Lechatvert
Avvertenze:
Poi non le metto più, giuro! Volevo solo inserire il link
di questa canzone suonata interamente a chitarra da un mio
web-insegnante che non arriverò mai ad emulare. Nella mia
immaginazione, si tratta della melodia udita da Bianca.
Chiaramente, ognuno è libero di immaginarsela come più gli aggrada v.v
Siamo
andati di stelline, quest'oggi voglio andare di cuori
♥
Enniente, nelle note non ho praticamente più nulla da dire,
se non che mancano tre capitoli alla fine e siamo IN THE FINAL
COUNTDOWN, PARAPARA PARAPAPPAPPAAAAA!
E' un momento importante, non ho mai finito una long prima d'ora e se
dovessi riuscirci sarebbe una cosa degna di festa!
Oltre
a questo, auguro una buona
lettura a tutti, ringraziando con un biscotto chi ha recensito e
recensirà, senza dimenticare chi segue e chi preferisce.
Siete davvero tantissimi ♥
Vi amo tutti ♥
Capitolo
Ottavo
Musica a Corda
Arrivarono a Roma alle prime luci dell’alba, accolti dalla
solita foschia accompagnata, stavolta, da una lieve pioggia
primaverile. Gli alti profili della città eterna si
stagliavano quella mattina verso un cielo grigio, trafitto dai sottili
aghi d’acqua che scendevano a rinfrescare
l’ambiente.
Silenzioso, Riario congedò il suo seguito con un gesto del
capo al Capitano Grunwald e rimase solo ad osservare il cupo cumulo di
abitazioni che Roma era diventata, contemplandone i contorni, immerso
in chissà quale pensiero.
Aggrappata alle sue spalle, Bianca Ordelaffi dormiva, respirando piano
e soffiando aria calda sul suo collo. Aveva passato la notte tra i
singhiozzi, probabilmente sporcandogli il capotto con le sue lacrime,
per poi addormentarsi così, senza un lamento, cadendo
semplicemente vittima della stanchezza.
Per quanto ripudiasse l’idea di doversi preoccupare che la
ragazza non cadesse da cavallo, il Conte aveva deciso di lasciarla
riposare. In fondo, meglio addormentata che piagnucolante.
Così aveva cavalcato solo per almeno un’ora, in
preda ai suoi pensieri e alle sue preoccupazioni. Si chiedeva, ad
esempio, se il Santo Padre sarebbe mai venuto a conoscenza della
presenza di Madonna Ordelaffi nella sua terra. Certamente
nascondergliela sarebbe stata una mossa poco intelligente, oltre che di
breve successo. Papa Sisto avrebbe scoperto tutto ancor prima che
Bianca avesse potuto mettere piede a Palazzo Orsini, anzi,
probabilmente ne era già stato informato.
Riluttante, si decise a svegliare la ragazza, muovendo leggermente la
spalla per scrollarla.
« Svegliatevi, Bianca », le sussurrò.
« Siamo giunti ».
La ragazza aprì svogliatamente un occhio, strofinando il
naso sulla giacca del Conte come se avesse avuto a che fare con un
asciugamano, e si guardò intorno con aria smarrita.
Immediatamente, i suoi occhi verdi guizzarono lungo i profili della
Città Eterna, studiandola, guardandola con la sorpresa di
chi non l’ha mai vista.
« Devo dedurre che questa è prima volta che vedete
Roma all’alba? », le chiese, allora, sottovoce.
Il colpo che Bianca gli aveva inferto la notte prima gli impediva di
aprire completamente la bocca, bruciandogli un po’ quando si
sfregava la guancia che, sebbene al tocco si fosse lievemente gonfiata,
non sembrava rappresentare nulla di più delle ferite con cui
il Conte aveva avuto modo di trattare in precedenza.
« Non trovate questa città sia di rara bellezza?
»
Il viso di Bianca si strofinò – ancora
– sulla sua giacca.
« La trovo splendida ».
Il Conte annuì.
« Già. Anche io ».
Senza aggiungere altro, riprese in mano le briglie del suo cavallo,
spronandolo a tornare sulla strada per proseguire verso Palazzo Orsini.
Come l’animale mosse uno zoccolo, la stretta di Bianca si
fece più stretta addosso alle sue spalle, affondando nella
carne con una forza quasi dolorosa.
« Avete paura, Madonna? »
« No, Conte ».
L’uomo si accigliò.
« Dovreste, invece. Bestie come queste possono essere molto
pericolose, se cavalcate da una persona inesperta come voi ».
Fece una pausa, prendendo la strada nel cuore Roma dove, appena sotto
il colle Vaticano, si ergeva Palazzo Orsini.
« Vi insegnerò a cavalcare, se vorrete ».
