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Autore: Delirious Rose    30/06/2013    13 recensioni
Trentaduesimo anno del regno di Denev XVII: mentre la corte inizia a chiedersi chi sarà adottato da Sua Eccellentissima Altezza, Suuritnias Calliram, come suo erede, Rouva Albirea ha pochi dubbi in proposito. E lei è decisa a utilizzare qualunque mezzo per poter accedere al trono, anche se questo significa opporsi a suo padre, anche se questo significa mettere in pericolo la sua reputazione. Anche se questo significa simulare sentimenti che non prova.
{Prima classificata al contest "Fantasy I Love U" di fravgolina}
{Questa storia partecipa al contest "One Shot Panic!" di WhatHasHappened}
Genere: Fantasy, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Ærthia'
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Il cammino che mena al trono è come un periglioso sentiero d’alta montagna: solo gli ambiziosi e gli audaci osano percorrerlo.

S.E.M. Denev I, “Massime”.

 

 

La regina di giada

 

 

 

Sorrise quando la nebbia si alzò, mostrando la cima della montagna ormai vicina: ancora un leigh o due e avrebbe ottenuto quello che più desiderava. Strinse con le mani nude la roccia, la tastò coi piedi per trovare un appiglio sicuro e riprese la scalata.

Stava già pregustando la vittoria quando un’ombra – un uccello? Un drago? – le oscurò il sole per un istante come un cattivo presagio: uno degli appigli cui si teneva cedette e precipitò nel vuoto…

 

 

Sedette sul letto di scatto, madida di sudore e con i lunghi capelli biondi, mai tagliati dalla nascita, appiccicati alla pelle nuda. Pose le mani sul viso e cercò d’allontanare i ricordi di quel sogno che da qualche mese perseguitava il suo sonno. Si alzò, avvolgendo il lenzuolo di tessuto fine attorno al corpo, e diede un calcio all’ancella accoccolata per terra che, lei, dormiva placidamente.

«Mi-mia Signora?» tentennò l’ancella, la voce impastata di sonno.

«Il bagno. E questa volta non sbagliare con la miscela di olii,» comandò, guardandola altera mentre l’ancella si stiracchiava come un gatto prima di alzarsi e uscire dalla stanza.

Un bagno era quello che le ci voleva per allontanare i ricordi di quel sogno e, allo stesso tempo, darle sollievo dall’afa che caratterizzava le estati di Vernolia. Girò per la stanza, godendo del freddo marmo sotto i piedi nudi, ancor più innervosita dalla lentezza della serva: stava per richiamarla, quando dei rumori – un nome – l’attirarono verso la finestra e lei sbirciò fra gli intarsi delle imposte. Nel cortile era arrivato il Comandante Hraustrion Relda, accompagnato da due dei suoi figli: il minore era il più giovane fra i Cavalieri del Drago d’Argento, e molti sospettavano che ciò fosse stato possibile solo grazie a Sua Eccellentissima Altezza, Suuritnias Calliram. Sbuffò, arricciando le belle labbra in un sorriso mentre con lo sguardo di giada accarezzava il profilo del ragazzo: solo a un idiota poteva venire la balzana idea che si potesse barare nella cattura e nella conseguente domatura di un drago silverino.

Era bello, Heran Relda, dai lineamenti così fini e aristocratici che si sarebbe scambiato per un principe di sangue: una deduzione non proprio menzoniera poiché, se il padre non era altro che un rozzo soldato – per quanto potesse essere il braccio destro dell’erede al trono – la madre, Dama Bluma Lamnes, restava una discendente della Casa degli Antichi Sovrani che avevano governato Vernolia fin quando re Denev I non si era impossessato del trono. Era bello, Heran Relda, tanto che le dame di corte se lo mangiavano con lo sguardo ogni volta che si presentava al palazzo reale: le aveva sentite più volte sospirare e rimpiangere che fosse solo un cavaliere, che la differenza di rango fosse incolmabile e che tutte le loro speranze nei suoi confronti fossero irrealizzabili.

«Rouva Albirea?» La voce dell’ancella la distrasse dai suoi pensieri e, senza degnarla di uno sguardo, si diresse verso la stanza da bagno.

«Scegli con cura l’abito: il mio Eccellentissimo Signor Padre ha visite.»

Albirea non aveva bisogno di voltarsi per vedere l’espressione della serva: poteva indovinare il suo sbirciare oltre le imposte, e il sorriso complice e malizioso dipingersi sulle labbra volgari. Già, che pensasse pure che perfino lei, la figlia minore di Suuritnias Calliram, languisse per i begli occhi di cielo di Heran Relda! Poiché, se non era errato affermare che la principessa riponesse speranze nel cavaliere, era scorretta la natura di queste: perché Rouva Albirea era una creatura ambiziosa e come le sue sorelle aspirava al trono di Vernolia delle Mille Acque ma, al contrario di loro, aveva ancora tutte le sue carte da giocare.

S’immerse nella vasca e reclinò il capo all’indietro, fissando il soffitto stuccato: l’ultimo dei suoi fratelli era stato ucciso in una rissa quattro anni prima e le concubine di suo padre erano da tempo  incapaci di generare un nuovo erede. A palazzo si speculava su chi Suuritnias Calliram avrebbe adottato fra i suoi generi: alleanze e rivalità più o meno velate si stavano formando in seno alla famiglia e i cognati più pavidi o meno ambiziosi si rivolgevano verso colui che, secondo loro, avrebbe ricevuto l’onore dell’adozione.

