~ 9°_ With(out) you ~
Cooper
stava imparando a conoscere suo fratello da davvero troppo poco tempo perché
potesse azzardarsi a dare un qualsiasi tipo di giudizio a suo riguardo. Certo,
lui non era tipo da poter zittire con così tanta facilità e non si era mai
trattenuto dal dire quello che pensava, anche quando non era la cosa più
conveniente da fare – o forse soprattutto in quei casi. Ma ora si parlava di
suo fratello, del suo Blainey e le cose erano
completamente diverse. Con lui ci sarebbe andato con i piedi di piombo: aveva
fatto già troppi errori.
Eppure,
vederlo sbucare in cucina, quella mattina, con il viso assonnato ma sereno ed
un leggero sorriso a rischiararlo, gli diede la perfetta concezione di quanto volesse bene Kurt. Di quanto lo
amasse. Non che tutta la sofferenza che aveva provato fino al giorno prima non
fosse stata sufficiente, ma il modo radicale in cui era cambiato non appena il
ragazzo si era ripreso, l’aveva convinto di quanto fosse profondo il legame che
condividevano.
«Buongiorno,
Schizzo», lo salutò mentre quello si sedeva davanti ad una tazza di latte caldo
che gli aveva preparato da poco.
Blaine
alzò appena lo sguardo quando sentì quel nomignolo.
«Era
da tanto che non mi chiamavi così».
«Già».
«E
ricordi che non lo sopporto, vero?».
«Davvero?
Ed io che ho sempre pensato che ti piacesse…», lo prese in giro Cooper, ridendo.
«Affatto.
È ridicolo».
«Oh,
ma ti addice così tanto! Soprattutto ora che hai quel broncio tanto carino».
Blaine
lo guardò per qualche istante negli occhi, prima di mandarlo al diavolo con uno
scoppio di risa, seguito a ruota dal più grande. Vedere il suo fratellino così
rilassato era bellissimo e Cooper si maledisse per essersi perso così tanto
della sua vita.
«Pensavo
di andare un po’ prima da Kurt: oggi comincia la riabilitazione e vorrei essere
con lui», disse il ragazzo, tra un sorso di latte e l’altro.
«Certo.
Dimmi quando sei pronto e and-», le parole si bloccarono per la suoneria del
cellulare di Blaine. Questi scattò dalla sedia e corse in camera sua,
rispondendo con maggiore velocità quando lesse il nome “Hummel” sul display.
«Pronto?».
«Blaine…ti ho svegliato?».
«No,
signore. Facevo colazione». Qualcosa diceva al riccio che quello era solo un
preambolo educato.
«Vorrei che tu venissi qui quanto prima».
Il
ragazzo si sentì improvvisamente gelare, mentre sulla soglia apparve Cooper.
«È
successo qualcosa a Kurt?».
«Sì».
«Bisogna
dargli del tempo, Burt. Quello che gli è successo… non è qualcosa di facile da
accettare, men che meno per un ragazzo».
«Credi
che non lo sappia? Ma conosco mio figlio, è un ragazzo forte e dovrebbe combattere.
Hai sentito cosa hanno detto i medici: stare fermo, rifiutare la fisioterapia
non farà altro che peggiorare la situazione!».
Carole
accarezzò la schiena del marito annuendo. Capiva che cosa intendesse Burt e
capiva anche il punto di vista medico della situazione, ma quando quella
mattina Kurt si era rifiutato di scendere nella palestra dell’ospedale per
cominciare le sedute di riabilitazione, probabilmente lei era stata quella meno
sorpresa della cosa. E questo non perché volesse vantarsi di conoscerlo meglio
anche del padre – proposito assurdo – ma semplicemente perché, a differenza
degli altri, guardando il ragazzo dall’esterno, si era accorta da subito che non
stava affatto bene.
Aveva
provato a farlo ragione, così come ci aveva provato Burt e perfino Finn aveva
insistito perché facesse quello che i dottori avevano programmato per lui, ma
non c’era stato verso di farlo muovere dal letto. In alcuni momenti Carole non
era stata neanche certa del fatto che Kurt li stesse ascoltando.
«Dov’è?».
La
voce di Blaine interruppe la scena e fece sospirare di sollievo Burt: forse il
ragazzo sarebbe riuscito a mettere un po’ di buonsenso nella testa di suo
figlio.
«In
camera, dove altro? Non ha voluto saperne di muoversi dal letto. C’è Finn con
lui: cerca ancora di persuaderlo, anche se credo che Kurt abbia smesso di
ascoltarlo da un po’».
Il
riccio annuì e guardò appena Cooper prima di entrare in stanza. C’era silenzio:
il suo ragazzo aveva lo sguardo rivolto verso la finestra, mentre Finn spostò
subito il proprio verso di lui, speranzoso.
«Blaine!»,
lo saluto, con fin troppo entusiasmo.
«Buongiorno»,
salutò questi, con un sorriso, rimanendo composto come se nulla fosse accaduto;
si avvicinò a Kurt, sfiorandogli con gentilezza il viso e baciandogli appena le
labbra – gesto a cui l’altro non rispose. Senza perdere il sorriso, poi, si
sedette accanto a lui sul letto.
«Sai…
è normale essere esitanti,
all’inizio. Quando sono stato in ospedale… ci ho messo un po’ prima di decidere
che era arrivato il momento di alzarmi dal letto. Era più… facile restarmene lì senza muovermi. Alle volte ricordo di aver
pensato che non mi sarei più mosso… ma alla fine ho dovuto farlo. Per me
stesso, perché dovevo andare avanti. Pensa a quante cose avrei perso se non mi
fossi più alzato. Non avrei mai
incontrato te».
Blaine
aveva cominciato a parlare senza pensarci troppo su, dicendo ciò che pensava,
sperando che Kurt capisse che cosa intendeva. Quelli annuì appena alle sue
parole, forse solo per dargli segno del fatto che, effettivamente, lo aveva
sentito, ma non disse nulla: non ne aveva né la forza né la voglia.
