secondo lui, sarebbe stato efficace per far tornare indietro l'amato...eppure qualcosa va storto perché lo stregone, ritenuto immortale, muore. Ma il Destino sfidato è stato clemente perché ha concesso a Merlin e Arthur una seconda possibilità.
In una dimensione parallela.
Merlin, un ragazzo dotato di poteri straordinari fa il suo ingresso nella città che gli cambierà la vita.
Arthur, un ragazzo senza memoria che sfoga il suo dolore nella boxe; un futuro Re puro non corrotto dall'odio del padre verso la magia. Un re che fa gola alle tenebre.
Un'ultima possibilità concessa: quella di tornare a casa.
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù, Un po' tutti | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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"In una terra di miti in un’era di magia,
il Destino di un regno poggia sulle spalle di un giovane ragazzo.
Il suo nome? Merlin”

Merlin


“Non c’è posto per la magia a Camelot” sussurrò il ragazzo, tenendo lo sguardo basso e liquido, sotto il grande occhio indagatore della luna. Re Arthur saggiò a lungo quelle parole, quasi non avesse mai, prima d’allora, pensato alla consapevolezza di quella frase.
Poi, con distrazione, quest’ultimo si ritrovò ad alimentare la fiamma fiacca del fuoco con un ramoscello secco ed umido, trovato ai suoi piedi. Per un breve istante –mentre Merlin cercava con tutte le forze che gli erano rimaste di non odiarsi per essersi rinnegato in quel modo, e abbracciare una nuova rassegnazione- il crepitio delle fiamme riempì quel silenzio di riflessione.
Il re spinse lo sguardo oltre il capo chino del suo servo, non accorgendosi che sullo zigomo di questo una lacrima solitaria scendeva lenta ed inesorabile.
Il volto di Arthur si tese in un’espressione di risolutezza ed, egli, si ritrovò a concordare con il proprio valletto:
-“Hai ragione, Merlin. A Camelot non c’è posto per la magia.”



Il nuovo giorno iniziò così, nel modo più scombussolato possibile.
Scesi dal letto non appena la sveglia m’informò –con un trillo da far destare anche il più temerario dei dormienti- che l’alba era appena sorta, ancora con alcune stelle a punteggiare il cielo rischiarato. Come in una sorta di trance raggiunsi il bagno per custodirmi e la cucina per concedermi almeno un pezzo di pane tostato, ignorando con grande forza di volontà la sensazione di oppressione del ricordo che era venuto a bussare alla mia mente quella notte, accorgendomi con distrazione che dinanzi la porta della stanza di Lancelot la spada era scomparsa, segno che l’aveva vista e presa con sé. Mi sarebbe piaciuto vedere la sua reazione nel confessargli che era un dono di Arthur, mosso da chissà quale sentimento cosmopolita.
Con il borsone a tracolla e un buon passo lasciai il mio appartamento per dirigermi presso quello di Gaius, residente al piano superiore dell’antica bottega. Il cielo di Londra era sgombro di nuvole, esso abbracciava l’intera città per cullare ancora per un altro po’ i sogni dei suoi cittadini, mentre, la vita urbana, pian piano prendeva forma assieme al mio cammino.
Arrestai il passo e presi un bel respiro solo dopo esser giunto di fronte all’edificio coloniale di Gaius, spingendo un dito sul pulsante del citofono il più delicatamente possibile.
-“Chi è?”, squillò l’anziano dopo una manciata di secondi, la voce alterata di chi è stato preso alla sprovvista.
-“Sono io. Merlin.”
-“Merlin? Vieni su”, concesse balbettando, ed io non feci in tempo a ringraziarlo che aveva già abbassato la cornetta del citofono, terminando gli convenevoli con un rumore singhiozzante e metallico.
Il portone scattò e mi ritrovai a salire delle ripide scale a chiocciola piuttosto mal messe, crepate agli spigoli come se qualcuno ci si fosse accanito con il tacco della scarpa; arrivato in cima al pianerottolo, il maestro mi attendeva sulla soglia della porta, gli occhietti che avevo imparato a conoscere fattasi stretti.
-“Deduco sia accaduto qualcosa.”
-“Nulla di allarmante”, mi affrettai a tranquillizzarlo, poiché le sue spalle, spesso ingobbite sotto la lunga tunica rossa, erano raddrizzate pronte per sortire una mia tragica novella.
-“Oh”, articolò lasciandomi entrare, -“meglio così.”
-“Permesso. Sì, devo parlarle di alcune cose e ieri, in un modo o nell’altro, non ho avuto né tempo né la forza per affrontare il discorso.”
-“Va bene. Adesso possiamo parlare di fronte a una tazza di thè, ne stavo giusto preparando un po’.”
Gaius chiuse la porta e mi lasciò ambientare nella sua umile ma graziosa dimora.
Il salottino in cui mi accolse comprendeva un lungo e imbottito divano color porpora, un tondo tavolo di cristallo con un centrotavola lavorato all’uncinetto su cui, intorno, danzavano i riverberi colorati dei neonati raggi solari di quella giornata oramai cominciata; mentre lui varcava il confine che divideva la stanza dalla cucina io mi sedetti sul divano, passando in rassegna dei quadri appesi, abbassando istintivamente lo sguardo non appena incontrai gli occhi di Uther Pendragon fissarmi severi da un dipinto.