E Albirea sorrise, pensando a come tutti puntassero su dei cavalli perdenti, a come ignorassero in chi suo padre ponesse le proprie speranze: non era così certa da mettere la mano sul fuoco, ma sospettava che la scelta sarebbe ricaduta proprio su Heran Relda. Come spiegare altrimenti l’attaccamento che suo padre aveva per il giovane? Come spiegare il suo interesse, il suo essersi imposto affinché il cavaliere restasse nella Capitale? E quante volte lo aveva lodato, affermando che era il figlio di cui ogni uomo sarebbe stato fiero d’esserne il padre? Tuttavia restavano inspiegati i motivi di tale scelta: a parte l’ascendenza materna e quelle doti che ne facevano un buon soldato, il giovane Relda non aveva nulla di particolare e anche Albirea doveva ammettere che fra i suoi cognati c’era chi sarebbe stato un sovrano migliore di lui. Allontanò quei pensieri con un gesto della mano, come se fossero degli insetti fastidiosi: i motivi di suo padre non le interessavano, quello che contava per lei era realizzare le sue ambizioni.

Uscì dall’acqua e si lasciò avvolgere in un morbido telo, mentre un’altra ancella le strofinò il cuoio capelluto con un unguento dal delicato profumo di fiori. Quindi allargò le braccia e guardando il proprio riflesso nella grande psiche, si lasciò abbigliare. Aveva un fisico snello e non ancora completamente maturo, che le imponeva l’uso di imbottiture sul ventre e sui fianchi, e l’incarnato bianco latte di chi non espone mai la propria pelle al sole; i suoi lineamenti erano ben cesellati nonostante il naso leggermente adunco e un velo di polvere di riso celava le piccole imperfezioni del volto, dalla fronte resa ancora più alta dall’epilazione dell’attaccatura dei capelli. Non era l’epiteto della beltade vernoliana, come Dama Bluma Lamnes lo era stata a suo tempo, tuttavia Albirea si considerava un buon compromesso. Un dito le sfiorò le labbra tumide, posandovi un’idea di rossetto, mentre la serva le abbottonava l’abito color mirto: la giovane trovava che la tonalità non le si addiceva e, pur non essendo il suo preferito, quella gradazione di verde era il colore principale di tutti i suoi abiti, poiché riservato alla regina e alle principesse di sangue ancora nubili – un colore che contava di indossare per tutto il resto della sua vita. Annuì leggermente in approvazione e uscì a passo svelto dai suoi appartamenti.

 

 

 

Col suo seguito di ancelle, Albirea attraversava la galleria di marmo a piccoli passi, talmente rapidi che sembrava scivolare con la grazia e l’eleganza di un cigno circondato da oche: nella sua mente vorticavano ragioni per giustificare la propria presenza negli appartamenti paterni, quando udì qualcuno venire verso di lei e, dopo aver voltato un angolo, si trovò davanti il giovane Relda in compagnia di due responsabili delle scuderie. Heran aveva un’espressione mortificata e si passava rapidamente una mano fra i capelli corti color grano, mentre il più anziano dei due famigli gli parlava con cipiglio e l’altro cercava di trattenere un sorriso: fu questi ad accorgersi per primo della presenza della principessa e attirò l’attenzione dei suoi accompagnatori con un colpo di tosse. I tre uomini si fermarono a circa due leigh da Albirea, chinarono appena il capo e posero la destra sul petto, quindi disegnarono un semicerchio attorno a lei senza voltarle le spalle e attesero un suo gesto: la fanciulla li congedò con uno sfarfallìo di dita e, dopo essersi inchinati nuovamente, si voltarono e ripresero il loro cammino.

«Lo so, Mastro Nerio, la città non è un luogo adatto per una creatura simile,» la voce del cavaliere risuonò fino ad Albirea. «Ma questi sono gli ordini di Sua Eccellentissima Altezza, e fra tre o quattro settimane…»

La principessa riprese a camminare per poi fermarsi a una ventina di spanne: sporse leggermente le labbra, pensierosa, e lanciò un’occhiata nella direzione che avevano preso i tre uomini. Annuì appena come per rispondere a una domanda interiore, quindi si volse e li seguì: i tre uomini si diressero verso la corte esteriore e, se i due famigli si fermarono sotto il portico assieme al resto della servitù, il giovane cavaliere andò con passo sicuro verso il suo drago. Nonostante quello fosse un animale imponente, dal corpo coperto di scaglie chiare che rilucevano come se fossero fatte di metallo, si trattava pur sempre di un esemplare giovane e che non aveva ancora raggiunto la taglia di un adulto: schioccava le fauci a dritta e a manca, frustando l’aria con la lunga coda sottile e sbattendo le ali piumate. Vedendo Heran arrivare, abbassò il capo e allungò il collo emettendo uno strano suono fra un fischio e un ringhio minaccioso, tuttavia il cavaliere continuò ad avvicinarglisi mostrandogli i palmi delle mani e facendo dei click metallici con la lingua. Si fermò solo quando il rettile morse l’aria verso di lui, per poi allargare leggermente le nari per annussarlo e lasciarsi accarezzare il collo: il cavaliere sollevò il capo dell’animale e pose la propria fronte sulla sua, senza smettere di toccarlo e di “parlargli”.

«Dicono che un Cavaliere del Drago non sia libero di prendere la donna che desidera: se questa non piace alla sua montatura, corre il rischio di farsi sbranare. I draghi sono creature gelose, oltre che pericolose» mormorò qualcuno dietro Albirea.

Già, i draghi sono creature pericolose, pensò la principessa mentre guardava con ammirazione il giovane Relda placare la sua montura. Ma non più delle fiere del mio Eccellentissimo Signor Padre. O di certi uomini.