«Questo
è… diverso. Lo capisco».
No. Non puoi affatto capirmi.
«Quello
che è successo è… assurdo. Ma, Kurt: stai bene! Stiamo bene!».
Sono stato compito da un’esplosione, Blaine.
Nella mensa della scuola! Non sto affatto bene!
«…E
ci vorrà un po’ perché tutto torni alla normalità, ma non puoi mollare adesso».
Davvero? …perché no?
«Kurt–».
Blaine gli prese la mano – quella sinistra, quella danneggiata e fece male sentire quel tocco così lontano nonostante
fosse proprio accanto a lui. «Devi muoverti, devi usare questa mano e la gamba.
Dipende da te e lo sai».
Dipendeva
da lui? Davvero? E se non ce l’avesse fatta? Se non avesse più mosso la gamba o
il braccio? Non avrebbe potuto fare più nulla. Non sarebbe stato più nulla e non sarebbe dipeso da lui. Poteva
affrontare quello? Ne aveva davvero la forza?
Guardò
Blaine negli occhi, vide la sua speranza, il suo entusiasmo e avrebbe davvero
voluto condividerlo, ma semplicemente non ci riusciva. Ritrasse lentamente la
propria mano da quella del ragazzo e si rannicchiò sul fianco, voltandogli le
spalle. Il riccio sospirò, spostando di nuovo lo sguardo su Finn, che era
rimasto in silenzio fino a quel momento, e cercò di sorridergli, anche se sul
viso non apparve altro che una smorfia incerta.
*
Il
vociare dei ragazzi, unito alle continue occhiate nella sua direzione, quasi
impedivano a Thad si sentirsi pensare. Insomma, era sopravvissuto ad
un’esplosione, era tornato a casa sano e salvo, qual era il problema? C’era
davvero bisogno di fissarlo in quel modo per poi sussurrare qualcosa al
compagno seduto accanto?
«Hey, hai sentito?
Quello è Harry Potter! – Harry Potter? Quell’Harry Potter?».
Harwood
sussultò per quelle parole sussurrategli praticamente ad un palmo dall’orecchio
e voltandosi scorse Flint, che accompagnato da Nick e Jeff si sedette accanto a
lui al tavolo.
«Sei
davvero simpatico, Wilson», sbuffò, facendo finta di essere infastidito.
«Sono
solo realista. Sembra di stare nella Sala Grande prima dello smistamento di
Potter a Grifondoro. Tutti che parlottano e gettano sguardi fugaci in questa
direzione. Tra qualche ora avrai un fanclub di
ragazze che vorranno vedere le tue cicatrici».
Thad
quasi si strozzò con un boccone, senza sapere se dover cogliere o meno la
celata malizia di quel commento. Alzò lo sguardo verso l’amico e… sì, doveva decisamente
cogliere la malizia.
«Idiota»,
borbottò – e per un istante si sentì il petto più leggero. Flint sorrise
appena, stavolta genuino e il ragazzo ricambiò quel gesto per ringraziarlo. Era
splendido provare quella sensazione di calma e spontaneità che faceva sembrare
tutto uguale a sempre e cancellava quello che era successo.
L’entrata
in scena di Sebastian Smythe mise fine a quella sensazione di benessere,
facendo tornare a galla il nodo alla gola che, volente o nolente, stringeva
Thad ogni volta che lo vedeva. A Flint non sfuggì il cambiamento improvviso e
guardò gli altri per avere chiarimenti su quello che era successo. Nick e Jeff
scossero la testa, come a chiedergli di lasciar perdere e il biondo lanciò uno
sguardo truce al problema che se ne
stava in fila, con un vassoio in mano ed aria assente.
«In
fondo, non è neanche colpa sua: la mensa è comune, è ovvio che sia qui»,
sussurrò sovrappensiero Harwood.
«La
voglia di dargli un pugno è comunque molto alta», ribatté piccato Jeff, senza
voler sentire ragioni e in altre occasioni Thad avrebbe riso. Ora invece aveva solo
voglia di andare via, chiudersi nella sua
stanza e darsi dello stupido per il resto della giornata: ci stava male tanto
da essere patetico, quando non avrebbe dovuto fregargliene nulla.
Mentre
si alzava in piedi, si chiese quando avesse cominciato a provare qualcosa per
Sebastian. Era stato quando aveva deciso di cambiare scaletta alle regionali in
onore di Karofsky? O prima, quando alla notizia del tentato suicidio era
sbiancato così tanto da star male? O forse, in fondo, nonostante tutte le volte
che aveva asserito – credendoci – di odiarlo, in realtà non lo disprezzava poi
così tanto?
La
verità era che lui era abituato a parlare con le persone, ad interagire. E
invece con Smythe non si andava oltre la superficie di malizia e battutine: la
cosa non faceva altro che irritarlo, perché non sapeva mai come comportarsi o
che cosa dire, se poter contare o meno su di lui, quanto poteva essere sincero
e quanto di veritiero c’era in quello che il suo compagno di stanza diceva.
Tutto
quello che aveva sempre provato a fare era stato andare al di là del massiccio
strato di indifferenza e stronzaggine per vedere che cosa si nascondesse
dietro, per provare a capirlo davvero, provare a stabilire un qualche contatto.
Essergli quantomeno amico.
Ed
era finito in quella situazione. Ben fatto, Harwood.
«Non
dovresti farlo».
Thad
era così sovrappensiero, in quel momento, che sussultò scattando dritto sulla
schiena e sudando freddo. Chiuse gli occhi il tempo necessario per riprendere
fiato prima di voltarsi e mandare al diavolo l’idiota che lo aveva avvicinato
di spalle.
Salvo
scontrarsi col viso serio di Sebastian. Boccheggiò qualche istante, prima di
parlare.
«F-fare
cosa?».
«Saltare
i pasti».
La
sorpresa per la persona si tramutò in sorpresa per le sue parole. Non doveva
saltare i pasti? Perché non avrebbe dovuto salt- ma
poi che ne sapeva lui dei suoi pasti? Lo stava forse spiando?