Bianca non rispose, limitandosi ad affondare ulteriormente il viso
nella giacca.
« Lo prenderò per un no ».
Cavalcarono allora fino a Palazzo Orsini, mentre le strade venivano
illuminate da un sole sempre più luminoso. La pioggia non si
fermava, cadendo fine e discreta sul paesaggio. Era talmente silenziosa
che quasi non bagnava, scivolando sul viso senza impigliarsi tra i
capelli, senza impregnare gli abiti di quel fresco odore di umido.
Palazzo Orsini era silenzioso.
Gran parte della servitù era, probabilmente, ancora
assopita. In assenza del padrone, i ritmi rallentavano, non vi erano
merende, pasti sontuosi o incontri da preparare, si organizzava il
lavoro senza dargli una vera e propria priorità, svolgendolo
senza l’incombenza degli occhi del signore.
Riario non aveva dato nessun ordine circa il suo ritorno; non si
aspettava, perciò, di trovare desto più dello
stretto necessario della servitù.
E infatti, nel cortile non incontrò che lo stalliere,
intento a pulire le strigliatrici con ritmo assonnato. Gli venne
incontro, posando le spazzole a terra, e, mordendosi le labbra in segno
di concentrazione, prese le briglie del cavallo del Conte, accarezzando
immediatamente la bestia, per tenerla calma.
« Bentornato, Conte Riario », salutò,
dopo aver finito di salutare il cavallo con lo stesso riguardo che una
madre usa per salutare la figlia.
Riario gli lanciò un’occhiata stanca, prima di
scendere da cavallo.
« Portalo nella stalla e nutrilo », rispose,
passando oltre i convenevoli. « Voglio che riposi. Entro
domani deve essere pronto a cavalcare di nuovo ».
Lo stalliere annuì, abbozzando un sorriso.
Mentre aiutava Bianca a scendere, Riario si chiese cosa poteva rendere
così felice un ragazzino sporco di terra e bagnato fino al
midollo. Di certo non la sua presenza o il fatto che, alle prime luci
dell’alba, dovesse svolgere il lavoro di chi, il giorno
prima, non aveva eseguito il suo dovere.
Di suo, l’unica cosa in grado di renderlo soddisfatto a
quelle ore del mattino era vedere Bianca Ordelaffi finalmente a Roma e
sapere, naturalmente, che il vantaggio che aveva su Firenze e su
Leonardo da Vinci era ancora abbastanza da permettergli di agire con
tutta la calma di cui aveva bisogno.
Divertito dalle ultime vicende, guardò Bianca ammutolita
sotto la pioggia che cominciava a farsi insistente, coperta dal suo
solo mantello color del mare.
Si leccò le labbra, facendosi pensieroso.
Lei non osava alzare gli occhi dal terreno.
« Madonna, prego, vogliamo entrare anziché stare
qui a prendere la pioggia? », le disse, allora,
illuminandosi. « Vi faccio strada ».
Le offrì il braccio destro e lei accettò, seppur
con perplessità, avvolgendo con dolcezza le dita sottili
attorno al suo gomito.
In silenzio, salirono la piccola scalinata che conduceva
all’entrata, entrando nella calda anticamera del palazzo.
Bianca si guardava intorno con curiosità, nonostante il suo
sguardo era colmo di paura. Era del tutto simile a un animale
spaventato che poco a poco comincia a calmarsi, studiando
l’ambiente.
Arrivati allo scalone centrale, Riario vide la sua serva avvicinarsi,
discreta, con il capo chino in avanti.
« Bentornato, mio Signore », gli disse, facendo una
piccola riverenza.
Riario la salutò con un cenno del capo.
Gli occhi dell’abissina si spostarono sulla guancia del
Conte, il quale si affrettò a coprirla con il colletto della
giacca. Non era il momento di valutare la gravità o meno di
una ferita tanto piccola, tanto più visto che era statagli
inferta da una donna assolutamente incapace di nuocere a una qualunque
specie vivente.
« Portate Madonna Ordelaffi negli appartamenti che le ho
fatto predisporre prima di partire », tagliò corto.
Poi si rivolse a Bianca, ancora intenta a guardarsi intorno, sempre
più incuriosita da ciò che la circondava.
« Mia cara, mangiate e riposatevi », le disse,
pacato. « Avremo tempo per parlare questa sera a cena. Vi
prego soltanto di scrivere immediatamente a vostro marito, informandolo
del vostro trasferimento a Roma. Il convento delle Orsoline accoglie e
cura molte donne affette da patologie respiratorie. Credo fareste
meglio a tranquillizzare Ezio Rangoni circa la vostre condizioni di
salute, specificando che le sorelle si stanno prendendo cura di voi
».
Bianca gli rivolse allora un’occhiata carica di dolore.