Fra lo stupore generale e sorda alle proteste delle sue ancelle, Albirea uscì da sotto il portico e si diresse verso il cavaliere e il drago: non avrebbe lasciato una bestia interferire con i suoi progetti e se Heran non aveva ancora preso una concubina solo per quella ragione, allora era forse arrivato il momento che il giovane ci pensasse seriamente – e che l’oggetto di tali pensieri fosse proprio lei. Come se avesse subodorato le sue intenzioni non proprio nobili, il drago fissò gli occhi di un azzurro terso su di lei, scoprendo appena i sottili denti appuntiti: Albirea colse subito la minaccia, ma, testarda, continuò ad avvicinarsi e cercò di mantenere lo sguardo sul muso – se avesse incrociato i suoi occhi anche solo per un istante, sapeva che il drago le avrebbe staccato la testa con un solo morso.

«Mia Giovane Signora, devo umilmente invitarVi a non avvicinarVi oltre.»

Heran Relda stringeva nella mano guantata le redini della sua montura, cercando di trattenerla quanto possibile: le parole che aveva utilizzato erano quelle che la differenza di rango gli imponevano e solo le circostanze lo avevano autorizzato a rivolgerle la parola per primo; tuttavia nel tono e nella postura aveva osato un velo di autorità per farle comprendere che era meglio per lei obbedirgli. Fosse stato un altro e le circostanze diverse, Albirea avrebbe già chiamato le guardie di suo padre per punirlo di tanta sfrontatezza. Eppure, adesso che aveva occasione di vederlo sufficientemente da vicino e soprattutto sufficientemente a lungo, forse Albirea comprendeva perché suo padre avrebbe potuto scegliere quel giovane cavaliere come proprio erede: non era imponente, ma possedeva una naturale imponenza che a tempo debito gli avrebbe fatto guadagnare la lealtà dei suoi sottoposti. Era giovane e poco esperto, ma un occhio attento poteva scorgere in lui i semi di quelle doti che si addicono a un uomo maturo e degno di lode: sarebbe diventato un gran condottiero d’eserciti così come il padre era un buon comandante, e forse sarebbe stato anche un sovrano decente capace di far da paciere fra gli Aristocratici, i Sacerdoti e la Gilda dei Mercanti. E ancora una volta si trovò a riflettere sulla bizzarra coincidenza del suo nome, poiché Heran nella lingua comune significava mi ha dato consolazione, ma nella lingua degli Antichi Sovrani suonava più come del mio popolo speranza.

«Chiedo venia, ma è la prima volta che ho l’occasione di ammirare da vicino una ‘sì splendida creatura,» mormorò Albirea come se stesse discutendo del tempo e dardeggiando lo sguardo dal cavaliere al corpo del drago. «Suppongo che, ora che lo avete calmato, ritornerete dal mio Eccellentissimo Signor Padre.»

Ma Heran scosse il capo. «Gli ambienti chiusi non si confanno a un drago: temo che dovrò restare con Mornaü fin tanto che Sua Eccellentissima Altezza necessiterà la presenza di mio padre.»

Le labbra della fanciulla si arricciarono in un sorriso, un po’ innocente e un po’ malizioso al tempo stesso, e fissò lo sguardo sul cavaliere che, con un certo imbarazzo, preferì portare la propria attenzione sul rettile: Heran poteva anche essere un ottimo soldato, ma conservava un candore quasi infantile che soleva inspirare tenerezza nelle donne.

«Ottimo! In questo modo avremo modo di terminare quella nostra famosa partita di scacchi,» rispose Albirea, che senza attendere una risposta battè tre volte le mani.

Con una certa titubanza, dei servitori portarono un tavolino basso, una scacchiera e uno sgabello, mentre un piccolo schiavo tutto tremante fu mandato a reggere il parasole per far ombra alla principessa: anche Heran esitò parecchio prima di disporre i pezzi di alabastro e di nefrite, ma una volta iniziato a giocare la tensione abbandonò i suoi muscoli, quindi prese appoggio puntanto il proprio giavellotto per terra, sollevando l’arma solo per muovere i propri pezzi in modo da poter mantenere la distanza minima di due leigh che la legge imponeva fra popolani e dame d’alto rango. E Albirea poté, per la seconda volta, apprezzare la fine strategia del cavaliere: pur essendo quella un’attività poco consona a una dama sua pari, la giovane amava gli scacchi e avere avversari che – come Heran Relda – riuscissero a stimolare la sua intelligenza.

«Prima vi ho udito affermare che la città non è adatta ai draghi,» disse lei, più per fare della conversazione che per reale interesse.

«Sono esseri che abbisognano molto spazio,» rispose lui accarezzandosi il mento, gli occhi fissi sulla scacchiera, «e in Eimerado non ce n’è sufficientemente nonostante il mio distaccamento sia al di fuori delle mura. Ma presto partirò per Agrirani e…»

«Agrirani?!» esclamò Albirea, basita. «Ma… il mio Eccellentissimo Signor Padre non vi aveva assegnato al distaccamento di stanza nella capitale?»

«Sono sotto gli ordini di mio padre, il quale ha poco fa ricevuto la carica di viceré e l’ordine di debellare definitivamente i ribelli di Agrirani.

«Matto alla regina.»

La fanciulla storse le labbra, guardando la propria regina essere tolta dalla scacchiera: la partenza del giovane Relda per Agrirani significava almeno un inverno di lontananza – un inverno in cui avrebbe potuto accadere tutto e il contrario di tutto, un inverno che lei aveva progettato di usare per saggiare le intenzioni paterne e per assicurarsi le speranze del giovane. Strinse la stoffa del proprio abito con le mani, grata del fatto che il cavaliere pensasse che quella reazione fosse semplicemente dovuta alla svolta della partita: per un attimo ebbe l’impressione d’intravedere sul suo volto l’ombra di un sorriso, ma l’istante successivo Heran si era irrigidito e aveva fatto un saluto militare.