«A
te che importa?».
«Dico
solo che sei appena tornato dall’ospedale, non sei al massimo delle tue forze,
quindi saltare i pasti non è la cosa migliore da fare».
Smythe
manteneva lo sguardo fermo e distaccato, come se non avesse alcun interesse nel
dire quello che stava dicendo, ma fosse solo uno scrupolo fastidioso; eppure
qualcosa in lui si agitava mentre le parole lasciavano le sue labbra e faceva una
difficoltà assurda nel trattenersi dal dire altro, dal dirgli che lo aveva
osservato in quei giorni ed aveva visto il modo distratto con cui aveva
giocherellato col cibo senza mangiare davvero e che se fosse andato avanti si
sarebbe sentito male. Gli avrebbe detto che in realtà la stanza era vuota ora
che aveva deciso di stare da solo e che si chiedeva spesso come stesse lui, se
avesse ancora dolori o dormisse bene la notte. Perché lui faticava a prendere
sonno, invece. Gli avrebbe detto…
Ma
Sebastian restò fermo, non disse nulla. Si limitò a guardare ancora per qualche
istante il ragazzo davanti a lui e quando si rese conto che l’espressione di
stupore e confusione non avrebbe lasciato presto il suo viso, si voltò e tornò
in mensa, facendo finta che non fosse successo nulla, che non avesse ceduto.
Thad,
da parte sua, stette a guardare l’altro che tornava sui suoi passi senza sapere
davvero che cosa pensare e rifiutandosi di classificare o anche solo di porre
la mente a quello che era appena successo. Probabilmente sarebbe impazzito del
tutto.
*
«La
coreografia per le Nazionali procede a gonfie vele, Kurt! Avresti dovuto
vederci. Ovviamente il mio assolo non potrebbe essere migliore, ma i ragazzi si
stanno impegnando tantissimo anche per il numero di gruppo! Sarà davvero
bellissimo».
La
voce fin troppo alta di Rachel ormai riempiva le orecchie dei ragazzi nella
stanza di Hummel da così tanti minuti che nessuno portava più il conto. Aveva
cominciato con lo spiegare che la giuria aveva già scritto il proprio voto
prima dell’esplosione e che quindi non c’era stato bisogno di far altro che
proclamare il vincitore – nonostante tutto – e che ovviamente erano risultati essere loro, per poi gettarsi a capofitto
su tutte le opzioni fra le quale aveva scelto l’assolo, elencandone i pregi e i
difetti e aggiungendo le motivazioni che l’avevano portata a scartarle una dopo
l’altra, fino a trovare quella perfetta.
Kurt
la guardava senza ascoltarla davvero. Conosceva da così tanto tempo Rachel che
se anche non avesse sentito quale pezzo si era aggiudicato la vittoria, avrebbe
potuto indovinarlo dall’espressione sul suo viso – e con giusto un briciolo di
fortuna.
«Mr.
Shue dice che non appena tornerai, saremo pronti a
vincere le Nazionali. Quest’anno il titolo sarà nostro, senza alcun dubbio!».
Il
ragazzo guardò Mercedes, a lato del suo letto, e non ebbe la forza di
sorriderle. In fondo sapeva perché i ragazzi delle New Directions erano venuto quel
pomeriggio. Non era difficile immaginare che Blaine avesse parlato con loro della
sua intenzione di non spostarsi da quel letto – o magari era stato suo padre a
dirlo direttamente al professore. Speravano di invogliarlo a muoversi con la
promessa di una magnifica competizione, ma l’idea di salire sul palco, in quel
momento, gli dava solo la nausea.
«Sarà
nostro», sussurrò «Se stavolta la scuola non decide di caderci addosso mentre
siamo ancora in scena».
Il
gelo fu improvvisamente percettibile nella stanza, quasi avessero acceso un
condizionatore. I ragazzi si voltarono verso di lui, Kurt poteva sentire lo
sguardo ammonitore di Blaine su di sé anche se stava evitando di guardarlo
dalla mattina.
«Oh,
non fate quelle facce! Non vorrete farmi credere che alla prossima occasione di
esibirsi per una competizione, sarete in grado di far finta che non sia
successo nulla! Tutti vi chiederete se crollerà di nuovo tutto! Perché è
successo, che abbiate intenzione di accettarlo o meno: il McKinley è esploso e
noi saremmo potuti morire tutti!».
«Ma
siamo qui, Kurt. Siamo tutti qui», disse Puck, alzandosi in piedi «E piangerci
addosso di certo non migliorerà le cose».
«Neanche
far finta che sia tutto come prima solo perché non siamo morti», ribatté il più
piccolo – e si poteva dire che non lo vedevano così energico da davvero troppo
tempo.
«Nessuno
sta facendo finta, accidenti!»; stavolta fu Blaine a parlare, alzando la voce,
zittendo tutti «Ci stiamo provando, Kurt, ci stiamo davvero provando a non
farci bloccare dalla cosa, ma tu sembri voler semplicemente buttare tutto a
terra!».
«Non
è rimasto molto da buttar giù, in fondo…».
«Eccoti.
Ecco di nuovo il pessimismo gratuito che salta fuori. Cosa credi, che noi qua
stiamo perfettamente bene? Che abbiamo passato la spugna su quello che è
successo e semplicemente lo abbiamo rimosso? Rachel mi ha detto di non riuscire
a dormire ancora bene da quand’è successo e Santana passa la maggior parte
delle notti a controllare che il respiro di Brittany
non si fermi nel sonno, perché abbiamo rischiata di perderla nell’esplosione.
Noi ragazzi non stiamo messi meglio: personalmente non so cosa voglia dire
dormire bene da quando tu… Ma ci stiamo provando, ad andare avanti, mentre tu
hai deciso di arrenderti e restare qui… e non fare nulla».
Kurt
non sapeva che cosa dire. Blaine stava gridando come non aveva mai fatto con
lui, neanche nelle loro peggiori liti: poteva sentire lo sforzo che stava
facendo per non far incrinare troppo la voce e vedeva le lacrime accumularsi
davanti ai suoi occhi, pronte a farlo crollare.
