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Autore: MartixHedgehog    30/06/2013    2 recensioni
In questa storia Sonic è un giovane riccio di dodici anni che corre per cercare libertà e solitudine: libertà da un mondo crudele e opprimente in cui regna la legge del più forte; solitudine da uno zio un po' strampalato e soprattutto da dei coetanei che lo maltrattano e con cui non è mai entrato in sintonia. Ma la sua vita cambia quando nella valle dove abita arriva un altro riccio che potrebbe essere suo fratello da tanto gli somiglia, con quel pelo turchese e i suoi luminosi occhi azzurri... che però, a differenza sua, è costretto su una sedia a rotelle. Un riccio che non può correre, che non potrà mai assaporare quel vento di libertà che tanto gli piace inseguire. Un riccio così diverso da lui che non potranno mai intendersi, pensa Sonic. E invece ben presto tra i due nasce qualcosa: un'amicizia profonda, che saprà insegnargli che esistono tanti modi di correre, e che anche chi non ci riesce può imparare a sognare, a vivere, a trovare la felicità.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Sonic the Hedgehog
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 2
In cui il passato ritorna a essere presente


Quando fu davanti alla soglia di casa, premette distrattamente il pulsante a lato della porta, e ottenne in risposta il suono di quello che un tempo doveva essere un campanello (ma che adesso assomigliava piuttosto a un raccapricciante GREEEEEK!, che gli ricordava il verso di una cornacchia col mal di gola).
Gli venne ad aprire uno zio Chuck con  un’aria alquanto perplessa: «Ma tu che ci fai qui? Non dovresti uscire alle quattro?», gli domandò alzando un sopracciglio.

Sonic sbuffò rassegnato: tutti gli anni accadeva la stessa, identica storia.

«Zio, guarda che non faccio più il tempo pieno dalle elementari», sospirò ormai arreso al suo destino. Era già un anno scolastico che usciva all’una invece che alle quattro… ma allora come mai lo zio continuava a dimenticarsene? Era uno sforzo così impossibile?
Chuck si tirò una manata sulla fronte.

«Per mille aculei acuminati, nipote! Hai ragione, me n’ero completamente scordato! Entra pure, ti preparo subito da mangiare...»

Sonic entrò mentre lo zio spariva in cucina e poggiò lo zaino su una sedia, dopodiché si sedette sul divano nella stanza adiacente al corridoio d’ingresso. Provò ad accendere quell’ammasso di viti e di bulloni arrugginiti che era la vecchia – un modo carino per dire “che sembrava risalire al tardo giurassico” – televisione di suo zio: si vedeva in bianco e nero, naturalmente, e l’immagine era disturbata da fastidiose linee diagonali (ma ormai il giovane porcospino aveva rinunciato a chiedere allo zio di ripararla: se ne sarebbe dimenticato nel giro di un nanosecondo)... La spense dopo pochi minuti: niente di interessante, come al solito.

La voce dello zio Chuck arrivò dalla cucina: «Come è andato il primo giorno, figliolo?»

«Eh?», rispose istintivamente Sonic, riprendendosi all’improvviso dai suoi sempre più frequenti attimi di “trance”.

«Cosa avete fatto di bello?», ripeté Chuck. Una testa baffuta color blu scuro sbiadito fece capolino dalla stanza vicina.

«Hmm, niente...», bofonchiò Sonic. Solita schietta, deludente risposta tipica di chi sprizza gioia da tutti i pori al pensiero di andare a scuola.

«Niente? Ma davvero? Chissà quando l’ho già sentito, questo ritornello?» Lo zio Chuck ridacchiò al vedere il viso imbronciato del nipote.
«Dimmi almeno cos’hai fatto di brutto!», insisté.

 «Niente.»
Inutile sforzarsi di pensare a qualcosa di diverso, tanto a malapena sapeva cosa aveva fatto.

«E di “così così”?»

«Niente!»

Ora però si stava innervosendo: vi voleva tanto a capire che non aveva voglia di parlarne?

Chuck ridacchiò ancora: «Sei proprio incorreggibile, nipote! Ma la sai una cosa? Nemmeno tuo padre aveva mai voglia di andare a scuola... ero io l’unico studioso della famiglia!»