Sua Eccellentissima Altezza, Suuritnias Calliram avanzava verso di loro tallonato dal suo braccio destro, rivolgendo un cipiglio severo a sua figlia: questa s’alzò dallo sgabello e fece un profondo inchino, quindi rimase lì in attesa, le mani nelle mani e ritta come un fuso. L’Erede al Trono discorse per un po’ col giovane Relda, ignorando Albirea, e solo dopo aver congedato i suoi sottoposti e questi furono partiti, pose lo sguardo di ghiaccio su di lei: era imponente e ingrassato, ben poco rimaneva dell’attraente ventenne il cui ritratto troneggiava sulla scalinata del palazzo.

«Avete la faccia di una fanciulla sorpresa nell’indulgere nelle proprie speranze.» La sua voce, poco più di un sibilo, era tagliente come la lama di un pugnale.

«Dite, Signor Padre?» rispose con aria costernata e ingenua. «Io direi piuttosto che ho la faccia di qualcuno che ha appena perso il suo pezzo più importante: adesso dovrò escogitare una strategia per riscattare la regina…»

Suuritnias Calliram non rispose, non subito: guardò sua figlia a lungo con gli occhi stretti a due fessure, quindi si chinò sul tavolino e prese un pezzo dalla scacchiera. «Ignoro quali siano i vostri pensieri, ma vorrei rimembrarvi due cose. La prima, Heran Relda non è per voi, e la seconda…» Pose la figurina di pietra nel palmo della sua mano, chiundendo le dita sottili della figlia su di essa. «… non dimenticate qual è il vostro posto.

«E adesso seguitemi, ho degli annunci da fare.»

Albirea strinse le labbra, i suoi begl’occhi di giada seguirono suo padre attraversare il cortile e rientrare nel palazzo, quindi li abbassò sulla propria mano e ne schiuse le dita: un semplice pedone. In un moto di rabbia, la fanciulla lanciò il pezzo contro un muro, mandandolo in mille pezzi: sulla scacchiera della vita, lei non era una comune pedina come lo erano state le sue sorelle, ma la regina della propria fazione ed era decisa a mettere tutto in atto affinché questo ruolo le fosse riconosciuto.

 

Poco più tardi, ritrovò suo padre in una delle tante sale del palazzo, circondato dalla sua sposa e dalle quattro concubine ancora in vita e le loro ancelle: la accolse con uno sguardo gelido, senza smettere di accarezzare il levriero che aveva posto il capo sulle sue ginocchia.

«Signore, ho un annuncio e una richiesta da farvi: il primo, ho deciso di prendere come nuova concubina Harilika Relda. Conto su di voi affinché la aiutate a trovare il proprio posto fra di noi.»

Le cinque donne ebbero una reazione simile, le variazioni dovute più alla capacità di ognuna di celare le proprie emozioni, mentre Albirea non poté far altro che sentirsi come se le avessero gettato una secchiata d’acqua gelida: Harilika, la sorella minore di Heran, doveva avere dodici, tredici anni al massimo! La giovane cercò di nascondere un moto di disgusto nei confronti del padre, che fra tante fanciulle d’alto rango aveva scelto una popolana, una bambina più giovane di lei per tentare di generare un nuovo erede.

«Ma… non è neanche matura…» Le parole furono pronunciate prima che Albirea potesse fermarle e premette la mano contro le labbra un po’ troppo tardi, guadagnando nuovamente degli sguardi carichi di rimprovero.

«Non ho detto che giacerò con lei fin da questa sera,» rispose Suuritnias Calliram, «ma solo che desidero rettificare un mio desiderio prima che lei parta per Agrirani assieme al resto della sua famiglia: Harilika entrerà a palazzo de facto al suo ritorno, la prossima estate, e conto che per allora sia capace di concepire.»

Albirea strinse le labbra e guardò di sottecchi le concubine di suo padre: poteva immaginare quello che stessero pensando in quel momento, ma nessuna osava dar voce alle proprie riflessioni. Negli ultimi vent’anni, dall’annessione del regno di Agrirani, non solo tutti i figli di Suuritnias Calliram erano deceduti, ma la sua sposa e le sue concubine non generavano che figlie femmine oppure partorivano maschi nati morti, e questo se riuscivano a portare a termine la gravidanza. Inoltre questa decisione di suo padre minava profondamente le speranze della giovane di ascendere al trono: se Harilika Relda avesse dato a Suuritnias Calliram il figlio che tanto bramava, egli non avrebbe più avuto bisogno di adottare nessuno.

«Signor Padre, desiderate forse riempirvi il palazzo di marmocchi?» sibilò infine Albirea.

«Se questo è ciò che desidera e comanda il mio Eccellentissimo Sposo, che ben venga,» rispose, fredda, Souritia Àntere. «Noi tutte siamo ormai incapaci di donare alla Sua Eccellentissima Altezza un erede: è molto più facile per una fanciulla concepire e portare a buon termine una gravidanza che per una donna ormai sfiorita. Inoltre è dal decesso di vostra madre che noi tutte ci chiedevamo quando sarebbe stata sostituita.»

Il tocco di rivalsa nella voce di Souritia Àntere non passò inosservato, Albirea non poté far altro che stringere le labbra e abbassare il capo: dopo tutti quegli anni si era convinta che nessun’altra donna avrebbe potuto prendere il posto di sua madre nella vita di suo padre, ma si sbagliava. La cosa che la infastidiva, oltre alla sua giovane età, era l’ascendenza di Harilika: una malalingua avrebbe potuto insinuare che, non avendo potuto avere la madre, Suuritnias Calliram si stesse semplicemente riservando la figlia.