“Tu sei…”
“Sono nato con la magia!”
“Ti ho messo al fianco di mio figlio!”

Mi piegai senza fiato su me stesso, quasi a scontrarmi col pavimento, accorgendomi di aver gridato a pieni polmoni solo dopo che le mani rugose di Gaius mi tolsero le mie dalla testa.
Guardai il cerusico ansimando.
-“Merlin? Hai…”
-“Sì”, deglutii, riprendendo un battito regolare, -“non è stata proprio una visione ma ho sentito la voce di…”, gettai un’occhiata in tralice al ritratto di Uther, -“del padre di Arthur.”
Gaius dondolò il capo, strizzandomi una spalla in segno di conforto, mormorando che sarebbe presto arrivato con una bella e fumante tazza del suo prelibato thè, pronto a rispondere ad ogni mia domanda.
-“Sei qui perché non sai come dichiarare ad Arthur la tua vera natura?”
Dopo un paio di minuti Gaius venne a servire il thè e a sedersi intorno al tavolo, non comprendendo che quello che aveva detto era solo una parte del mio cruccio.
-“Ancora prima di affrontare questo discorso, ce ne è un altro.” Rimasi sorpreso dall’inclinazione sbilenca della mia voce, segno che ciò che aveva detto Gaius stava facendo rallentare il mio cervello.

Magia.

Confessione.

Arthur.


Deglutii a fatica per via del groppone che mi si era appena formato in gola e respirai profondamente prima di riprendere a parlare, ticchettando un dito sul piattino di porcellana.
-“Due notti fa qualcuno si è introdotto nella mia stanza; ha tracciato sul muro il simbolo dei Druidi. Ho provato a toccarlo ma è scomparso sotto il mio tocco. C’era anche Arthur con me. Ieri sera quando sono tornato a casa il simbolo è comparso nuovamente ma è bastato un battito di ciglia e…non c’era già più.”
Gaius era rimasto con sguardo fermo su di me, la tazzina sollevata a metà che ancora non aveva toccato le labbra.
-“Non so come spiegarmi questo episodio”, mormorai, sollecitandolo a rispondermi.
L’anziano s’incupì e riposò il thè sul tavolo.
-“Vi hanno trovato.”
-“Chi?”, indagai, percorso da un lento brivido.
-“Proprio come Kilgarrah temeva coloro o colui che sta cercando di fermare la nuova ascesa di Arthur. Una forza maligna. Qualcuno che brama Camelot. E’ difficile poter dire chi è, nella vostra vita passata avete dovuto lottare contro i nemici più disparati”, fece una pausa, quasi perdendosi nelle sue stesse parole,-“il libro degli incantesimi dov’è?”
-“Qui.”
Mi alzai per aprire il borsone e recuperare il libro. Lo porsi al Gaius, il quale percorse con il dito il simbolo articolato inciso sulla copertina.
-“Vedi Merlin, è questo il motivo della nascita del filtro: più le forze oscure avanzano, più il tempo stringe e quindi bisogna tornare a Camelot. Ancora, occorre che voi ritroviate voi stessi.”
-“Bisogna tornare a casa”, gli feci eco, la voce ridotta ad un sussurro fiacco.
Gaius intanto parlava, le sue parole si intrecciavano con il rumore delle pagine che voltava.
Io lo ascoltavo e il tempo parve rallentare il suo scorrere.
Parlammo anche di Leon e di come io non mi sia fidato perché…
-“I primi tempi –a Camelot- eri così incosciente che ci mancava poco che sbandierasti ai quattro venti la tua natura. Oh, mi hai dato non poco rammarico”, sorrise Gaius, guardandomi divertito,-“ma crescendo…crescendo sei cambiato. Sei diventato sempre più schivo, più diffidente. Questa particolarità non ha fatto altro che proteggerti e distruggerti al tempo stesso.”
-“Non potevo dargli ragione”, dissi,-“non volevo coinvolgerlo e, sì, volevo proteggermi. Sono stato preso in contropiede e non avrei saputo fare altro.”
-“Verrà un giorno che anche lui verrà coinvolto, Merlin.”
Quell’affermazione mi raggelò.
Credevo che la storia di tornare a Camelot per sistemare il danno riguardasse solo me e Arthur, ma a quanto pareva c’erano diverse cose che ancora mi sfuggivano.
Interrogai Gaius, pregandolo di spiegarsi meglio, ma liquidò tutte le mie risposte dicendomi di essere paziente.
Fu quando il libro gli sfuggì dalle mani che quella chiacchierata tranquilla prese una piega del tutto differente ed inaspettata: il tomo picchiò a terra accanto ai miei piedi e si aprì a metà, svelando due pagine strappate di cui non avevo mai fatto caso.
Sollevai di scatto la testa per guardare Gaius che, insospettito quanto me, lo trovai impegnato nel mirarmi.
-“Erano già così quelle pagine?”
-“No, Merlin.”
La risposta mi donò uno stato d’impasse, tanto che fu Gaius a prendere il libro e a porgerlo sul tavolo, osservando le pagine rubate. Mi affiancai a lui, che era rimasto in piedi.
-“Ecco perché sia la mia stanza che quella di Lancelot era stata messa sottosopra: era il libro che cercavano. O, meglio, le pagine che hanno preso… cosa c’era scritto?”
-“E’ impossibile dirlo. Poteva trattarsi di una formula magica, di una ricetta per una pozione o anche la descrizione di qualche creatura magica.”
Sfiorai la carta irregolare con un dito, sentendo montare un moto di ansia implacabile.
-“Cosa ci resta da fare, allora?”
Gaius tacque a lungo, prima di rispondermi:
-“Sperare che abbiamo ancora del tempo.”