La cosa avrebbe dovuto fargli piacere, e invece proprio non riuscì a sorridere. Come al solito sentir nominare la parola “padre” gli faceva uno strano effetto: si sentiva serrare il cuore in una morsa di malinconia e gli veniva d’improvviso una gran voglia di piangere. Ormai era passato tanto tempo, più di otto anni, ma ancora non riusciva a dimenticare quella notte... quella maledetta notte in cui Jules e Bernie Hedgehog se n’erano andati per sempre, abbandonando al suo destino un cucciolo di neanche quattro anni.
Ne era passato, di tempo, ma il dolore non sembrava essersi attenuato neanche un po’. E il fatto che lo zio non potesse fare a meno di nominare il suo defunto fratello – non certo per cattiveria, ma solo per far sì che il ricordo restasse vivo dentro di lui e non morisse – non lo aiutava. Avrebbe tanto voluto metterci una pietra sopra, dimenticare se possibile e andare avanti, ma non ci riusciva: sapeva che rammaricandosi non li avrebbe mai fatti ritornare indietro, ma non poteva fare a meno di sentirsi a pezzi, sapendo che era un sacco di tempo che non poteva più pronunciare le parole “mamma” e “papà” come tutti gli altri bambini.

“Zio”, purtroppo, non era la stessa cosa: naturalmente era stata una fortuna che, quando si era trovato all’improvviso senza genitori, il fratello maggiore di suo padre si fosse fatto avanti per prendersi cura di lui, o sarebbe di sicuro finito in un orfanotrofio e adottato da chissà chi. Almeno Chuck aveva sempre fatto parte della loro famiglia, anche se aveva vissuto in un paese vicino… ma, ahimè, non si era rivelato il massimo come padre adottivo: era troppo distratto, troppo con la testa perennemente immersa nei pensieri più bizzarri, troppo legato alle vecchie abitudini “dei suoi tempi”. C’erano delle occasioni in cui si dimostrava davvero gentile e premuroso nei suoi confronti, ma non accadevano spesso.
Certe volte, vedendolo perso in un bicchier d’acqua, si chiedeva se non fosse piuttosto lui a dover tenere d’occhio suo zio, invece del contrario, come una sorta di scambio di favori: Chuck lo nutriva e lo cresceva, ma se non ci fosse stato lui a ricordargli di andare a fare la spesa, di lavare le montagne di biancheria sporca, di annaffiare il giardino, di chiamare l’idraulico perché il lavandino perdeva o di pagare per tempo la bolletta della luce, probabilmente suo zio non avrebbe resistito da solo per una settimana.

A volte si domandava come caspita avesse fatto a sopravvivere tra i venti e i quarant’anni, dopo essersene andato di casa e prima che arrivasse lui: nessuna donna aveva ceduto al suo fascino (sempre che ci avesse provato almeno con una), perciò tutto quel tempo l’aveva trascorso da solo nella sua casetta cadente... ma come, se era a malapena in grado di badare a se stesso? Sonic non aveva mai indagato a fondo, ma sapeva che con lo zio Chuck si poteva essere sicuri che anche le cose più incredibili sarebbero potute accadere. Persino avere la possibilità di mangiare un piatto di pasta cotto a puntino, dopo un numero imprecisato di tentativi falliti.

«Vieni pure, giovanotto: è pronto in tavola tutto per te!», annunciò in quel momento la voce dello zio, distogliendolo dai suoi pensieri. Si alzò dal divano e raggiunse la cucina, dove prese una sedia e si sedette accanto al tavolo. Chuck gli fece comparire davanti un piatto con un gesto da prestigiatore: «Ecco qua, le migliori pennette della città!», recitò esaltato, strappandogli un sorriso.
Prese la forchetta e ne infilzò un paio, portandosele alla bocca.

«Ehm... forse potrebbero essere un po’ troppo cotte...», mormorò allora Chuck, grattandosi il mento imbarazzato. In effetti, un minuto di cottura in meno non sarebbe stato male, ma nel complesso erano più che accettabili.

«Stai imparando, zio! Ci sei quasi!», squittì sforzandosi di apparire convincente.

«Tu dici?», borbottò lo zio di rimando, poco convinto. «Il problema è che sulla scatola dice che bastano 8 minuti, ma quando suona il timer mi sembrano ancora un po’ dure, e allora le lascio sul fuoco per un attimo ancora... però quando le assaggio di nuovo è già troppo tardi, perbaccolina! Lo fanno apposta per farmi arrabbiare... credimi, io lo so!»

Sonic ridacchiò sotto i baffi: «Vedrai che prima o poi ce la farai.»

«Caspita, se lo dice il mio nipote preferito, allora bisogna crederci!», esclamò Chuck, incurante del fatto che fosse almeno la trentesima volta che quella tiritera si ripeteva pressoché invariata.

