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Autore: Lechatvert    29/06/2013    3 recensioni
[ ... ] Si ritrovò ad accarezzare quella figura dipinta, pensando che, forse, non si era mai reso veramente conto di quanto quel viso fosse armonioso, di quanto quel sorriso fosse luminoso ed esattamente ingenuo come lo era stato in gioventù.
Quella smorfia felice che affiorava sulle sue labbra, scatenata anche da una sola parola, aveva passato più guerre di un condottiero.

| In qualche modo, Girolamo Riario x OC |
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Girolamo Riario, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Per questo, più o meno, la chiamavano Papavero.'
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Lechatvert
Avvertenze: Poi non le metto più, giuro! Volevo solo inserire il link di questa canzone suonata interamente a chitarra da un mio web-insegnante che non arriverò mai ad emulare. Nella mia immaginazione, si tratta della melodia udita da Bianca.

Chiaramente, ognuno è libero di immaginarsela come più gli aggrada v.v

Siamo andati di stelline, quest'oggi voglio andare di cuori ♥ 
Enniente, nelle note non ho praticamente più nulla da dire, se non che mancano tre capitoli alla fine e siamo IN THE FINAL COUNTDOWN, PARAPARA PARAPAPPAPPAAAAA!
E' un momento importante, non ho mai finito una long prima d'ora e se dovessi riuscirci sarebbe una cosa degna di festa!

Oltre a questo, auguro una buona lettura a tutti, ringraziando con un biscotto chi ha recensito e recensirà, senza dimenticare chi segue e chi preferisce.
Siete davvero tantissimi 
 