E proprio il tempo parve giocare a nostro favore, perché da quell’episodio trascorsero ben due settimane.
Non c’erano stati conflitti, né messaggi impressi nelle pareti a farmi vivere sul chi va là.
C’era da dire che io e Arthur trascorremmo molto tempo assieme, ma ciò non bastò a spingermi per rivelare la magia che mi scorreva nelle vene.
Gaius e Kilgarrah mi esortavano, io annaspavo scuse e rimandavo. Questo non voleva dire che non sentissi il peso della clessidra del destino gravarmi sulle spalle.
Ad ogni modo, nacque una forte e solida amicizia tra me, Arthur e il gruppo di amici di Lancelot. Il pomeriggio accompagnavo il re ai suoi allenamenti; Elyan sembrava indifferente alla mia presenza intorno ai suoi sacchi da boxe, mentre quello che sembrava tollerarla a stento era William, considerandomi come un ostacolo alla concentrazione di Arthur riguardo gli affari della palestra.
Se solo sapesse, mi ritrovai a pensare più volte, guardandolo fomentarsi nel tifare il proprio beniamino sul ring.

In una delle tante lezioni sulla Storia di Camelot scoprimmo che Ginevra –l’amore di Lancelot, la barista di Taverna- sposò Arthur, ascendendo al trono, rimanendo, dopo la morte di lui, l’unica regnante.
A Camelot era la serva di Morgana ma la passione di Arthur e il suo essere giusto ed equo riuscì a capovolgere quel divario che li divideva, affrontando in primis il rigore di suo padre.
“Arthur non ha mai seguito le regole. E questa sua caratteristica non fece che portagli guai: quale futuro re non sottostà alla legge? Eppure era abbastanza coraggioso da fronteggiare re Uther; prima re, padre poi. E sono state proprio queste disfide a renderlo il re della speranza.” Aveva commentato Kilgarrah, guardandolo con quello che mi parve orgoglio
Credo che quella rivelazione provocò ad Arthur non poca pena; quando lei era nei paraggi s’irrigidiva. Ad onor del vero, c’era da dire che anche Gwen sembrava risentire la presenza del re, e da tranquilla ragazza quale era, iniziava a balbettare, inciampare non solo sulle sue stesse parole ma anche sui suoi stessi piedi. Lancelot si era accorto quanto me di quel cambiamento nel rapporto dei due, ma non mi aveva mai accennato nessuna parola, ed io non presi mai il discorso in mano.
Quella strana intimità –se vogliamo essere onesti fino in fondo- iniziava a smuovere qualcosa di indefinito nel profondo del mio essere.
Non ero geloso.
Non m’importava se Arthur frequentava altre persone oltre me e, se Gwen gli permetteva di ricordare ancora di più la sua vita passata, per me andava bene.
Solo… avrei voluto bastargli io.
-“Come siamo silenziosi questa sera”, bofonchiò una voce al mio orecchio, una sera, mentre mi rigiravo tra le mani una birra fresca, a Taverna, -“non sono abituato ai tuoi silenzi.”
Arthur sorrideva portandosi un calice alle labbra, indagando con gli occhi sul mio viso, intento a scovare qualche risposta a quell’insolito mutismo in cui ero caduto.
-“Quando parlo non ti sta bene, quando sto zitto nemmeno… sono stanco, tutto qui.”
-“Mmm, certo. Farò finta di crederci.” Sorseggiò la sua birra.
-“Ho avuto due visioni nel giro di tre ore. Non è stato piacevole.” Ed era vero.
Arthur sospirò.
-“Io una sola, oggi. Significa che siamo sulla buona strada e nessuno –nessuno- è venuto a darci fastidio. Sembra che la ruota abbia iniziato a girare nel verso giusto; non strapazzarti con tutti quei pensieri, okay?”
-“Okay”, mi ero ritrovato a rispondere, per poi guardarlo tornare da Galvano, Elyan e Lancelot.
Avrei voluto credere alle parole di Arthur, ma dentro di me si annidava uno strano presentimento…e presto il fato mi avrebbe dato ragione.