«Zio, guarda che io sono il tuo unico nipote...», mormorò Sonic interdetto.

«L’unico e inimitabile, appunto!», sorrise Chuck, solleticando gli la testa. Anche Sonic sorrise: in cinquantadue anni non era riuscito a imparare come cuocere un piatto di pennette, ma quando si trattava di restituire il buon umore a chi gli stava vicino non lo batteva nessuno.

«Oh, vedo che sei ancora capace di sorridere al tuo zietto!», continuò Chuck. «Adesso che sei più trattabile, non c’è proprio niente di niente da raccontarmi sul primo giorno di scuola?»
Sonic ci pensò su un attimo prima di rispondere, mentre continuava a mangiare la pasta.

«Be’, forse una cosa c’è...», concesse.

«Haha, lo sapevo!», esultò Chuck. «Di che si tratta?»

«Abbiamo un nuovo compagno», disse, senza dare un tono particolare alla sua voce. A dire il vero non era ancora sicuro se quella novità fosse positiva o meno per la sua situazione.

«Un nuovo compagno?», ripeté Chuck, entusiasta. «È fantastico! E come si chiama il nuovo marmocchio?»

«Si chiama Zephir, e...» Sonic esitò per un secondo, masticando lentamente le sue pennette. «... Ed è un riccio. Come me.»

L’entusiasmo di Chuck raggiunse le stelle: «Davvero?! Ma è assolutamente magnifico, orpo!», esclamò, tirando una pacca sulla spalla del nipote. Sonic gemette piano, più per il fastidio che per il dolore: per lo zio Chuck tutto era «magnifico», o «fantastico», o ancora «da non stare più nelle spine»... ma spesso proprio non riusciva a capire cosa ci trovasse di tanto bello.

«Sì, però...», replicò Sonic, poco convinto. «Lui è diverso... è un po’ strano, ecco.»

«Come sarebbe a dire “strano”? Siamo tutti un po’ strani a questo mondo! Guarda me, per esempio: ti sembro forse normale, io?»

«Non in quel senso, zio. La testa ce l’ha a posto, credo», rispose Sonic alzando gli occhi al cielo. «Solo che... sta su una carrozzina. Non può camminare, né... correre.»

Era strano pronunciare quelle parole: per lui correre era più che una passione... era un bisogno, una necessità assoluta. Impedirglielo sarebbe stato come imporre al sole di non sorgere, o alla pioggia di cadere verso l’alto... era una parte intrinseca di lui: non avrebbe resistito un solo giorno senza correre. Ecco perché aver conosciuto un suo simile che era impossibilitato a farlo lo turbava così tanto. Non riusciva neanche a immaginare una vita passata senza correre, senza sentire il fischio del vento sulla pelle e il solletico dell’erba sotto i piedi.

Si ricordava bene di quando, parecchi anni prima, durante una delle sue corse aveva preso una curva troppo larga ed era scivolato malamente, distorcendosi una caviglia. Sorvolando sul dolore, che lo aveva tenuto sveglio per due notti di fila, aveva creduto di impazzire quando il medico gli aveva imposto due settimane di assoluta calma. Due settimane che, come aveva previsto, si erano rivelate un’autentica tortura. Alla fine il fatto di non riuscire ad appoggiare il piede malandato senza vedere una per una tutte le stelle del firmamento lo aveva persuaso a rimanere a riposo, ma dopo quattordici giorni di agonia le alternative erano due sole: o ricominciare a correre, o morire.

Per quanto si sforzasse, dunque, il suo cervello di dodicenne iperattivo non riusciva proprio a concepire una cosa del genere: un’intera vita passata sulla sedia a rotelle. Una. Vita. Senza. Correre.
Un disastro, in poche parole.
Anche Chuck sembrò, per un momento, lasciar perdere l’entusiasmo che lo contraddistingueva.

«Oh», fu il monosillabo che uscì dalla sua bocca. Quella notizia del tutto inaspettata doveva averlo scosso parecchio, per non essere riuscito a dire niente di meglio.
Si sedette e iniziò a grattarsi il mento con lo sguardo fisso davanti a sé, come quando stava riflettendo su qualcosa di importante.

«È... strano, vero?», mormorò Sonic.

«No, non strano... solo insolito», rispose Chuck con voce vaga, come se la sua mente stesse viaggiando a miglia di distanza.

«Un riccio che non può correre... Interessante!», si illuminò all’improvviso. «Potrebbe essere un buon modo per imparare qualcosa di nuovo!»

«Ma... come faccio a diventare amico con uno così diverso da me?», obiettò Sonic, ancora poco convinto.