Vi amo tutti 







Capitolo Ottavo
Musica a Corda



Arrivarono a Roma alle prime luci dell’alba, accolti dalla solita foschia accompagnata, stavolta, da una lieve pioggia primaverile. Gli alti profili della città eterna si stagliavano quella mattina verso un cielo grigio, trafitto dai sottili aghi d’acqua che scendevano a rinfrescare l’ambiente.
Silenzioso, Riario congedò il suo seguito con un gesto del capo al Capitano Grunwald e rimase solo ad osservare il cupo cumulo di abitazioni che Roma era diventata, contemplandone i contorni, immerso in chissà quale pensiero.
Aggrappata alle sue spalle, Bianca Ordelaffi dormiva, respirando piano e soffiando aria calda sul suo collo. Aveva passato la notte tra i singhiozzi, probabilmente sporcandogli il capotto con le sue lacrime, per poi addormentarsi così, senza un lamento, cadendo semplicemente vittima della stanchezza.
Per quanto ripudiasse l’idea di doversi preoccupare che la ragazza non cadesse da cavallo, il Conte aveva deciso di lasciarla riposare. In fondo, meglio addormentata che piagnucolante.
Così aveva cavalcato solo per almeno un’ora, in preda ai suoi pensieri e alle sue preoccupazioni. Si chiedeva, ad esempio, se il Santo Padre sarebbe mai venuto a conoscenza della presenza di Madonna Ordelaffi nella sua terra. Certamente nascondergliela sarebbe stata una mossa poco intelligente, oltre che di breve successo. Papa Sisto avrebbe scoperto tutto ancor prima che Bianca avesse potuto mettere piede a Palazzo Orsini, anzi, probabilmente ne era già stato informato.
Riluttante, si decise a svegliare la ragazza, muovendo leggermente la spalla per scrollarla.
« Svegliatevi, Bianca », le sussurrò. « Siamo giunti ».
La ragazza aprì svogliatamente un occhio, strofinando il naso sulla giacca del Conte come se avesse avuto a che fare con un asciugamano, e si guardò intorno con aria smarrita. Immediatamente, i suoi occhi verdi guizzarono lungo i profili della Città Eterna, studiandola, guardandola con la sorpresa di chi non l’ha mai vista.
« Devo dedurre che questa è prima volta che vedete Roma all’alba? », le chiese, allora, sottovoce.
Il colpo che Bianca gli aveva inferto la notte prima gli impediva di aprire completamente la bocca, bruciandogli un po’ quando si sfregava la guancia che, sebbene al tocco si fosse lievemente gonfiata, non sembrava rappresentare nulla di più delle ferite con cui il Conte aveva avuto modo di trattare in precedenza.
« Non trovate questa città sia di rara bellezza? »
Il viso di Bianca si strofinò –  ancora – sulla sua giacca.
« La trovo splendida ».
Il Conte annuì.
« Già. Anche io ».
Senza aggiungere altro, riprese in mano le briglie del suo cavallo, spronandolo a tornare sulla strada per proseguire verso Palazzo Orsini.
Come l’animale mosse uno zoccolo, la stretta di Bianca si fece più stretta addosso alle sue spalle, affondando nella carne con una forza quasi dolorosa.
« Avete paura, Madonna? »
« No, Conte ».
L’uomo si accigliò.
« Dovreste, invece. Bestie come queste possono essere molto pericolose, se cavalcate da una persona inesperta come voi ».
Fece una pausa, prendendo la strada nel cuore Roma dove, appena sotto il colle Vaticano, si ergeva Palazzo Orsini.
« Vi insegnerò a cavalcare, se vorrete ».
Bianca non rispose, limitandosi ad affondare ulteriormente il viso nella giacca.
« Lo prenderò per un no ».
Cavalcarono allora fino a Palazzo Orsini, mentre le strade venivano illuminate da un sole sempre più luminoso. La pioggia non si fermava, cadendo fine e discreta sul paesaggio. Era talmente silenziosa che quasi non bagnava, scivolando sul viso senza impigliarsi tra i capelli, senza impregnare gli abiti di quel fresco odore di umido.
Palazzo Orsini era silenzioso.
Gran parte della servitù era, probabilmente, ancora assopita. In assenza del padrone, i ritmi rallentavano, non vi erano merende, pasti sontuosi o incontri da preparare, si organizzava il lavoro senza dargli una vera e propria priorità, svolgendolo senza l’incombenza degli occhi del signore.
Riario non aveva dato nessun ordine circa il suo ritorno; non si aspettava, perciò, di trovare desto più dello stretto necessario della servitù.
E infatti, nel cortile non incontrò che lo stalliere, intento a pulire le strigliatrici con ritmo assonnato. Gli venne incontro, posando le spazzole a terra, e, mordendosi le labbra in segno di concentrazione, prese le briglie del cavallo del Conte, accarezzando immediatamente la bestia, per tenerla calma.