Aprì la bocca come per protestare, poi si bloccò,
spegnendosi. Sconfitta, chinò il capo, lasciando che i
riccioli rossi le coprissero la fronte.
« Sì », mormorò, stretto tra
i denti in un evidente tentativo di trattenere le lacrime.
Si allontanò in fretta assieme l’abissina, senza
aggiungere altro e coprendosi il volto con le mani.
Riario la lasciò andare, togliendosi guanti e cappello con
un sospiro.
Voleva soltanto raggiungere i suoi appartamenti e concedersi qualche
ora di sonno senza essere disturbato da pianti, grida o convocazioni
per qualche scambio di informazioni del tutto superfluo.
Sfiancato dal viaggio, camminò fino alla sua stanza da
letto, buttando in malo modo giacca e camicia sul pavimento, poi si
avvicinò alla specchiera, pulendosi il viso nel catino
d’acqua che la servitù gli aveva preparato.
Rinfrescatosi, guardò il suo volto riflesso.
La porzione di guancia colpita dalla vanga da giardino si era gonfiata
più di quanto si aspettasse.
Sbuffò, buttandosi a peso morto sul letto e accarezzandosi
piano la pelle del viso. Una volta riposato, si sarebbe preso cura di
quell’ematoma.
Bianca
si svegliò di soprassalto con il viso affondato nel cuscino,
ben avvolta tra le coperte calde e profumate del suo letto. Non
ricordava quando o come si era assopita, ricordava soltanto una
lunghissima cavalcata, le sue gambe dolenti, le palpebre che si
sforzavano di restare aperte mentre scriveva la lettera a suo marito.
La lettera, già.
L’aveva consegnata all’abissina prima di mettersi a
letto, chissà se era già partita alla volta di
Bologna. Si era ripromessa di trovare il coraggio di chiedere al Conte
Riario il permesso di scrivere altre lettere, un giorno, e,
soprattutto, il permesso di leggere la risposta che Ezio si sarebbe
sicuramente precipitato a mandarle.
Le avrebbe chiesto delucidazioni su quella malattia che
l’aveva colta così all’improvviso,
probabilmente le avrebbe chiesto di raggiungerlo il prima possibile,
specificando che le avrebbe messo a disposizione i migliori guaritori
… cosa rispondergli, allora? Raccontargli la
verità? Non avrebbe sortito nessun effetto se non
l’ira del Conte.
Combattuta, Bianca si alzò.
Dormire in un vero letto le aveva giovato. Era passato anche troppo
tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto
l’occasione di sdraiarsi su una superficie diversa dal marmo
delle cantine del Verrocchio.
Si stiracchiò, guardandosi attorno.
Si trovava in una stanza da letto relativamente spaziosa, arredata da
un semplice letto senza baldacchino, con un armadio in legno sulla
parete accanto e una specchiera accanto alla porta. Vi erano inoltre
due comodini e un’ampia finestra coperta da tende pesanti.
Bianca sorrise, fiondandosi a scostarle per spiare il paesaggio
all’esterno.
Con sua sorpresa, ad attenderla trovò la notte.
Doveva aver dormito molto, tanto da saltare, oltre al pranzo, anche la
cena. Si chiese come mai il Conte non l’avesse mandata a
chiamare.
Pensierosa, si affacciò alla finestra, aprendola per
apprezzare la brezza notturna sul volto.
Con sua sorpresa, però, l’aria non
entrò sola, ma accompagnata da una lieve melodia, quasi
impercettibile tanto era trasportata dal vento, proveniente con tutta
probabilità dal piano di sopra.
Bianca provò a sporsi, ma non ne ottenne che la vista di
un’ulteriore finestra lasciata aperta.
Si avvicinò quindi alla porta, sperando con tutto il cuore
di non trovarla chiusa a chiave, e la tirò verso di
sé, uscendo sul corridoio.
Doveva essere molto tardi, perché attorno a lei vi era
soltanto oscurità e silenzio. Non una serva intenta a tirare
le tende, non un rumore proveniente dalle cucine.
Bianca si domandò se fosse autorizzata a trovarsi
lì, lontana dagli appartamenti ai quali era stata designata.
Guidata da una buona dose di curiosità, arrivò
fino allo scalone centrale che aveva notato all’ingresso e,
di nuovo, la melodia del piano di sopra la colpì.
Abbandonò ogni timore e salì i gradini uno alla
volta, in silenzio e al buio. Si ritrovò così
negli appartamenti padronali, popolati da quadri e opere di ogni
autore, caldi e decisamente più accoglienti di quelli da
dove proveniva.
La melodia era ormai chiaramente percettibile, quasi a dividerla dal
corridoio di fosse una sola parete.