«Nipote, la diversità sta tutta qui, nella tua testolina», disse, picchiettando con l’indice sulla fronte del nipote. «Siete entrambi ricci: solo questo conta. Anzi, anche se lui fosse un serpente a sonagli sarebbe un’occasione da non lasciarsi sfuggire!» Fece una piccola pausa.
«E di’ un po’, gli hai parlato? Com’è?»

«Ehm... no, ancora no», ammise Sonic. E non so se lo farò mai, aggiunse poi silenziosamente.

«Per quale motivo?»

«Be’, te l’ho detto, è strano... Sembra un po’ secchione, prende sempre appunti... Non mi piace tanto, ecco», buttò lì Sonic. Si era già pentito di averne parlato, ma ormai il danno era fatto.

«Ohibò, nipote, mi stupisco di te! Non ti ho insegnato che non bisogna mai dare giudizi affrettati basandosi su delle semplici apparenze?», finse di rimproverarlo lo zio Chuck.
Aveva ragione, gliel’aveva detto un sacco di volte... ma sapeva che non era sempre vero: nel caso dei suoi compagni, per esempio, la prima, pessima impressione che aveva avuto fin da subito era stata quella definitiva.

«Ma... non può correre!», insisté Sonic. «Questa non è un’apparenza!»

«E allora? Nemmeno tua madre sapeva correre veloce come tuo padre... eppure guarda che bel nipotino sono riusciti a regalarmi!», rispose Chuck.
Sonic sorrise, ma non accennò a cambiare idea: «Però con lui è un po’ diverso.»

«Nipote, ti ripeto che tutta questa diversità se la sta inventando il tuo bizzarro cervellino!», proseguì lo zio imperterrito. «Tu sai correre. Lui no. Che cosa cambia? Questo non potrà certo impedirvi di essere amici!»

«Hmm-hmm...», borbottò il giovane porcospino, non ancora del tutto convinto.

«Promettimi che nei prossimi giorni proverai almeno a rivolgergli la parola...»

«Ma...»

«E invitalo pure a pranzo, se vuoi: arriverà la volta buona per cucinare della pasta decente, prima o poi!»

«D... d’accordo», concesse Sonic esausto, ma mentre diceva quello incrociò le dita da sotto il tavolo. Dopotutto, non ci sarebbe voluto molto tempo prima che Chuck se ne dimenticasse completamente.

«Così mi piaci, giovanotto!», rispose lo zio grattandogli affettuosamente la testa.

*      *      *
 
Finito di mangiare, Sonic aiutò lo zio Chuck a sparecchiare e a riordinare la cucina, poi sgattaiolò al piano di sopra, dove c’era la sua cameretta: una stanza che un tempo doveva essere una specie di mansarda in cui erano stati posizionati un letto, un comodino, un armadio e poco più.
Era piuttosto spoglia, in realtà, ma non era difficile immaginare che in quella casa non avessero mai girato tanti bambini, perciò non si poteva certo lamentare. E poi il meraviglioso campo di erbetta verde che si vedeva dalla sua finestra, perdendosi all’orizzonte, bastava per renderla comunque piacevole: se non altro, quando si annoiava, era sufficiente affacciarsi e immaginare di correre, correre e ancora correre, fino a raggiungere (forse) l’estremità più estrema della terra, per vivere un’altra delle sue entusiasmanti avventure. Però a lui bastava uscire di casa per poter correre davvero: Zephir, invece, doveva accontentarsi di immaginarle, senza tuttavia avere la possibilità di sperimentarle sulla propria pelle. Checché ne dicesse lo zio Chuck, loro due erano diversi... troppo diversi.

Ma perché sto ancora pensando a lui?, si chiese. Quella specie di chiodo fisso lo innervosiva non poco: perché anche ora che era a casa sua, probabilmente parecchio lontano rispetto a quella dove abitava Zephir, non riusciva a toglierselo dalla testa?
La smetterà di ossessionarmi, prima o poi, rifletté, mentre si distendeva sul suo lettino. Era stanco, nonostante fosse solo il primo giorno, e pensò che non ci sarebbe stato niente di male se si fosse riposato un poco: non aveva intenzione di dormire, ma solo di stare un po’ sdraiato. Allora si coricò su un fianco e lasciò che la stanchezza di quel primo giorno scivolasse via.