«In ogni caso, desidero che la cosa sia ufficializzata fra due settimane,» riprese l’uomo come se lo scambio di battute fra sua moglie e sua figlia non fosse mai avvenuto. «Quindi, signore, desidero che organizziate la cerimonia con particolare sfarzo: infatti, nella medesima occasione cederò la mano di Rouva Albirea al terzo figlio di Banma Eolo, Governatore di Porto Kedda.»

A quelle parole, Albirea si sentì il mondo crollarle addosso: quella era la prima volta che suo padre toccava quell’argomento e, nonostante i pretendenti alla sua mano non mancassero, mai Suuritnias Calliram aveva manifestato una preferenza per l’uno o per l’altro. E poi mandarla proprio a Porto Kedda, nelle Isole di Ponente, significava forse che voleva isolarla una volta per tutte dalla capitale e dalla corte? Si scosse dal suo stupore appena in tempo per rendersi conto che alcune concubine e il loro seguito stavano lasciando la sala e che anche suo padre s’era già avviato verso la porta: con un moto di rabbia e disperazione, Albirea batté tre volte le mani, attirando l’attenzione dei presenti più tre guardie che erano all’esterno, quindi fissò i propri occhi di giada in quelli di ghiaccio di suo padre.

«Alla presenza di questi testimoni, faccio appello a Sua Eccellentissima Maestà Denev, diciassettesimo del nome, per riservare la mia mano!»

Era una mossa azzardata, quella, perché anche se la legge permetteva a una fanciulla di opporsi a un’unione che non le aggradava, ben poche facevano appello al re e ancor meno vedevano la propria causa appoggiata.

 

 

 

La notizia dell’opposizione di Rouva Albirea all’unione auspicata da suo padre fu sulla bocca di tutti in meno di un giorno: se molti si chiedevano le ragioni di una tale sfida – Bamni Leusio era giovane e avvenente, portato più alle attività letterarie che alla spada – pochi dubitavano quale sarebbe stato il giudizio reale.

Fu con una certa sicurezza che Suuritnias Calliram si presentò dinanzi a re Denev XVII e fece la sua arringa: per il bene del regno era importante riaffermare il protettorato che Vernolia aveva sulle Isole di Ponente, un punto strategico che avrebbe permesso alla flotta della Gilda dei Mercanti di lanciarsi verso le terre d’oltremare e, chissà, magari riuscire a trovare una via per Dwerissi alternativa ad Agrirani. Un mormorio d’approvazione si era levato nella sala del trono e una serie di sguardi derisori e crudeli si erano posati su Rouva Albirea: dopo che il sovrano le ebbe fatto un cenno, s’inchinò profondamente e senza rizzare il busto, avanzò di quattro passi.

«Le mie ragioni sono solo per le orecchie delle Vostra Eccellentissima Maestà,» disse quando le fu chiesto che cosa l’avesse spinta a ribellarsi al volere paterno.

Re Denev innarcò un sopracciglio e scambiò un’occhiata con la propria sposa e col Gran Sacerdote. «E sia. Ma ricordate una cosa, Rouva Albirea: la nostra risposta sarà negativa se i vostri motivi sono limitati al semplice fatto che le vostre speranze sono altrove.»

La fanciulla rispose con un inchino ancor più profondo e si rizzò: davanti a lei si ergevano i sette scalini che portavano al trono e mai come in quel momento si rese conto di quanto fossero veritiere le parole del fondatore della dinastia.

Il cammino che mena al trono è come un periglioso sentiero d’alta montagna: solo gli ambiziosi e gli audaci osano percorrerlo.

Quei sette gradini erano come il fianco di una montagna che lei doveva scalare se voleva raggiungerne la vetta: lei era ambiziosa e aveva coraggio, ma al tempo stesso non poteva permettersi di fare un passo falso. Lentamente, sollevò gli orli delle gonne e avanzò verso il sovrano, ripetendosi per l’ennesima volta le parole che gli avrebbe detto e sperando di non dover dire più di quello di cui era certa. Si fermò sul penultimo gradino e s’inchinò nuovamente, lo sguardo basso e la bocca improvvisamente secca.

«P-posso rivolgermi ai genitori di mio padre?» mormorò, con tono incerto e di confidenza, prima di coprire la distanza che la separava dai suoi nonni e inginocchiarsi ai loro piedi, poggiando le braccia sul grembo della regina.

«Ti ascolto, bambina.»

Albirea alzò gli occhi di giada sul volto di suo nonno ed esitò, spostandoli rapidamente sul vecchio sacerdote che aveva proteso la testa verso di lei come una tartaruga: poteva fidarsi di lui?

«Non è errato affermare che la mia disobbedienza sia dovuta alle mie speranze, tuttavia… tuttavia queste non sono della natura di cui comunemente ci si aspetterebbe,» disse infine, con il tono più docile cui fosse capace.

I tre anziani si scambiarono un’occhiata, prima che la regina mormorasse: «Spiegati, Albirea.»

La fanciulla prese un respiro profondo, chiuse gli occhi e strinse le labbra. «Sappiamo tutti come il mio Eccellentissimo Signor Padre abbia perso uno a uno i suoi figli maschi e, nonostante abbia deciso di prendere una nuova concubina, chi ci assicura che questa sarà capace di dargli l’erede che agognamo? Presto, dovrà scegliere qualcuno da adottare e non dice la nostra legge che solo in tali circostanze un fratello può prendere la propria sorella in sposa?»

«Esatto, ma i costumi consigliano di adottare un genero, soprattutto se questi ha già un figlio maschio,» rispose il Gran Sacerdote.