Ma
non capiva. Non poteva capire che cosa intendesse lui.
«Vuoi
sapere una cosa? Sono stato seduto su questa sedia per giorni. Mentre tu
dormivi, ho parlato, ho cantato, ti ho raccontato quello che mi succedeva, ti
ho pregato di svegliarti perché credevo che una volta sveglio le cose sarebbero
andate meglio, che tutto sarebbe tornato come prima. Certo, non da subito, ma
col tempo, insieme, saremmo tornati ad essere quelli di prima…».
«Mi
dispiace deluderti, Blaine, ma non si ottiene sempre quello che si vuole»,
disse freddo Kurt, quasi fosse infastidito da quelle parole, ma senza capire il
perché.
«Hai
ragione. Perché questo non è il mio
Kurt. Tu non sei il mio Kurt! Il mio
Kurt non si è ancora svegliato!».
«Scusa!
Scusami se non sono allegro e pimpante, Blaine, ma tu non c’eri! Tu non eri lì quando tutto è successo! Io ero nella mensa, io c’ero ed è stato orribile!». Ora stava urlando anche lui:
andavano a ruota libera, quasi senza pensare prima di aprire bocca – o peggio,
agendo con spietata sincerità.
«E
chi ti ha mai chiesto di essere “allegro e pimpante”?! Ma ti stai arrendendo e
se c’è una cosa che il mio Kurt non
farebbe mai è arrendersi agli eventi senza fare nulla! Dov’è adesso il coraggio
che ti ha fatto affrontare il bullismo o che ti ha fatto portare un ragazzo al Prom per poi ballare con lui davanti a tutti? E in ogni
caso, potrai aver ragione nel dire che non ero in quella dannata mensa con te,
ma anch’io c’ero quel giorno. E tu
non eri con me. Ed è stato orribile».
Nessuno
osò emettere fiato dopo quelle parole – neanche Kurt. Blaine uscì velocemente
dalla stanza, prima che le lacrime lo scoprissero più ferito di quanto era
disposto a concedersi.
«Ok,
ascolta: se fai così non posso aiutarti! Prendi fiato e raccontami che cosa è
successo».
Blaine
Anderson si odiava per quello che stava facendo: piangere nell’auto del
fratello senza neanche riuscire a respirare per i troppi singhiozzi era una
cosa che avrebbe davvero evitato, ma semplicemente non ce l’aveva fatta. Quelle
parole, gli occhi di Kurt così diversi dal solito, si era semplicemente sentito
sopraffatto ed aveva gettato tutto fuori. Per poi trovarsi a singhiozzare non
appena fuori dalla stanza d’ospedale.
«Schizzo,
ti prego…».
Cooper
– che lo stava aspettando in macchina, dal momento che l’orario delle visite
volgeva ormai al termine – se l’era improvvisamente ritrovato in macchina,
sconvolto e in lacrime e fino a quel momento non era stato in grado di fargli
dire una sola parola: tutto quello che aveva ottenuto erano singhiozzi e
tentativi vari di formare una frase, che puntualmente erano finiti in un
respiro mozzato. Aveva paura che potesse avere un attacco di panico da un
momento all’altro.
«Kurt.
L-lui dice. Lui dice che non vuole… non vuole fare la riabilitazione. N-non
vuole fare nulla. Ha i-intenzione di rimanere in quel letto e fine della
storia. Dice che-che non so cosa si p-prova perché non ero con lui. Non ce la
faccio, Coop. Gli ho u-urlato contro e s-sono scappato via».
Il
fratello maggiore lo guardava con una tristezza infinita, chiedendosi perché le
cose non potessero semplicemente prendere la strada più facile, per una volta.
Era così stanco di vedere Blaine soffrire, così stanco di quelle lacrime, che
avrebbe fatto di tutto per cacciarle via.
Fu
per questo che scattò fuori dalla macchina e si diresse verso l’entrata
dell’ospedale di corsa. Chiunque lo aveva conosciuto almeno un po’, aveva
imparato che poteva essere davvero una testa calda e che molti errori li aveva
commessi proprio per questo – eppure in quel momento Cooper Anderson non si era
mai sentito tanto bene nel gettarsi così a capofitto, senza pensare.
Ignorò
l’infermiera che gli diceva che l’orario delle visite era finito e salì le
rampe di scale senza curarsi di quegli ultimi che si affrettavano a trovare
l’uscita. Quando raggiunse la stanza, fece di tutto per riprendere fiato quanto
prima e non appena gli sembrò di poter sostenere quello che stava per fare, si
getto nella camera, che ormai ospitava solo il diretto interessato.
«Non
se lo merita», esordì, catturando l’attenzione di Kurt.
«Sei
venuto a farmi la paternale anche tu?»,
lo contrastò il ragazzo.
«Sta’
zitto!», gridò Cooper «Io so che cosa
vuol dire ferire Blaine Anderson, perché l’ho fatto – più e più volte – e sarà
probabilmente la sola cosa che non riuscirò mai a perdonarmi, quindi ora stammi
a sentire! È rimasto su quella dannata sedia per tutto il tempo che l’ospedale
gli ha concesso, senza mangiare, senza dormire; ti ha parlato in continuazione,
anche quando i singhiozzi cercavano di fermarlo. Ti è rimasto accanto, pregando
che tu ti svegliassi: è stato un incubo per lui. Ed ora che credeva di esserne
uscito, tu vuoi di nuovo gettarlo a terra? Non hai visto com’è stato, non hai
idea di quanto possa stare male per te, dannazione. E non puoi, non ti permetto di fargli altro male.
Non so che problema tu abbia, per quale assurdo motivo tu abbia deciso di non
fare più nulla della tua vita, ma non ti lascerò trascinare giù Blaine. Non me
ne starò a guardare inerme mentre si spegne».