« Bentornato, Conte Riario », salutò, dopo aver finito di salutare il cavallo con lo stesso riguardo che una madre usa per salutare la figlia.
Riario gli lanciò un’occhiata stanca, prima di scendere da cavallo.
« Portalo nella stalla e nutrilo », rispose, passando oltre i convenevoli. « Voglio che riposi. Entro domani deve essere pronto a cavalcare di nuovo ».
Lo stalliere annuì, abbozzando un sorriso.
Mentre aiutava Bianca a scendere, Riario si chiese cosa poteva rendere così felice un ragazzino sporco di terra e bagnato fino al midollo. Di certo non la sua presenza o il fatto che, alle prime luci dell’alba, dovesse svolgere il lavoro di chi, il giorno prima, non aveva eseguito il suo dovere.
Di suo, l’unica cosa in grado di renderlo soddisfatto a quelle ore del mattino era vedere Bianca Ordelaffi finalmente a Roma e sapere, naturalmente, che il vantaggio che aveva su Firenze e su Leonardo da Vinci era ancora abbastanza da permettergli di agire con tutta la calma di cui aveva bisogno.
Divertito dalle ultime vicende, guardò Bianca ammutolita sotto la pioggia che cominciava a farsi insistente, coperta dal suo solo mantello color del mare.
Si leccò le labbra, facendosi pensieroso.
Lei non osava alzare gli occhi dal terreno.
« Madonna, prego, vogliamo entrare anziché stare qui a prendere la pioggia? », le disse, allora, illuminandosi. « Vi faccio strada ».
Le offrì il braccio destro e lei accettò, seppur con perplessità, avvolgendo con dolcezza le dita sottili attorno al suo gomito.
In silenzio, salirono la piccola scalinata che conduceva all’entrata, entrando nella calda anticamera del palazzo.
Bianca si guardava intorno con curiosità, nonostante il suo sguardo era colmo di paura. Era del tutto simile a un animale spaventato che poco a poco comincia a calmarsi, studiando l’ambiente.
Arrivati allo scalone centrale, Riario vide la sua serva avvicinarsi, discreta, con il capo chino in avanti.
« Bentornato, mio Signore », gli disse, facendo una piccola riverenza.
Riario la salutò con un cenno del capo.
Gli occhi dell’abissina si spostarono sulla guancia del Conte, il quale si affrettò a coprirla con il colletto della giacca. Non era il momento di valutare la gravità o meno di una ferita tanto piccola, tanto più visto che era statagli inferta da una donna assolutamente incapace di nuocere a una qualunque specie vivente.
« Portate Madonna Ordelaffi negli appartamenti che le ho fatto predisporre prima di partire », tagliò corto.
Poi si rivolse a Bianca, ancora intenta a guardarsi intorno, sempre più incuriosita da ciò che la circondava.
« Mia cara, mangiate e riposatevi », le disse, pacato. « Avremo tempo per parlare questa sera a cena. Vi prego soltanto di scrivere immediatamente a vostro marito, informandolo del vostro trasferimento a Roma. Il convento delle Orsoline accoglie e cura molte donne affette da patologie respiratorie. Credo fareste meglio a tranquillizzare Ezio Rangoni circa la vostre condizioni di salute, specificando che le sorelle si stanno prendendo cura di voi ».
Bianca gli rivolse allora un’occhiata carica di dolore.
Aprì la bocca come per protestare, poi si bloccò, spegnendosi. Sconfitta, chinò il capo, lasciando che i riccioli rossi le coprissero la fronte.
« Sì », mormorò, stretto tra i denti in un evidente tentativo di trattenere le lacrime.
Si allontanò in fretta assieme l’abissina, senza aggiungere altro e coprendosi il volto con le mani.
Riario la lasciò andare, togliendosi guanti e cappello con un sospiro.
Voleva soltanto raggiungere i suoi appartamenti e concedersi qualche ora di sonno senza essere disturbato da pianti, grida o convocazioni per qualche scambio di informazioni del tutto superfluo.
Sfiancato dal viaggio, camminò fino alla sua stanza da letto, buttando in malo modo giacca e camicia sul pavimento, poi si avvicinò alla specchiera, pulendosi il viso nel catino d’acqua che la servitù gli aveva preparato.
Rinfrescatosi, guardò il suo volto riflesso.
La porzione di guancia colpita dalla vanga da giardino si era gonfiata più di quanto si aspettasse.
Sbuffò, buttandosi a peso morto sul letto e accarezzandosi piano la pelle del viso. Una volta riposato, si sarebbe preso cura di quell’ematoma.