«Tuttavia, come la sposa e le concubine del mio Eccellentissimo Signor Padre, nessuna delle mie sorelle è riuscita finora ad avere un figlio,» ribatté Albirea, poi aggiunse con il tono della confidenza: «Inoltre, sospetto su dove confluiscano le speranze di Suuritnias Calliram.»

Di nuovo un lungo silenzio.

«Sarebbe?»

Albirea strinse le labbra e volse il capo indietro: tutti credettero che in quel momento stesse guardando suo padre, ma i suoi occhi si posarono più lontano, sul capo biondo del giovane Heran Relda. «Non desidero far nomi prima del mio Eccellentissimo Signor Padre, ma non è né uno dei miei cognati né Bamni Leusio: è qualcuno che non ha né spose né concubine, per questo motivo in cuor mio ho preso la decisione di riservarmi a lui. È innegabile che potrei sfiorire prima che il mio Eccellentissimo Signor Padre ufficializzi la sua decisione, ma è un rischio che non temo di correre se significa…» se significa salire al trono «se significa sincerarmi della continuità del nostro casato.»

Non aveva completamente mentito e il tono che aveva usato la faceva suonare più come una vergine votata al sacrificio che una fanciulla agognante le nozze: esattamente l’impressione che Albirea voleva dare. Attese in silenzio mentre i tre anziani riflettevano ognuno per proprio conto.

«V’è del buon senso nelle sue parole,» disse infine il Gran Sacerdote con voce pacata, ma abbastanza forte da essere udita nella sala del trono.

Un mormorio di stupore si levò fra i presenti, ma la più stupita di tutti era proprio Albirea: mai avrebbe immaginato di farsi un alleato tanto potente quanto il Gran Sacerdote, e se aveva il suo sostegno allora poteva azzardare che la sua scalata al trono avrebbe potuto essere meno difficile di quanto avesse temuto. Tuttavia, re Denev non rispose, non subito.

«Le sue parole non mancano di buon senso, certo, ma anche quelle di Suuritnias Calliram non sono da meno…» Esitò un momento, come a cercare il modo migliore per formulare il suo pensiero. «E sia, accogliamo la richiesta di Rouva Albirea e riserviamo la sua mano: tuttavia, consideremo valide le sue motivazioni per tre anni, scaduti i quali, se ancora nubile, dovrà accettare il compagno che noi sceglieremo per lei.»

Albirea non sapeva se essere felice o meno del giudizio, perché se da un lato le faceva guadagnare tre anni – e in quell’arco di tempo poteva accadere tutto e il contrario di tutto – dall’altro la metteva sotto la tutela diretta di suo nonno: sarebbe stata costretta a trasferirsi nel palazzo reale e, di conseguenza, le occassioni che avrebbe avuto per riservarsi le speranze del giovane Relda sarebbero diventate ancor più rare. Fece buon viso, poiché la situazione s’era comunque volta a suo vantaggio: scese i sette gradini camminando all’indietro, aiutata da un’ancella che le sorreggeva le gonne affinché non inciampasse, quindi fece un ultimo, profondo inchino e tornò al posto che le spettava nella sala del trono. Quando gli passò accanto, Albirea incrociò lo sguardo di suo padre: dire che Suuritnias Calliram fosse furioso era poco – sua figlia lo aveva appena pubblicamente umiliato davanti a tutta la corte. Questi alzò la mano per schiaffeggiarla e lei sollevò un braccio per proteggersi il volto.

«La fanciulla è sotto la nostra tutela, Calliram!» tuonò la voce del re.

Forse non era una prospettiva tanto malvagia, quella di trasferirsi a corte.

 

 

Sorrise quando la nebbia si alzò, mostrando la cima della montagna ormai vicina: ancora un leigh o due e avrebbe ottenuto quello che più desiderava. Strinse con le mani nude la roccia, la tastò coi piedi per trovare un appiglio sicuro e riprese la scalata: le braccia e le mani le dolevano, ma con uno sforzo che le parve inumano riuscì a issarsi sulla piccola piattaforma. C’era riuscita! Respirando affannosamente, guardò trionfante il seggio di pietra davanti a lei che si stagliava contro un cielo sgombro da nubi e di un azzurro talmente intenso da sembrare finto: riprese per un po’ fiato e coprì quei pochi passi che la separavano dal seggio.

Stava allungando la mano verso di esso quando un’ombra – un uccello? Un drago? – le oscurò il sole per un istante come un cattivo presagio: un attimo prima che le sue dita potessero sfiorare la pietra, qualcosa – qualcuno – l’afferrò per i capelli, strattonandola per scaraventarla giù dalla montagna. Inarcando la schiena all’indietro, il suo sguardo di giada si pose sull’essere, un po’ uccello dal piumaggio di fiamme scure, un po’ drago e un po’ donna dalle iridi viola che facevano pensare agli occhi di un neonato: non fece in tempo a dare un nome alla creatura che già precipitava nel vuoto…

 

Albirea deglutì, cercando di controllare il suo respiro affannoso: ancora quel sogno, ancora quel triste presagio, ma questa volta almeno era riuscita a vedere chi o cosa la stava – o l’avrebbe contrastata. Pose le mani sul viso imperlato di sudore e chiuse gli occhi, cercando di ricordare ogni dettaglio che avrebbe potuto rivelarle l’identità della creatura o chi essa rappresentasse. Fiamme scure, una forma indefinita, occhi da neonato…

Aspirò l’aria con forza, coprendosi la bocca con le mani e sgranando gli occhi all’inverosimile: una Innominabile. Senza ombra di dubbio, quello era un brutto… no, un pessimo presagio! Si versò un bicchiere d’acqua da sola perché non aveva alcuna voglia di avere delle ancelle intorno, e lo bevve tutto d’un fiato: bevve di nuovo, questa volta a sorsi lenti come se volesse purificare la sua mente da quei brutti pensieri. Sospirò, maledicendo l’afa delle estati di Vernolia e le imposte dei suoi appartamenti che impedivano alla brezza notturna di portarle un po’ di refrigerio. Indossò alla bell’e meglio una lunga camicia di seta bianca e infilò il primo dei suoi abiti che le capitò fra le mani: senza far rumore – era scalza uscì dalla sua stanza alla ricerca di un po’ di sollievo.