Kurt
non aveva parole per poterlo contrastare. Gli mancava anche solo il fiato per
respirare, nel sentire quelle parole. Aveva accusato tutti – e soprattutto
Blaine – di non capire, di non poter capire nulla di quello che provava, ma
alla fine quello che non aveva capito niente era solo lui. Osservò Cooper
andare via nello stesso modo improvviso con cui era arrivato e quando suo padre
rientrò in stanza per fargli compagnia quella sera, nascose le lacrime contro
il cuscino.
*
Ci
sono delle cose che, semplicemente, devono accadere. Che sia destino o altro,
tutto improvvisamente concorda perché ci si ritrovi in un determinato posto in
un preciso istante, giusto in tempo per vedere o sentire il necessario.
Cameron
fu certo di quella teoria nel momento stesso in cui aprì gli occhi, nella sua
camera semibuia. Si voltò di lato, scorgendo l’orario sulla sveglia digitale e
quando arrivò a chiedersi per quale motivo si fosse svegliato nel bel mezzo
della notte, lo vide: Richard, di spalle, aveva le braccia appoggiate al
davanzale della finestra e sbirciava all’esterno, nel buio del paesaggio che le
gli si offriva.
Il
ragazzo stette a fissarlo per un po’, cercando di capire a cosa stesse
pensando, ma solo quando l’occhio ricadde sulla sveglia tutto gli fu chiaro:
era l’anniversario. Aveva avuto tutto gli indizi del caso, dopotutto: erano
giorni che Richard era silenzioso ed assente, ma con tutto quello che era
successo, aveva pensato che fosse solo il suo modo di metabolizzare tutto. Per
qualche giorno aveva completamente rimosso il fatto che si stesse avvicinando
quella data ed ora era del tutto impreparato – e si sentiva in colpa.
«L’ho
rimosso. Sono successe così tante cose in questi giorni che semplicemente me ne
sono dimenticato. Scusami».
Il
ragazzo alla finestra si voltò lentamente – il pallido bagliore della luna lo
faceva sembrare sfocato, senza precisi contorni, quasi non fosse realmente lì.
Cameron notò subito la scia di lacrime sul suo viso e quello bastò a
stringergli il cuore, mentre un groppo si formava all’altezza della gola. Poi
però, Richard inaspettatamente sorrise. Fu uno strano ossimoro, che l’altro non
seppe spiegarsi.
«Non
c’è niente da scusare, Cam», sussurrò con voce
controllata «La cosa più interessante è che per qualche giorno è passato di
mente anche a me. Ero così preoccupato per Thad, così attento a vedere come
stesse anche Smythe che il pensiero di lei è scivolato in secondo piano. E poi
mi sono svegliato, a mezzanotte precisa, e tutto è tornato a posto. L’ho
ricordato».
Cameron
scese dal letto e gli si avvicinò, appoggiandosi al davanzale della finestra e
tirandolo un po’ a sé. Richard non si oppose ed appoggiò la testa contro la sua
spalla: era l’unico che riusciva a calmarlo quando si trattava di sua sorella.
«Alle
volte mi chiedo che cosa sarebbe successo se l’avessi trovata io anche quella volta. Se anche quella sera fossi rimasto a
casa, come al solito, e fossi andata io ad avvisarla della cena. Lo facevo
sempre, sarebbe successo… l’avrei vista lì, sul letto, vuota e sarei impazzito…».
Il
compagno di stanza lo ascoltava in silenzio, senza guardarlo. Odiava vederlo
così triste, ma sapeva anche che parlarne gli faceva bene, quindi restava lì e
lo ascoltava. Richard diceva che bastava questo, ma lui non ne era mai stato
davvero sicuro.
«Anche
se immagino di essere un po’ impazzito comunque, no? L’ho vista provarci e poi
è successo davvero, basta sommare le cose…».
«È
completamente diverso, invece!», si oppose Cameron «L’hai salvata, ricordi? Se
non fossi arrivata, sarebbe morta!»
«È
morta comunque!».
Non
fu un grido, ma qualcosa di strozzato che sapeva di detto troppe volte.
«Ma
non è stata colpa tua. Non potevi farci nulla».
Ora
Cameron lo aveva preso per le spalle e lo guardava dritto negli occhi. Quella
era una conversazione che entrambi avevano vissuto più di una volta, ma lui non
si sarebbe mai stancato di ripetergli che non era colpa sua se Annie si era
uccisa, che non poteva farci nulla. Richard era convinto che avrebbe potuto
salvarla, perché una volta era successo, una volta l’aveva trovata in bagno,
con le forbici in mano, e aveva capito che cosa stava per fare, interrompendola
in tempo. Non aveva detto nulla, ma da allora non aveva distolto lo sguardo da
lei, mai; non l’aveva mai lasciata sola, era sempre stato pronto a proteggerla.
E poi, quella sera, si era concesso uscita di poche ore e lei l’aveva fatta
finita. Quando era tornato a casa, le volanti della polizia aveva confermato le
sue paure.
«Potevo
restarle accanto, potevo… aiutarla a superare tutto…»
«No,
non potevi».
«Sì,
invece! Se ne avessi parlato con qualcuno, se avessi detto quello che sospettavo
ai nostri genitori…».
«Annie
era una ragazza dall’apparenza così solare ed aperta che nessuno avrebbe
prestato attenzione alle parole di un ragazzino… è stata brava a nascondere
tutto, finché non ha potuto più. Non è colpa di nessuno, Richard… Non è colpa
di nessuno».
Il
ragazzo prese a piangere, la calma che aveva pochi minuti prima si era
improvvisamente frantumata. Sapeva che Cameron aveva ragione, che probabilmente
non sarebbe stato in grado di far capire i suoi genitori che qualcosa in Annie
non andava, che stava lentamente scivolando verso il fondo e si mostrava
realmente per quello che era solo quando credeva che nessuno potesse vederla.
Ma lui la vedeva, lui la vedeva sempre,
a differenza dei genitori, sempre troppo impegnati per prestarle un po’ di
attenzione in più della minima richiesta.