La placida tranquillità che aveva avvolto quelle settimane spensierate venne alterata dall’arrivo del week-end. Arthur bussò alla porta della mia stanza poco dopo la cessazione del diluvio che aveva fatto raffreddare quel clima pre-estivo che aveva illuso Londra; egli mi guardava con le ombre negli occhi.
Avevo capito subito che c’era qualcosa che doveva dirmi.
-“Mmm, sì? A cosa devo la vostra visita?”
-“Non è il momento di scherzare, Merlin”, ringhiò, anche se per un attimo mi parve affetto dal tipico timore dei bambini prima di azzardare una richiesta alla propria madre. Ciò mi fece aggrottare la fronte. -“Devi accompagnarmi in un posto”, mormorò un po’ troppo velocemente, -“muoviti.
Scattai in piedi, nascondendo la mia titubanza.
Non capii dove stavamo andando –poiché seguivo i passi decisi e svelti di Arthur senza domandare- ma quando imboccammo una stradina stretta e costeggiata dalla fitta e umida vegetazione, mi resi definitamente conto di essere nei pressi del Lago di Avalon.
Mi voltai a guardarlo mentre faceva scorrere la zip fino al mento per ripararsi dal vento.
-“Perché?”
-“Non ci sono più tornato da…quel giorno.”
-“E ora vuoi tornarci perché…”
-“Perché mi va.” Fu tutto ciò che rispose, lanciandomi un’occhiata esasperata.
Nonostante la sicurezza che cercava di dimostrare –tanto a me quanto a se stesso- Arthur titubò prima di affondare il primo passo nel terriccio melmoso e umido.
La nebbia era più fitta che mai, il cielo nero, cupo e oppressivo. L’obelisco di pietra sembrava sparire e riapparire come per magia e le acque era agitate da una lieve brezza di vento che, talmente tagliente, mi costrinse a stringermi le braccia intorno al corpo.
Proseguendo verso la riva per incoraggiare silenziosamente il re, l’osservai in silenzio: egli aveva gli occhi sgranati, fissava l’orizzonte –proprio nel punto in cui il cielo e il mare si confondevano- e per un attimo mi balenò l’impressione che stesse per girare i tacchi ed andarsene.
Eppure Arthur staccò i piedi dall’asfalto e mi raggiunse, gli occhi lucidati da un’emozione che solo lui poteva conoscere.
Ebbi l’impulso appena accennato di abbracciarlo, di dirgli che tutto sarebbe andato bene perché c’ero io; che non avrei permesso a nessuno di riportarlo nel sonno, sia in questa che in tutte le dimensioni possibili.
In quelle settimane il nostro rapporto si era evoluto in una maniera talmente naturale e sorprendente che quei pensieri erano la norma, per me.
-“Una volta ci ho visti, qui.”, ruppi quel silenzio spettrale, le mie parole furono portate via dal vento. Arthur non si voltò a guardarmi, vidi solo una contrazione del muscolo della mandibola.
-“E ho sentito la tua voce”, continuai, avvicinandomi a lui.
-“Ti stavo ringraziando.”
-“Sì, e non so perché.”
-“Mi sei sempre stato fedele, sei l’ultimo viso che ho visto… tu ci sei sempre stato. E Kilgarrah mi ha detto che tutto ciò che abbiamo vissuto poteva benissimo rivivere in quelle mie ultime parole, poiché tu…tu mi avevi detto la verità. Ma non so a cosa si stesse riferendo.”
Mi si spezzò il fiato.
Prima che lui morisse, gli avevo confessato chi ero davvero: non il servo idiota e scoordinato che si muoveva nei corridoi di Camelot, non l’incosciente che aveva tentato di sfidarlo al loro primo incontro ma il più grande mago mai esistito.