Mentre attraversava i bui corridoi, rifletteva su quale fosse la miglior condotta: se davvero c’era un rischio che un’Innominabile potesse contrastare i suoi piani, forse era meglio chiedere consiglio al Gran Sacerdote stesso, anche solo per avere un’interpretazione più corretta di quel sogno – nonostante fosse una principessa di sangue, restava una fanciulla comune priva del Dono. E chissà, forse sarebbe stato anche capace di consigliarla sul miglior modo d’agire…

Si fermò di colpo, intravedendo una figura uscire dalla sala dei banchetti e attraversare la corte interna, diretta forse al molo privato o alla torretta del palazzo che dominava quel quartiere di Eimerado. La festa che Suuritnias Calliram aveva organizzato per la nomina a viceré di Hraustrion Relda doveva essere al culmine e gli invitati dovevano essere già ebbri di vino e della compagnia delle donne di piacere – perfino per una concubina non era convenevole essere fuori dal proprio letto a quell’ora della notte per cui non c’era da stupirsi se qualcuno desiderasse prendere una boccata d’aria fresca. Le labbra di Albirea si arricciarono in un sorriso felino riconoscendo l’invitato, tuttavia esitò a lungo prima di agire, presa com’era a riflettere sui pro e i contro di ogni parola che avrebbe detto, d’ogni azione che avrebbe fatto.

 

Una brezza leggera e profumata di iodio soffiava sulla cima della torretta e donava un po’ di sollievo alla calura che regnava fra le mura del palazzo di Suuritnias Calliram: Heran Relda respirava l’aria a pieni polmoni, il capo leggermente reclinato all’indietro e gli occhi socchiusi su un cielo trapunto di stelle in cui si rincorrevano le tre Perle di Elanne. I suoi muscoli si tesero all’improvviso e la destra scattò sull’elsa della spada: nonostante la mente leggermente annebbiata dal vino, riconobbe la figura di Rouva Albirea prima che il danno potesse essere fatto. La giovane principessa lo fissava con gli occhi sgranati trattenendo il respiro e solo quando lo vide allontanare la mano dalla spada, poté rilassarsi: avanzò anche lei verso le merlature che ornavano la cima della torretta e osservò silenziosamente la città che si stendeva sotto di loro con il suo labirinto di strade e di canali e che si allungava sul mare con i suoi due moli, su cui la luce dei fari brillava come a voler sfidare la notte. Albirea fece qualche passo verso di lui, fingendo di non accorgersi d’essere a meno di due leigh da lui: gli lanciava rapide occhiate, ringraziando la notte che celava in parte il suo volto. Sapeva perfettamente i rischi che stava correndo: se per sventura fossero stati sopresi, lei avrebbe perso la reputazione e lui la testa. Letteralmente.

«Dovreste essere a letto, mia Giovane Signora.» La voce di Heran era insolitamente roca, appena impastata e priva di quel timbro pulito che la caratterizzava.

«Fa caldo e non riesco a dormire,» si giustificò lei conscia che, per quanto banale fosse quell’affermazione, era pur sempre una parte della verità.

Lo sentì respirare rumorosamente e armeggiare nervosamente con la spada. «Sua Eccellentissima Altezza, Suuritnias Calliram, ha dato fondo alle sue cantine per il banchetto di questa sera: potreste trovarvi in una situazione disdicevole se incappaste in un ospite ubriaco.»

«Suppongo, dunque, che anche voi siate ubriaco, Heran Relda.» Volse infine la testa verso di lui, fissandolo dritto negli occhi.

Il giovane cavaliere sostenne il suo sguardo – fosse stato sobrio, molto probabilmente non avrebbe osato farlo. «Non fino al punto da dimenticare qual è il mio posto e cosa sia convenevole, mia Giovane Signora.»

«Albirea,» mormorò lei con fermezza, facendo qualche altro passo verso di lui. «Desidero… no, vi ordino di chiamarmi per nome stasera.»

Lo vide deglutire come se si fosse improvvisamente reso conto della situazione in cui si era cacciato: Heran indietreggiò, cercando di ristabilire la distanza che la legge gli imponeva, ma presto si trovò con le spalle contro il parapetto. Era palesamente a disagio e Albirea rise leggermente immaginando quali potessero essere i pensieri che in quel momento si agitavano nella sua mente non proprio lucida.

«Sono la figlia del vostro signore e una principessa di sangue: ho il diritto di darvi ordini e voi… tu hai il dovere d’obbedirmi, anche se ti dicessi di buttarti giù da questa torre.»

«Preferirei quel tipo di ordine a quello che mi ha dato, Rouva Albirea,» rispose lui enfatizzando il titolo. «E mi vedo costretto a invitarVi caldamente a indietreggiare.»

«Infatti dovrei, ma non voglio,» ammise senza spostare i suoi occhi di giada dal volto di lui, colmando la distanza che li separava: deglutì mentre posava una mano appena tremante sul suo farsetto di cuoio. «Non voglio perché domani io mi trasferirò al palazzo reale e perché fra dieci giorni tu partirai per Agrirani: non è questa un’occasione insperata per indulgere nelle nostre speranze?»