Bianca la seguì con indiscrezione, controllando ogni porta,
ogni scalinata che si apriva sul corridoio.
Alla fine, trovò ciò che cercava;
l’unica porta da sotto la quale passava la luce di un lume
acceso. E, ovviamente, una musica lenta e studiata, suonata da uno
strumento a corda.
Senza pensarci oltre bussò, appoggiando l’orecchio
al legno.
La melodia cessò.
« Avanti ».
Bianca aprì la porta con cautela, venendo immediatamente
investita da un delicato aroma di cannella.
Vide il Conte Riario seduto su una poltrona davanti alla finestra, una
chitarra in mano, il suo sguardo scuro spuntare da dietro lo schienale.
Trasalì.
« Io … io … io non avevo idea
», si giustificò, arretrando verso il corridoio.
« Scusatemi, io non avevo nessuna intenzione di disturbarvi,
credevo … ».
L’uomo le lanciò un’occhiata accigliata,
dopodiché sospirò.
« Bianca, entrate », le disse.
Restia, la ragazza fu costretta a tornare sui suoi passi,
chiudersi la porta alle spalle e, maledicendosi mentalmente,
raggiungere il Conte sulle tre poltrone disposte attorno al tavolo di
pietra su cui dava bella mostra di sé una colorata coppa di
frutta.
« Prego, accomodatevi », la invitò il
Conte, mettendo da parte lo strumento musicale. « E favorite
pure. Immagino sarete affamata; avete dormito tutto il giorno
».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Annuì, poi si sedette di fronte al suo ospite e
allungò la mano verso un grappolo d’uva,
staccandone un acino e portandoselo alla bocca.
« Le mie scuse », rispose, dopo aver ingoiato il
boccone. « Non era mia intenzione dormire così a
lungo. Vi prometto che non succederà più
».
Il Conte accennò un sorriso, tirando gli angoli della bocca.
« Posso capire la vostra stanchezza, non ne sono affatto
adirato », la rassicurò, prendendo a sua volta una
mela dal cesto. « Tuttavia, mi chiedo cosa vi abbia spinta a
venire fino a qui ora ».
Bianca alzò leggermente le spalle.
« Non sapevo suonaste uno strumento », ammise.
« Non lo suono, infatti. Ma talvolta mi capita di dilettarmi
in questo genere di cose ».
« Mio padre era molto bravo. Purtroppo, non ha trasmesso il
suo talento a me ma a mio fratello … »
L’espressione di Riario si schiarì un poco.
« Ricordo con chiarezza che voi eravate
un’eccellente cantante », disse, restando serio.
« E che dare prova delle vostri dote sonore vi piaceva molto
».
Bianca arrossì appena, chinando il capo.
« Ero molto giovane », si giustificò.
« Mh », concordò il Conte.
Per un istante, calò il silenzio.
Non fu un silenzio imbarazzante, fu semplicemente una pausa in cui
Bianca poté realizzare che, dopotutto, la speranza non la
aveva ancora abbandonata. C’erano cose buone anche a Roma,
alla fine dei conti.
Si sporse quindi in avanti, afferrando un altro acino d’uva.
« Suonate per me », propose, sorridendo.
Il Conte la guardò, stranito.
« Prego? »
Lei alzò le spalle.
« Ezio suonava per me tutte le sere »,
spiegò. « Avanti, anche una sola canzone. Ve ne
sarei così grata! »
« Non ne sarei in grado. Suono assai di rado ».
Bianca non mollò.
« Neanche i gigli filano o tessono »,
incominciò, convinta. « Eppure io vi dico che
neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva bene come uno di
loro ».
A quelle parole, il Conte la guardò, stupito.
« Non sapevo aveste studiato il Vangelo ».
« Non l’ho fatto », rispose Bianca.
« Mi è capitato di leggerlo, ne ricordo ogni
parola. Specialmente di quello secondo Luca ».
Riario si accigliò.
« E ricordate altro? »
« Ogni cosa, Conte. Ogni cosa letta con sufficiente
attenzione ».
Lui la guardò, apparentemente stranito da
quell’affermazione.
Bianca s’imbronciò un poco, guardandolo dal basso
verso l’alto con uno sguardo di pura supplica.
« Avanti, suonatemi qualcosa! », lo
incitò, ancora.
L’uomo le concesse un’alzata di occhi, mentre la
mano andava a recuperare lo strumento abbandonato ai piedi della
poltrona.
E suonò per lei una canzone, poi un’altra, e
andò avanti per quasi tutta la notte, finché ella
non cadde addormentata, raggomitolandosi sulla poltrona.
Allora il conte staccò le dita dalle corde, si
alzò e chiamò la servitù per far
sì che Madonna Ordelaffi potesse tornare a dormire nei suoi
appartamenti senza svegliarsi.