Il pensiero di Zephir sembrò lasciarlo un attimo in pace, ma in compenso la sua testa venne invasa da quelli riguardanti i suoi compagni: il primo giorno era passato senza particolari incidenti, ma Sonic sapeva che quello era soltanto l’inizio. Anzi, non era neanche l’inizio: le offese, le minacce e i dispetti di quella mattina non erano che episodi insignificanti rispetto a ciò che ne sarebbe seguito di lì a poco. Lo avrebbero provocato, insultato, forse addirittura picchiato, e poi strapazzato così tanto e così a lungo che sarebbe arrivato a un passo dalle lacrime. Lo avrebbero persino costretto a mettersi a piangere davanti a tutti, ovviamente suscitando le risate e gli scherni dell’intera classe – se non di tutta la scuola.
Se però almeno i suoi compagni avessero fatto sul serio, rifletteva, la vita sarebbe stata molto più facile: una sedia in piena testa; una bella commozione cerebrale; un coma irreversibile, poi via: in pace per sempre. E invece si ostinavano a fargli male, sia fisicamente che mentalmente, ma stando bene attenti a non esagerare: pizzicotti a volontà, proiettili di carta lanciati con un elastico, occasionali calci negli stinchi tirati da sotto il banco mentre il professore guardava dall’altra parte… Insomma, dispetti che gli costavano tutt’al più un livido e un paio di graffi, ma mai niente che attirasse troppo l’attenzione.

Del resto, poteva capire la loro logica meschina: se la vittima si fa male seriamente, gli adulti devono per forza uscire dalla loro boccia di vetro e accorgersene, con conseguente fine della pacchia. Molto meglio, invece, causare danni piccoli ma significativi, che facciano male ma che allo stesso tempo rimangano nascosti. E in questo modo la cosa andava avanti ormai da un anno, senza che lui potesse fare altro che rispondere a tono alle provocazioni.
Con gli scontri verbali, dopotutto, sapeva di possedere qualche chance, dato che avere sempre la risposta pronta era una delle sue maggiori doti naturali, ma con quelli fisici la faccenda si complicava: era troppo piccolo, troppo basso e troppo minuto per sperare di averla vinta contro Francis, Cedric e tutta la banda. In fondo era pur sempre un roditore, e non poteva certo competere con un gruppo di cinque felini tutti più alti, più grossi e decisamente più malintenzionati di lui.
Perché facevano tutto questo? Perché si divertivano a farlo soffrire e sentire emarginato più di quanto lo fosse già per conto suo a causa del suo desiderio di solitudine? Francamente non lo sapeva, e non era nemmeno sicuro di volerlo sapere: la loro logica perversa era al di là della sua comprensione.

Presto inizieranno anche con Zephir, se a loro piace prendersela con i ricci, pensò. La cosa non gli faceva né caldo né freddo, e non lo avrebbe neanche stupito tanto: dopotutto se la stava cercando, comportandosi da secchioncello.
Immerso com’era in quei pensieri, finì per addormentarsi.

*      *      *
 
Un cucciolo di porcospino di appena tre anni si desta all’improvviso nel suo letto. Nella casa immersa nell’oscurità c’è il silenzio assoluto. Ma allora cosa è stato a svegliarlo? Non è stato una finestra sbattuta dalla corrente e neanche uno scricchiolio del pavimento di legno, no… È stato un odore strano, penetrante, che si insinua da sotto la porta socchiusa della sua stanza e gli colpisce le narici. Prima leggero, poi sempre più prepotente. Parrebbe odore di bruciato, ma non ne è sicuro. Dopotutto è solo un bambino, non si intende di queste cose.
«Mamma…», chiama piano, quasi temendo che rompere il silenzio che regna nella casa possa generare una catastrofe. Non ottiene risposta, ma presto nota qualcosa che attira la sua attenzione: oltre le persiane accostate davanti alla finestra arrivano degli strani luccichii, dei lampi gialli. Il piccolo sa che alzarsi dal letto a quell’ora di notte gli costerà di sicuro una bella sgridata, ma proprio non riesce a resistere alla curiosità: si alza lentamente senza fare il minimo rumore e raggiunge la finestra.

Forse sa di cosa si tratta: l’estate scorsa i suoi genitori l’hanno portato a vedere quei bagliori colorati che si chiamano “fuochi artificiali”… ma capisce che questi sono molto diversi: non fanno quel fracasso infernale, e in compenso puzzano in un modo tremendo. L’unico modo per scoprirlo, dunque, è sbirciare fuori dagli scuri.
Gira piano il catenaccio facendo attenzione a non provocare cigolii, ma nel momento stesso in cui spinge con la mano una delle persiane per aprirla viene investito da una ventata di aria bollente che per poco non gli ustiona il naso. Si sporge un po’ di più, con titubanza, e scorge, sulla destra, l’enorme foresta che inizia proprio dietro casa sua e che si perde a vista d’occhio… ma gli basta per capire che quello che vede non sono affatto fuochi d’artificio. O meglio, il fuoco c’è, ma non è affatto come se lo ricordava.
Fino al punto oltre il quale il suo occhio di bambino non riesce ad arrivare, l’intera foresta è avvolta dalle fiamme: le vede danzare, le sente crepitare, e soprattutto sente sulla sua pelle lo spaventoso calore che provocano.