«Mia Giovane Sig-»

Lo zittì premendo un indice sulle sue labbra. «Al-bi-re-a,» sibilò piano mentre s’allungava su di lui, dandosi mentalmente della stupida per non aver calzato dei sandali, perché lui era ben più alto di lei e la constringeva a prendere appiglio sulle sue spalle: non che la cosa le dispiacesse, anche se un contatto così intimo non lo avesse preventivato, tuttavia rafforzava l’impressione che voleva dare a Heran in quel momento – l’impressione di una fanciulla talmente innamorata da dimenticare cosa fosse convenevole.

Un moto di paura e trionfo le torse le viscere nel basso ventre: paura, perché quello che stava facendo era estremamente pericoloso – per la sua reputazione e anche per la sua stessa vita, poiché i draghi erano creature gelose – e trionfo, perché stava gettando semi nel cuore di Heran Relda che sperava sarebbero germogliati durante la loro lontananza. Albirea godette nel vedere l’espressione di Heran quando gli sfiorò l’angolo della bocca con le proprie labbra e lo fissò attraverso le ciglia.

«Di’, cavaliere, non hai caldo con questo farsetto addosso?»

 

Il cammino che mena al trono è come un periglioso sentiero d’alta montagna: solo gli ambiziosi e gli audaci osano percorrerlo.


 

Note:
Leigh: unità di misura vernoliana, corrispondente a 121,92 cm.
Cavalieri del Drago d’Argento: il più prestigioso ordine cavalleresco vernoliano. L’esiguo numero dei suoi membri è dovuto all’alto tasso di mortalità fra i cadetti: per entrare a far parte a tutti gli effetti nell’ordine, infatti, bisogna riuscire a catturare e domare un drago silverino, creatura nota per la sua pericolosità.
Suuritnias (SYOUri’gna – la t è appena accennata e con un suono leggermente aspirato): Principe Ereditario di Vernolia.
Rouva (ru’ßa – la ß ha un suono fra la v e la b): titolo onorifico vernoliano riservato alle principesse di sangue.
Speranza: Oltre al significato comune, l'espressione "avere speranze in qualcuno" riferita ad una persona di sesso opposto, è un modo per esprimere il proprio interesse romantico (ovvero "sperare di stare insieme ufficialmente" o "sperare di sposarlo/a" ). Nello stesso contesto, "indulgere nelle proprie speranze" indica una relazione non proprio platonica e al di fuori della legalità (i.e. relazioni prematrimoniali e/o extraconiugali, soprattutto per una donna) .
Quando invece l’espressione è usata da un uomo di una certa età nei confronti di uno più giovane, indica un’intenzione di adozione (“speranza nel futuro”).
Meno comune è l'uso come sinonimo di "ambizione", ma sempre corretto.
Adozione: secondo la legge vernoliana, un uomo senza figli maschi può adottare un erede che sposerà o ha già sposato una sorella adottiva: questa seconda opzione è quella più comune, soprattutto se già c’è un nipote.
Nefrite: pietra semipreziosa di colore verde scuro, spesso confusa con la giadeite, di cui è comunemente considerata una varietà.
Giavellotto: arma in dotazione dei Cavalieri del Drago d’Argento i quali, data la natura delle loro monture, usano per lo più armi a lunga portata –la spada è utlizzata solo nel caso in cui siano disarcionati e costretti ad uno scontro corpo a corpo.
Eimerado: città marittima costruita sulla foce del fiume Taiva, re Denev I vi trasferì la capitale di Vernolia durante il suo settimo anno di regno.
Regina (o donna) (scacchi): il pezzo più potente degli scacchi, data la sua ampiezza di movimento.
Riscatto (promozione) (scacchi): un pedone può essere promosso a regina (ma anche in un altro pezzo, se il giocatore ne ha la necessità) nel caso in cui raggiunga la fila 1 o 8 della scacchiera. Dato che Albirea ha appena perso la sua donna, usa il termine “riscatto” anche se incorretto.
Concubina: in Vernolia vige la poligamia fra le classi abbienti. Nello specifico, il Principe Ereditario ha diritto a sei concubine ed a una sposa (solitamente la prima che gli partorisce un figlio maschio) : il loro numero totale può salire fino a quindici una volta che questi è incoronato re. Al momento in cui hanno luogo queste vicende, due concubine di Suuritnias Calliram sono decedute, dandogli la possibilità di prenderne altre.
Souritia (SYOUri’ja): titolo onorifico riservato alla moglie del Principe Ereditario.
Banma & Banmi (ban-na & ban-ni): titoli nobiliari vernoliani, il secondo riferito al figlio del primo.
Innominabile: sorta di creature di natura femminile, per la religione di Vernolia le Noïde sono esseri demoniaci, tanto che anche solo pronunciare il loro nome è considerato di cattivo auspicio. Non hanno un aspetto preciso, ma sono in grado di assumere la forma di qualsiasi altro essere vivente: uno dei dettagli che permette di riconoscerle quando hanno aspetto umano, sono gli occhi, le cui iridi hanno la stessa proporzione che in un neonato.
Dono: capacità di controllare gli elementi, prevedere il futuro, invocare creature ultraterrene, eccetera. Essendo queste capacità non viste molto di buon occhio a Vernolia, solitamente coloro che ne possiedono sono “caldamente invitati” a prendere gli ordini religiosi, in quanto è opinione comune che solo in questo modo sia possibile usare il dono in maniera proficua a tutta la comunità. Ovviamente, ci possono essere delle eccezioni.


Questa storia partecipa al contest "Fantasy I Love U" indetto da fravgolina e al constest "One-shot Panic!" indetto da Rain Hew.

Prima classificata al contest

Vincitrice del premio "Miglior Personaggio Originale" al contest "Voglie estive di gustose letture" di Aturiel.

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