* * *

Bianca si svegliò di soprassalto con il viso affondato nel cuscino, ben avvolta tra le coperte calde e profumate del suo letto. Non ricordava quando o come si era assopita, ricordava soltanto una lunghissima cavalcata, le sue gambe dolenti, le palpebre che si sforzavano di restare aperte mentre scriveva la lettera a suo marito.
La lettera, già.
L’aveva consegnata all’abissina prima di mettersi a letto, chissà se era già partita alla volta di Bologna. Si era ripromessa di trovare il coraggio di chiedere al Conte Riario il permesso di scrivere altre lettere, un giorno, e, soprattutto, il permesso di leggere la risposta che Ezio si sarebbe sicuramente precipitato a mandarle.
Le avrebbe chiesto delucidazioni su quella malattia che l’aveva colta così all’improvviso, probabilmente le avrebbe chiesto di raggiungerlo il prima possibile, specificando che le avrebbe messo a disposizione i migliori guaritori … cosa rispondergli, allora? Raccontargli la verità? Non avrebbe sortito nessun effetto se non l’ira del Conte.
Combattuta, Bianca si alzò.
Dormire in un vero letto le aveva giovato. Era passato anche troppo tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto l’occasione di sdraiarsi su una superficie diversa dal marmo delle cantine del Verrocchio.
Si stiracchiò, guardandosi attorno.
Si trovava in una stanza da letto relativamente spaziosa, arredata da un semplice letto senza baldacchino, con un armadio in legno sulla parete accanto e una specchiera accanto alla porta. Vi erano inoltre due comodini e un’ampia finestra coperta da tende pesanti.
Bianca sorrise, fiondandosi a scostarle per spiare il paesaggio all’esterno.
Con sua sorpresa, ad attenderla trovò la notte.
Doveva aver dormito molto, tanto da saltare, oltre al pranzo, anche la cena. Si chiese come mai il Conte non l’avesse mandata a chiamare.
Pensierosa, si affacciò alla finestra, aprendola per apprezzare la brezza notturna sul volto.
Con sua sorpresa, però, l’aria non entrò sola, ma accompagnata da una lieve melodia, quasi impercettibile tanto era trasportata dal vento, proveniente con tutta probabilità dal piano di sopra.
Bianca provò a sporsi, ma non ne ottenne che la vista di un’ulteriore finestra lasciata aperta.
Si avvicinò quindi alla porta, sperando con tutto il cuore di non trovarla chiusa a chiave, e la tirò verso di sé, uscendo sul corridoio.
Doveva essere molto tardi, perché attorno a lei vi era soltanto oscurità e silenzio. Non una serva intenta a tirare le tende, non un rumore proveniente dalle cucine.
Bianca si domandò se fosse autorizzata a trovarsi lì, lontana dagli appartamenti ai quali era stata designata.
Guidata da una buona dose di curiosità, arrivò fino allo scalone centrale che aveva notato all’ingresso e, di nuovo, la melodia del piano di sopra la colpì.
Abbandonò ogni timore e salì i gradini uno alla volta, in silenzio e al buio. Si ritrovò così negli appartamenti padronali, popolati da quadri e opere di ogni autore, caldi e decisamente più accoglienti di quelli da dove proveniva.
La melodia era ormai chiaramente percettibile, quasi a dividerla dal corridoio di fosse una sola parete.
Bianca la seguì con indiscrezione, controllando ogni porta, ogni scalinata che si apriva sul corridoio.
Alla fine, trovò ciò che cercava; l’unica porta da sotto la quale passava la luce di un lume acceso. E, ovviamente, una musica lenta e studiata, suonata da uno strumento a corda.
Senza pensarci oltre bussò, appoggiando l’orecchio al legno.
La melodia cessò.
« Avanti ».
Bianca aprì la porta con cautela, venendo immediatamente investita da un delicato aroma di cannella.
Vide il Conte Riario seduto su una poltrona davanti alla finestra, una chitarra in mano, il suo sguardo scuro spuntare da dietro lo schienale.
Trasalì.
« Io … io … io non avevo idea », si giustificò, arretrando verso il corridoio. « Scusatemi, io non avevo nessuna intenzione di disturbarvi, credevo … ».
L’uomo le lanciò un’occhiata accigliata, dopodiché sospirò.
« Bianca, entrate », le disse.
Restia,  la ragazza fu costretta a tornare sui suoi passi, chiudersi la porta alle spalle e, maledicendosi mentalmente, raggiungere il Conte sulle tre poltrone disposte attorno al tavolo di pietra su cui dava bella mostra di sé una colorata coppa di frutta.
« Prego, accomodatevi », la invitò il Conte, mettendo da parte lo strumento musicale. « E favorite pure. Immagino sarete affamata; avete dormito tutto il giorno ».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Annuì, poi si sedette di fronte al suo ospite e allungò la mano verso un grappolo d’uva, staccandone un acino e portandoselo alla bocca.
« Le mie scuse », rispose, dopo aver ingoiato il boccone. « Non era mia intenzione dormire così a lungo. Vi prometto che non succederà più ».
Il Conte accennò un sorriso, tirando gli angoli della bocca.
« Posso capire la vostra stanchezza, non ne sono affatto adirato », la rassicurò, prendendo a sua volta una mela dal cesto. « Tuttavia, mi chiedo cosa vi abbia spinta a venire fino a qui ora ».
Bianca alzò leggermente le spalle.
« Non sapevo suonaste uno strumento », ammise.
« Non lo suono, infatti. Ma talvolta mi capita di dilettarmi in questo genere di cose ».
« Mio padre era molto bravo. Purtroppo, non ha trasmesso il suo talento a me ma a mio fratello … »
L’espressione di Riario si schiarì un poco.
« Ricordo con chiarezza che voi eravate un’eccellente cantante », disse, restando serio. « E che dare prova delle vostri dote sonore vi piaceva molto ».
Bianca arrossì appena, chinando il capo.
« Ero molto giovane », si giustificò.
« Mh », concordò il Conte.
Per un istante, calò il silenzio.
Non fu un silenzio imbarazzante, fu semplicemente una pausa in cui Bianca poté realizzare che, dopotutto, la speranza non la aveva ancora abbandonata. C’erano cose buone anche a Roma, alla fine dei conti.
Si sporse quindi in avanti, afferrando un altro acino d’uva.
« Suonate per me », propose, sorridendo.
Il Conte la guardò, stranito.
« Prego? »
Lei alzò le spalle.
« Ezio suonava per me tutte le sere », spiegò. « Avanti, anche una sola canzone. Ve ne sarei così grata! »
« Non ne sarei in grado. Suono assai di rado ».
Bianca non mollò.
« Neanche i gigli filano o tessono », incominciò, convinta. « Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva bene come uno di loro ».
A quelle parole, il Conte la guardò, stupito.
« Non sapevo aveste studiato il Vangelo ».
« Non l’ho fatto », rispose Bianca. « Mi è capitato di leggerlo, ne ricordo ogni parola. Specialmente di quello secondo Luca ».
Riario si accigliò.
« E ricordate altro? »
« Ogni cosa, Conte. Ogni cosa letta con sufficiente attenzione ».
Lui la guardò, apparentemente stranito da quell’affermazione.
Bianca s’imbronciò un poco, guardandolo dal basso verso l’alto con uno sguardo di pura supplica.
« Avanti, suonatemi qualcosa! », lo incitò, ancora.
L’uomo le concesse un’alzata di occhi, mentre la mano andava a recuperare lo strumento abbandonato ai piedi della poltrona.
E suonò per lei una canzone, poi un’altra, e andò avanti per quasi tutta la notte, finché ella non cadde addormentata, raggomitolandosi sulla poltrona.
Allora il conte staccò le dita dalle corde, si alzò e chiamò la servitù per far sì che Madonna Ordelaffi potesse tornare a dormire nei suoi appartamenti senza svegliarsi.


   
 
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