Stai lontano dal fuoco… Il fuoco è malvagio, e non esiterà a divorarti se ti lasci avvicinare troppo.

Questo è ciò che gli ha sempre ripetuto la mamma, ma in tutta la sua breve vita non ha mai visto un fuoco così grande… e non può fare altro che rimanere a guardarlo affascinato.
Non gli viene da pensare che il fuoco è cattivo e che bisogna stargli il più possibile alla larga… nemmeno che la sua casa si trova praticamente attaccata al bosco…
Si riscuote soltanto quando le sue orecchie di cucciolo vengono percosse da uno schianto assordante e da un fragore di vetri rotti e sente il pavimento tremare con violenza sotto i suoi piedi. Non sa cosa sia stato, ma la paura lo immobilizza mentre l’odore di bruciato si fa sempre più insistente.
Tremando come una foglia, si allontana dalla finestra e si dirige verso la porta della stanza. Adesso ha paura, tanta paura, e sa che si sentirà al sicuro solo quando si troverà tra le braccia morbide di sua madre, perciò stringe la maniglia tra le dita sudate e trepidanti e apre la porta.
Il suo cuore di bambino salta un battito quando vede cosa sta succedendo fuori dalla sua cameretta, proprio davanti ai suoi occhi: la grande vetrata sul lato del corridoio più vicino alla foresta ora è a terra in mille pezzi. Adesso c’è un grosso albero che occupa in larghezza l’intero corridoio, ostruendo senza via d’uscita la porta della camera dove dormono i suoi genitori e le scale che portano al piano di sotto. Questo albero, probabilmente abbattuto dalla potenza dell’incendio, ha appiccato il fuoco al tappeto e ai tendaggi… e ora le fiamme si stanno propagando per tutto il piano a velocità spaventosa, dirigendosi rapidamente verso la sua stanza.

Il fuoco è cattivo. Sta arrivando… vuole divorarti.

Il piccolo richiude di scatto la porta. No, non lo lascerà avvicinare: il fuoco non riuscirà ad annientarlo.
Cerca istintivamente un posto sicuro dove rifugiarsi… ma come si può essere veramente al sicuro da soli in una stanza circondata dalle fiamme?
Obbedendo a uno strano istinto, si mette carponi e sgattaiola sotto il suo lettino – il suo unico, vero nascondiglio segreto, dato che è il solo in quella casa in grado di strisciarvi dentro – e rimane lì, in attesa, accucciato contro il muro perfettamente immobile. Ma il caldo si sta facendo infernale, il puzzo insopportabile e l’aria rarefatta. Sa bene che non sarà certo un muro a fermare la furia del fuoco, però lui non può fare altro che restare lì e sperare che tutto finisca presto.

«Mamma… papà… aiuto…», bisbiglia, con la voce spezzata dal terrore. Sente che tra poco la porta si riaprirà, che sua madre correrà nella stanza e lo aiuterà a uscire dal suo rifugio, poi lo stringerà a sé, lo prenderà in braccio e lo porterà in salvo. Lo sa che lei sta per arrivare ad aiutarlo… non deve fare altro che aspettare. E resistere, perché se si lascia morire sua madre non avrà più nulla da salvare.
Aspetta. E aspetta. E aspetta ancora. Ma da dietro quella porta non compare nessuno.

«Ho paura.»

Gli occhi lacrimano per il dolore e lo spavento, i polmoni bruciano così tanto che gli pare stiano per scoppiare. Il calore adesso è tremendo, l’aria intorno a lui irrespirabile. E il silenzio sempre più opprimente.
Poi c’è un altro frastuono assordante, e prima che il tetto della casa collassi sul piano sottostante e che travi, mattoni e detriti di ogni tipo gli piovano addosso da tutte le parti, la sua mente terrorizzata riesce a formulare un ultimo pensiero.

Hai perso. Il fuoco ti ha trovato.