Probabilmente
non avrebbe fatto la differenza e le cose sarebbero andate allo stesso modo, ma
Richard non riusciva a togliersi dalla testa il viso spento di sua sorella o
gli sguardi shoccati ed increduli dei suoi genitori,
la notte di tre anni prima, quando avevano trovato il suo corpo. E il dubbio
restava a tentare di buttarlo giù ogni volta che abbassava la guardia.
«…stavolta
me ne sono addirittura dimenticato, Cam. Come ci si
può dimenticare della morte della propria sorella, me lo spieghi?».
Stava
venendo tutto fuori, come un fiume in piena e Cameron doveva essere la diga che
calmava le acque.
«Sono
successe tante cose, più… imminenti di questa. Non l’hai dimenticato, hai solo
dato la priorità ad altro».
«Ho
dato la priorità a qualcosa che non fosse Annie!»
«Hai
dato la priorità a qualcosa che potevi ancora cambiare. A Thad, uno dei nostri
migliori amici e a Smythe che è ancora con noi, ancora sconvolto. Ti sei
preoccupato per lui, nonostante non sia così amichevole con noi, hai fatto una
cosa bellissima!».
«Non
ho fatto niente, invece! Sono stato di nuovo lì ad osservare, da lontano, senza
muovere un dito».
«Osservare
ed ascoltare non sono poco. Lo dici ogni volta che mi lamento di fare troppo
poco con te», gli ricordò l’amico e solo allora Richard si fermò.
Cameron
aveva imparato che quando tutto tornava a galla, Richard aveva un punto di
rottura ed uno di freno. L’aver dimenticato l’anniversario era stato il suo
punto di rottura, e l’avergli ricordato che loro avevano imparato a fare sempre
tutto quello che potevano nel modo più discreto possibile era stata la cosa che
lo aveva calmato.
«Touché»,
sussurrò, stringendosi un po’ di più all’amico «Come diavolo fai a sopportarmi
ogni volta?».
«Osservare
ed ascoltare. Sono specializzato ormai», disse l’altro, sorridendo appena e
passandogli un braccio intorno alle spalle.
Richard
non si sentiva mai così al sicuro come quando era con Cameron: sapeva che lo
avrebbe sempre tornato al suo fianco, non importava quante volte avrebbe dovuto
ripetergli le stesse cose.
Un
improvviso rumore alla porta fece sobbalzare entrambi. Si voltarono di scatto,
ma restarono fermi, in attesa di qualcosa che non tardò ad arrivare: di nuovo
lo stesso rumore confermò ad entrambi che qualcuno stava bussando alla porta
della loro stanza con una certa insistenza. I due ragazzi si guardarono, stranamente
indecisi sul da farsi, quando qualcosa fugò ogni loro dubbio.
«Lo so che siete lì dentro, avanti
apritemi!».
Era
la voce di Smythe e non avevano bisogno di guardarlo per capire che era
ubriaco. Cameron scattò in avanti ed aprì la porta prima che quell’idiota
svegliasse tutto il dormitorio. Non poté comunque trattenere la sorpresa quando lo vide, con la
divisa fuori posto, i capelli arruffati ed il volto a metà fra l’isterico e il
distrutto. Quello era solo una pallida copia del Sebastian che erano abituati a
vedere.
Il
ragazzo gli si appoggiò addosso quasi non avesse più forze e Cameron faticò a
tenere in piedi entrambi. Lo portò dentro, aiutato da Richard a cui scoccò
un’occhiata leggermente preoccupata: quella situazione non gli avrebbe fatto
bene, non in quel momento.
«Poggiamolo
sul letto», gli disse pratico.
«Ce
ne avete messo di tempo per aprire, uh? Interrompevo qualcosa?», biascicava
intanto Sebastian, lasciando nell’aria l’odore forte di tutto l’alcool che
aveva bevuto.
La
malizia con cui aveva pronunciato quelle parole bastò a far arrossire Richard,
mentre Cameron si lasciava scappare un sorrisetto alla reazione dell’amico. Non
c’era che dire: Smythe non si smentiva in nessuna circostanza.
«Non
che non l’avessi sospettato da prima, eh», stava ancora continuando l’ubriaco
«Insomma, era abbastanza chiaro quello che c’era sotto, capite? Ma devo dire di
aver avuto una bella prova, stanotte».
«Che
ti è successo?», gli chiede Richard, senza sapere se gli interessasse davvero
sapere perché si fosse ridotto così o avesse parlato solo per farlo stare
zitto.
«Ditemi,
quale letto usate?», ribatté quello, senza dar parvenza di aver sentito la
domanda, al che Richard si avvicinò con uno sguardo improvvisamente serio.
«Sebastian,
dico davvero, che cosa è successo?». Ora gli interessava sapere perché stesse
sviando il discorso.
«Sbronza
con gli amici!», esclamò questo a voce troppo alta «Mai capitato, eh? Tutti
troppo seri e rigidi qui, l’ho sempre detto!».
Sembrava
andasse a ruota libera eppure a nessuno dei due ragazzi era sfuggito il fatto
che non avesse ancora detto effettivamente perché si fosse ridotto così. Era troppo ubriaco per una semplice sbronza
con gli amici.
«Possiamo
aiutarti, Sebastian… se hai bisogno di parlare, sai, siamo qui», si fece
coraggio Richard. Cameron lo guardò annuendo e lui si sentì un po’ più calmo
nel saperlo accanto anche in quella occasione. “Osservare ed ascoltare” sarebbe sempre stato il loro principio.
La
risata che uscì dalle labbra del ragazzo era improvvisamente così distorta da
gelare i due. Si guardarono, senza capire, e quando si volsero di nuovo verso
Smythe, il suo volto era completamente diverso. Era così serio e triste e a
tratto furioso da fare spavento.
«Non
siate stupidi», sussurrò flebile «Nessuno… nessuno può aiutarmi… È che… io ci
provo, davvero. Faccio di tutto per non lasciarmi andare, per essere sempre
vigile e fermo nelle decisioni che ho preso, ma poi lui mi compare davanti e non posso fare a meno di cedere. E mi odio
per questo. E odio lui, perché sta rovinando ogni cosa. Credevo che cambiare
stanza avrebbe fatto in modo che si allontanasse, eppure continua a… ovvio,
certo, siamo nella stessa scuola, ma è assurdo che proprio mentre sto cercando
di ricreare un equilibrio, lui salti fuori e… non avrei dovuto parlargli.