Era arrivato il momento, pensai, lo sentivo. E così sentivo che non ero degno dell’appellativo che mi accompagnava da secoli, perché avevo così tanta paura che avrei potuto tremare fino a distruggermi. Se diventerò un buono stregone –l’Emrys delle leggende cantate intorno ai focolari nelle notti mobili e gelide- forse i miei sbagli saranno assolti; forse, la paura di perdere Arthur sarà finalmente cessata -“A proposito di questo, so cosa ti avevo detto e devo ripeterlo anche adesso, perché non posso fare altrimenti né aspettare un giorno in più: io sono uno…”
Non feci in tempo a concludere la rivelazione che le mie parole, appena accennate e fiacche, si affievolirono fino al sospiro poiché Arthur ebbe il più inconsolabile dei crolli emotivi.
Si piegò sulle ginocchia portandosi le mani sul volto fattosi pallido a chiazze rosse; io provai a sostenerlo e mi parlò di come tutto ciò che stavamo vivendo superava qualsiasi confine della realtà.
-“Lo so, Arthur”, gli avevo risposto, fingendomi disorientato quanto lui, -“ma è così. E insieme possiamo tornare alla nostra vera casa. Camelot.”
Lo abbracciai da dietro e per poco non mi unii al suo pianto perché in quella posizione ci eravamo detti addio. La consapevolezza mi fece stringere le dita sul suo giacchetto rosso della tuta.
-“Ti proteggerò Arthur, ti aiuterò ad affrontare tutto questo.”
Lui reclinò la testa sulla mia spalla, il suo fiato mi accarezzò una guancia.
-“Non lo avrei mai detto”, mormorò tornando a sorridere, -“ma il tuo coraggio mi sorprende e m’infonde quella sicurezza che mi manca; quindi, Merlin… graz…”
-“No, non dirmelo”, lo interruppi con improvviso impeto, certo che era stata l’altra parte di me ad emergere in quel frangente,-“non dire niente. Alziamoci.”
Aiutai il re ad alzarsi e, mossi i primi passi per abbandonare Avalon, da lontano vorticò un qualcosa che arrestò il proprio movimento scontrandosi contro le caviglie di Arthur. Questo si accigliò, piegandosi per raccogliere una sottile sciarpa rossa.
-“E questa da dove viene?”, domandò, la voce arrochita dal pianto appena placato.
-“L’avrà persa qualcuno. Andiamo.”
-“Aspetta.”
Mi voltai appena in tempo per vedere che Arthur si era posizionato dietro la mia schiena, avvolgendomi il collo con quel fazzoletto; sentii le sue dita sfiorarmi la base della nuca, intente ad intrecciare un nodo bello saldo.
-“Gwen e Dafne direbbero che è il tuo colore questo, e hai la voce talmente bassa, oggi…”, spiegò, facendo scendere le mani sulle mie spalle; e poi…
Poi le sue labbra premetterò inaspettatamente sulla parte scoperta del mio collo, facendomi mozzare ogni respiro, ogni pensiero, ogni barlume di razionalità.
Chiusi gli occhi, il respiro accelerato.
Arthur si staccò di colpo, ma non seppi mai con quale sguardo perché rimasi immobile a guardare la strada deserta che ci attendeva.
-“Ho gli allenamenti tra poco. E’ meglio andare.” Fu tutto ciò che disse, mortalmente serio e cupo. Ancora non riuscivo a guardarlo in volto per questo avanzai di qualche passo, annuendo al vento.
E allora rabbrividii di orrore e paura perché dopo quel gesto non c’era rimasto niente capace di farmi scudo verso quel sentimento che non era amicizia, che non era semplice devozione, e che avevo iniziato ad avvertire ma mai a comprenderlo o esplorarlo; quel legame che andava oltre qualsiasi emozione consentita, dal quale non mi sarei mai liberato.
Strinsi il lembo della sciarpa rossa che ora svolazzava controvento e con un’ultima occhiata alle mie spalle dovetti ammettere che, ancora una volta, Avalon era diventata la custode di una piccola e preziosa parte di me.