*      *      *
 
Sonic si risvegliò di soprassalto nel suo letto, ansante, madido di sudore e con il cuore che batteva come dopo una corsa a perdifiato.
Gli era successo di nuovo: anche dopo tutti quegli anni passati, continuava a sognare la notte in cui i suoi genitori erano stati divorati dalla violenza del fuoco con una nitidezza quasi agghiacciante. E come tutte le volte, la paura vinceva le sue resistenze e si insinuava come un tentacolo velenoso all’interno della sua mente, paralizzandolo e facendogli provare lo stesso orrore di tanti anni prima.

«Mamma, papà...», singhiozzò, ora con le lacrime agli occhi, affondando il viso su un cuscino che ormai – ne era convinto – non ne poteva più di assorbire tutte le lacrime che aveva pianto negli anni.
Già, mamma e papà.

Perché ve ne siete andati? Perché mi avete lasciato da solo?, pensò quasi con rabbia.
Strano a dirsi, infatti, il sentimento dominante dentro di lui quando rimuginava su quei terribili momenti non era la paura e nemmeno la tristezza, ma proprio la rabbia: per essere rimasto abbandonato in un mondo che detestava senza nessuno a cui potersi affidare veramente; per continuare a piangersi addosso pur sapendo di non poter fare nulla; ma anche per non essere riuscito a fare in modo che le cose andassero in modo diverso.

Perché lui si era salvato e loro no? Per quale assurdo motivo era riuscito a resistere per delle ore rannicchiato sotto il suo letto, privo di sensi, ferito e anche un po’ avvelenato dal fumo, prima che arrivassero i soccorsi? Perché lui, un marmocchio di tre anni, era sopravvissuto e due adulti no?
D’accordo, lo zio gli aveva raccontato che quel tronco che aveva sentito cadere aveva bloccato la porta della stanza in cui dormivano i suoi genitori, tramutando la camera in una prigione senza via di scampo… però anche lui se l’era vista piuttosto brutta, con il tetto che gli era praticamente crollato sulla testa. Eppure era sopravvissuto, e nemmeno lui si sapeva spiegare come.

Sarebbero potuti uscire dalla finestra, si ripeteva di continuo. Papà ce l’avrebbe fatta di sicuro…
E se invece avessero speso tutte le loro energie per cercare di uscire dalla porta e mettere in salvo il loro piccolo, condannandosi così a morte?

Quel dubbio lo tormentava fin da quando aveva memoria, ed era più che certo che ci fosse almeno un fondo di verità. Se i suoi sospetti erano fondati, allora parte della colpa si riversava inevitabilmente su di lui; e se da una parte era orgoglioso di possedere dei genitori tanto coraggiosi da rischiare la loro vita per mettere in salvo lui, allo stesso tempo si malediceva per essere stato la causa inconsapevole della loro morte. Del resto, come gli raccontava spesso lo zio Chuck, il più grande pregio (o forse il peggior difetto) di suo padre era di pensare sempre agli altri e mai a sé stesso… solo che a lungo andare quella sua caratteristica gli era costata la vita.
Comunque stessero le cose, però, in ogni caso lui non poteva farci niente, se non rimanere per ore abbracciato al cuscino e continuare a piangersi addosso. Ed era proprio questa sua impotenza a farlo stare maggiormente male.
 
«Va tutto bene, figliolo?»

Sonic alzò di scatto gli occhi e smise di piagnucolare nel momento stesso in cui il muso dello zio Chuck comparve da dietro la porta, strappandolo bruscamente dalle riflessioni e dai ricordi. «Ti ho sentito piangere... C’è qualche problema?»

«N-no, no... non è niente», replicò il giovane riccio scuotendo la testa.

Chuck sospirò, chiaramente non troppo convinto.

«Comunque, volevo dirti che è pronta la cena», aggiunse.

«L-la cena? Di già?», domando Sonic confuso: aveva dormito davvero per tutto il pomeriggio?

«Ma non dovevo aiutarti coi piatti e la roba da lavare?» Solo allora si accorse che dalla finestra entrava molta meno luce di quanta ve ne fosse prima di addormentarsi.

«No, non preoccuparti. Ho visto che dormivi e ho fatto tutto io. Adesso vieni prima che si raffreddi.»

Sonic si alzò dal letto, ancora incapace di credere a quel che era successo: il sonno gli aveva portato via tutto il pomeriggio, e per giunta gli aveva riportato alla mente ciò che avrebbe voluto volentieri dimenticare del suo passato. E questo come gli era successo già tante altre volte.
Prima o poi sarebbe impazzito, se lo sentiva.
 