Questo è colpa sua, è colpa del fatto che da quando gli ho rivolto di nuovo la
parola non sono riuscito a non pensare a lui… e tutto questo…»
Sia
a Cameron che a Richard era chiaro che Sebastian stesse parlando di Thad, ma
non avevano capito che il ragazzo fosse così coinvolto dal suo ex compagno di
stanza. Smythe non era mai sembrato il tipo di persona che perde il controllo
di sé eppure ora sembrava completamente a pezzi.
*
«Non dovresti farlo».
«F-fare cosa?».
«Saltare i pasti».
Thad
si rigirò nel letto facendo attenzione al gesso che ancora gli bloccava
fastidiosamente il braccio, mentre la prima luce dell’alba cominciava ad
illuminare la stanza. Avrebbe voluto alzarsi e chiudere meglio le tapparelle,
considerato che quel giorno non avrebbero avuto lezione e sarebbero potuti
restare a letto qualche ora in più, ma il corpo non volle proprio saperne di
muoversi. Riuscì a malapena a girare la testa verso il letto accanto a quello
in cui si trovava, per vedere Nick e Jeff che dormivano abbracciati, l’aria
pacata di quando si è nel posto giusto e nulla potrebbe andare storto.
Un
sorriso gli increspò le labbra, ma sparì immediatamente quando la testa associò
la stessa immagine a lui e Sebastian. Ma che diavolo andava a pensare? Lui e
Sebastian in quella situazione…? In fondo gli sarebbe bastato semplicemente un
“lui e Sebastian”, non importava il contesto.
In
quei giorni odiava la solitudine, perché gli permetteva di fare pensieri come
quello. Cercava di tenersi impegnato quanto più possibile e di essere sempre in
compagnia, così da non avere neanche un istante per sé. Nick e Jeff avevano
accettato volentieri la sua richiesta di asilo notturno, così che ormai lui
dormiva nel letto di Jeff e i due piccioncini potevano passare le notti
abbracciati.
Eppure,
a quanto pareva, quel piano doveva avere qualche falla, dal momento che si
trovava di nuovo in quella situazione e non aveva neanche la voglia di
svegliare qualcuno per potersi sfogare – nonostante Jeff gli avesse ripetuto
fino alla nausea che era pronto ad ascoltarlo a qualsiasi ora del giorno e
della notte.
Era
colpa sua. Se non gli avesse rivolto la parola, non si sarebbe ritrovato in
quello stato. Che diavolo gli era passato per la testa? Erano giorni che lo
ignorava e poi si metteva improvvisamente a dispensare consiglio salutari, come
se gliene fregasse davvero qualcosa di lui.
Thad
si rigirò tra le coperte, sempre più inquieto. Aveva smesso di illudersi,
eppure quel crampo allo stomaco restava. Perché Sebastian non gli aveva mai
detto qualcosa di così simile ad un consiglio affettuoso e lui non poteva fare
a meno di pensare che almeno un po’, in uno strano modo a lui ancora poco
chiaro, Sebastian ci tenesse.
Ma ti rendi conto di quanto risulti patetico
ogni volta che lo pensi?, si chiede, improvvisamente infastidito da tutto
quello che riguardava il ragazzo. Che altro voleva, un documento con bollo
imperiale che gli garantisse che a Smythe non importava nulla di lui?
Probabilmente non si sarebbe arreso finché non gliel’avesse sentito pronunciare
chiaramente. Ed avrebbe fatto male, ne era certo, ma probabilmente sarebbe
stato risolutivo. Definitivo. Ci avrebbe messo una pietra sopra e avrebbe
potuto continuare con la sua vita, senza più stupide distrazioni.
Niente
più Sebastian. Niente più illusioni.
Harwood
scattò in piedi e si diresse in bagno. Aveva portato alcune delle sue cose in
quella stanza, così da potersi lavare e vestire lì – ormai la sua camera era
solo un luogo di passaggio. Gli era estranea. Si fece una doccia veloce e mise
su la divisa, facendo attenzione a fare quanto meno rumore possibile.
«Mmh… lo sai che non ci sono lezioni oggi, vero?», mugugnò
Jeff, ancora mezzo addormentato, mentre l’altro si stava facendo il nodo alla
cravatta davanti allo specchio.
«Non
vado a lezione, infatti!», rispose, concentrato su quello che stava facendo,
come se fosse un complicato problema di matematica.
«E
allora perché non stai dormendo?».
Per
essersi appena svegliato, Sterling faceva fin troppe domande.
«Vado
a parlare con Smythe», rispose ancora, vagamente atono «Metto fine alla cose.
Stamattina».
Quella
frase svegliò del tutto il migliore amico, che si tirò su, colpendo un ignaro
Nick, che biascicò qualcosa di poco comprensibile.
«Che
hai intenzione di dirgli?».
Solo
in quel momento Thad incontrò gli occhi di Jeff. Bella domanda, la sua. Cosa
aveva intenzione di dirgli?
«Non
mi sono di certo preparato in discorso!», si mise sulla difensiva «Ma sarò
chiaro. Carte in tavola: che vuole da me? Voglio mettere fine a qualsiasi
dubbio, qualunque cosa accada. Non si può andare avanti così, mi sembra di
stare in guerra fredda».
Qualcosa
di poco chiaro uscì dal cuscino sotto il quale si era istintivamente rifugiato Duval.
«Nick
dice che è rischioso», tradusse il ragazzo.
«Tu
lo capisci quando fa così?», si sorprese Thad.
«Deformazione
professionale», spiegò quello alzando le spalle «E comunque… ha ragione».
«Lo
so. Ma tutto è meglio di questo».
Harwood
uscì dalla stanza sperando di avere ragione.