Il giorno seguente Arthur non si presentò ad Antiche Memorie.
Gaius mi riferì che si era ammalato e che preferiva rimanere a riguardarsi a letto, quella mattina.
Ingoiai l’amaro di quella notizia e mi rintanai per tutto il giorno nel retrobottega, solo, a fingere di studiare incantesimi…questo fin quando Kilgarrah e Gaius non si sedettero di fronte a me. -“Abbiamo individuato Excalibur.”
Lo dissero quasi in sincrono, così, con la facilità con cui si potrebbe dire “oggi pioverà”.
Guardai i loro visi, aspettando che continuassero.
-“In realtà non sappiamo dove si trova”, chiarì Gaius,-“ma Kilgarrah sostiene di aver avuto una sorta di premonizione.”
Il profeta –che da alcuni giorni aveva recuperato il bastone da passeggio per via degli acciacchi e delle continue trasformazioni- aveva un’aria meditabonda, ma assolutamente ferma nella sua convinzione.
-“Ho visto Arthur afferrarla. Ed è arrivato il momento di cercarla: questa sarà la vostra prima missione. La seconda sarà tornare per un breve tempo a Camelot, recarsi nella Caverna dei Cristalli e prendere il bastone che hai usato per sprigionare l’ultimo incantesimo. Questo servirà per aprire l’unico portale per accedere definitivamente nel regno, al termine delle due missioni.”
Ci misi un po’ a metabolizzare tutto quel fiume di parole; poi scattai in piedi, sconvolto.
-“Tornare a Camelot?! Nella Caverna dei Cristalli? Io…io…”
-“Ma di questo poss…”
-“Possiamo parlarne in un’altra occasione!”, sbottai finendo la solita tipica frase che mi propinava il Grande Drago, tornando a sedermi.
I due dondolarono il capo.
-“Per prima cosa, Excalibur. Questa è una mappa della Gran Bretagna”.
Kilgarrah stese sul tavolo un’enorme cartina; Gaius frugò nella tasca della sua tunica tirando fuori un ciondolo a forma di goccia, trasparente e delicato, legato ad una catenina arrugginita.
-“In questo modo”, iniziò a spiegarmi Gaius, probabilmente rispondendo alle mute domande che aveva scorto nel mio viso,-“possiamo vedere se riusciamo a scovare il punto esatto in cui si trova.”
Rimasi rapito per tutto il tempo.
Il ciondolo traballava mosso da chissà quale energia in vari punti ma, alla fine, successe una cosa che nessuno aveva osato prevedere: il cristallo si ruppe con un crack secco e sordo, crepandosi al centro.
Kilgarrah e Gaius si guardarono, muti.
-“Come è possibile?”
-“Evidentemente questo è un incantesimo troppo debole per scovare un qualcosa di così nascosto…”, commentò Gaius, più a se stesso che a noi.
-“Colei che è in grado di uccidere chi è già morto”, sospirò Kilgarrah, rabbuiandosi.
-“Come ha detto?”, lo interrogai, accigliandomi poiché le sue parole stuzzicarono la mia memoria.
E poi, l’illuminazione.
-“Colei che è in grado di tagliare l’acciaio!”, esclamai, alzandomi nuovamente in piedi.
-“Così dicono le leggendo poco attendibili di Re Arthur…ehy, dove stai andando?”
Scostai la tendina con una mano, mentre con l’altra ero intento a recuperare il mio giacchetto dall’appendiabiti.
-“So dove andare. Fidatevi di me!”
-“Merlin!”, mi richiamò Gaius.
-“Davvero!”, risi, invaso da un’estranea sensazione di trionfo,-“fidatevi di me!”


“Torna da me, - vecchio amico, giovane speranza- quando la fortezza che riveste l’unico e solo re crollerà, liberando lo spirito. Torna da me quando cercherete colei che è in grado di tagliare l’acciaio, ed io vi mostrerò la via.”

Le parole della Dama del Lago mi risuonarono nella testa, mentre, ancora una volta, correvo incontro ad Avalon.
Al mio Destino.
   
 
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