Forse non è in camera, pensò Thad mentre
colpiva di nuovo la porta della stanza di Smythe con una certa insistenza. Anche se è assurdo che se ne vada in giro a
quest’ora del mattino in un giorno in cui non abbiamo lezione.
Sospirò.
Forse non era affatto tornato. Magari era rimasto a dormire da un amico… o da
qualcuno che aveva incontrato allo “Scandal”. Il
pensiero lo fece star male.
Buon Dio, smettila di essere così stupido!,
si disse, ma non c’era modo di cacciare l’immagine di Sebastian nel letto di un
altro. Non c’era nulla fra loro, non era neanche sicuro di quello che provava
per lui, eppure la gelosia lo stava improvvisamente corrodendo, più veloce di
un acido.
«Se stai cercando Smythe, non è in camera
sua».
La
voce di Cameron lo fece voltare ed il ragazzo entrò nel suo campo visivo.
«Sai
dov’è?», gli chiede, sorpreso.
Cameron
parve esitare qualche istante, indeciso. Richard, accanto a lui, prese parola.
«Stanotte
aveva dimenticato le chiavi della stanza, così io e Cam
lo abbiamo ospitato nella nostra. Lo trovi ancora lì». Non sapeva perché avesse
deciso di mentire e coprire Smythe, ma era stato istintivo e fortunatamente
Cameron gli stava reggendo il gioco, annuendo.
Harwood
non pensò che per un attimo a quanto improbabile fosse la scena descritta dai
due ragazzi, perché si diresse velocemente nella stanza e aprendola, trovò
Sebastian che aggiustava il colletto della camicia appena indossata.
«Smythe»,
lo chiamò, facendo qualche passo avanti.
Il
ragazzo si voltò verso di lui, sorpreso e per qualche strano motivo agitato.
Thad, invece, era divorato dall’ansia che minacciava di far cadere la
convinzione che lo aveva sostenuto fino a quel momento.
«Harwood»,
disse di rimando, cercando di apparire disinteressato.
«Dobbiamo
parlare…», azzardò l’altro e la frase suonò così male alle sue orecchie da non
poter fare a meno di chiedersi quanto peggiore potesse apparire a Sebastian.
Questi infatti non riuscì a trattenere una risatina di scherno.
«…parliamo»,
concesse, con fare superiore.
Thad
sbuffò. Era così dannatamente stanco di quell’atteggiamento…
«Cos’è
che vuoi, Sebastian?», sbottò, innervosito, cogliendo l’altro di sorpresa «Mi
dici di starti alla larga, cambi stanza pur di non vedermi, mi ignori in modo
tremendamente palese e poi mi dici di non saltare i pasti, perché non fa bene?!
A che gioco stai giocando? Vuoi farmi impazzire?».
«…ma
di cosa diavolo parli?», chiede Smythe, con tono incredulo, come se Thad avesse
appena detto che la Luna era al centro del Sistema Solare e la Terra le girava
attorno «Sapevo che prima o poi sarebbe successo: sei una persona così
melodrammatica che davvero mi chiedevo quando saresti venuto a farmi una
scenata del genere!».
Thad
era senza parole. Si sentiva preso in giro: improvvisamente era passato alla
parte del torto senza in realtà aver fatto nulla. O forse non era abbastanza
obbiettivo da vedere quanto in realtà fosse patetico?
«Ti
basta poco per montarti la testa, uh?», lo schernì «Ricorderò di non rivolgerti
più la parola neanche per un semplice consiglio».
Al
ragazzo sembrò girare la testa: perché continuava a prenderlo in giro in quel
modo? Che cosa aveva fatto di male lui?
«Non
era un semplice consiglio!», gridò al limite della sopportazione «Eri tu, che
ti interessavi! Tu, che mi avevi detto che non ti importava nulla, che dovevo
solo starti lontano! Me ne ero fatto una ragione, ci stavo riuscendo e poi
sbuchi e mandi tutto all’aria! Perché mi stai facendo questo, dopo tutto quello
che io-».
«Che
tu cosa? Cosa, Harwood? Cosa te ne
frega di me, in fondo? Tutto questo è colpa tua! Tua e della tua stupida mania
di ficcare il naso dove non dovresti, di interessarti a persone che non
vogliono saperne nulla del tuo buon cuore! Tu che-».
A
Sebastian morirono le parole in bocca. Thad era diventato improvvisamente
pallido e poté vedere chiaramente il momento in cui gli occhi ruotarono e il
corpo privo di sensi cadde al suolo con un rumore sordo, reso ancora più
inquietante dal fatto che il gesso era sbattuto contro il pavimento.
La
testa gli girò improvvisamente, mentre si precipitava su di lui, cercando di
tenerlo su passandogli un braccio sotto le spalle. Vederlo in quello stato, si
rese conto, era il peggiore degli incubi che avrebbe mai potuto sognare.
«Harwood?
Thad?! Thad, apri gli occhi! Thad!?», lo chiamò, la voce tremante, il buonsenso
e la freddezza ormai mandate a farsi benedire.
Si sentì morire dentro quando il ragazzo non diede segno di ripresa.
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Sì, sono incredula quanto voi per questo improvviso aggiornamento! Eppure, nonostante la sessione estiva minaccia di farmi collassare da un momento all’altro, sono riuscita a completare questo capitolo! ** Lo so, solo la solita casinista: a quei poveri ragazzi non ne va bene una ^^’’ ma che volete farci? Troppa calma mi annoia. I Klaine hanno faticato a collaborare ma alla fine sono venuti fuori – spero in maniera decente, così come il resto delle vicende! In particolare ringrazio Vals perché in qualche modo mi ha suggerito la scena di Cameron e Richard ^^
Per il resto… credo che il prossimo capitolo potrebbe essere l’ultimo *parte l’Alleluja*. Ebbene sì, probabilmente anche questa storia volgerà presto al termine!
Quindi, sperando di non essere sempre così in ritardo, vi rimando al prossimo capitolo, ringraziando tutti per l’attenzione ♥
Alch!