Seguì lo zio in cucina, dove lo attendeva un piatto di minestra incredibilmente calda al punto giusto (anche se con il brodo un po’ troppo saporito) e una bistecca appena strinata a un’estremità.
Cenarono in silenzio, quasi senza rivolgersi una parola che non fosse «Mi puoi passare l’acqua?»
Sonic, in particolare, teneva gli occhi bassi, fissando il suo piatto con concentrazione assoluta e masticando lentamente. Fu forse a causa del suo silenzio ostinato che lo zio, a metà del secondo, non riuscì a trattenersi.

«Di nuovo i tuoi incubi?», domandò con la voce priva di tono.
 
Sonic si strinse nelle spalle ed esitò un attimo prima di rispondere con un mugugno poco convinto. Era da un po’ di tempo che non ne parlavano, ma ogni volta che succedeva discuterne diventava sempre più difficile.

«Figliolo, cosa dobbiamo fare per risolvere questo problema? Non posso vederti in questo stato, lo sai.»
Sonic scosse la testa e mormorò un mesto: «Non lo so, zio Chuck.»

«E non pensi che potrebbe essere l’ora di dire basta?», chiese lo zio, poggiandogli una mano sulla spalla. «Ormai sei un ragazzo, quasi un ometto: credi di voler passare tutta la tua vita nella disperazione e nel rimorso? A volte bisogna sapersi lasciare il passato alle spalle e guardare avanti.»

«Lasciare il passato alle spalle?», chiese Sonic, inorridito.

«Non ti sto chiedendo di dimenticare i tuoi genitori, attento, ma semplicemente di fartene una ragione: purtroppo non torneranno mai indietro, lo sappiamo bene – a queste parole Sonic si lasciò sfuggire un singhiozzo –, ma sono sicuro che non vorrebbero vederti sempre triste per loro. Potresti farcela, figliolo, se solo lo volessi.»

Il giovane porcospino annuì stancamente. Era facile a dirsi, rifletteva. Ma... lui era sicuro di volerlo?

«Lo vedi? Trovarti un amico potrebbe aiutarti anche in questo!», proseguì lo zio. «Se te ne stai sempre da solo, è inevitabile che ti soffermi a riflettere su questo e su quello, e allora i tuoi incubi continueranno a perseguitarti. Ma con qualcuno a farti compagnia, i cattivi pensieri se ne andrebbero lontano almeno per un po’, credimi!»

Ancora con questa storia, sbuffò silenziosamente Sonic. Suo zio voleva forse che lui diventasse amico di Zephir per sfinimento?

«Domani sarà un nuovo giorno, vedrai», sorrise infine Chuck. «Non dovrai fare altro che presentarti al tuo amico e invitarlo. Facile, no?»

Certo.

Per lui tutto sembrava dannatamente facile, come un gioco. Peccato che la realtà fosse ben diversa.
Decise di fare un ultimo tentativo per convincerlo a desistere, anche se sapeva che sarebbe servito a poco.

«Ma zio... ti ho detto che non mi piace, e che è un po’ strano, e...»

«Oh, sciocchezze! Vedrai che quando sarete amici non ti ricorderai nemmeno che all’inizio non ti piaceva!», concluse lo zio Chuck con aria soddisfatta.

Un discorso da zio a nipote che sembrava partito così male si era concluso nel più felice dei modi… Solo per il primo, però: Sonic non aveva alzato lo sguardo dal piatto per tutto il tempo, e adesso aveva le idee ancora più confuse di prima. Ma tanto lo sapeva che non sarebbe comunque andato da Zephir: con un po’ di fortuna, lo zio Chuck si sarebbe dimenticato della promessa che avevano stretto in un batter d’occhio.

O almeno così sperava. Certo, però, che con la fortuna che si ritrovava negli ultimi tempi, aveva come l’impressione che non sarebbe stato per nulla facile. Ma forse erano solo le paranoie di un riccio adolescente, no?


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Capitolo due andato, oh yeah! xD
Be', a questo punto direi di andare avanti con le "Istruzioni per una lettura consapevole della storia", nel caso assai improbabile in cui a qualcuno interessi.

Non so voi, ma io mi sono sempre chiesta chi fosse Sonic prima di diventare l'eroe che tutti conosciamo grazie ai cartoni e ai videogiochi. Del suo passato, in effetti, non si sa granché, e come ben sapete a volte le varie versioni si intrecciano tra loro ma, almeno per quel che mi riguarda, non lasciano mai del tutto soddisfatti.
Ho cercato di far emergere un lato della personalità di Sonic che forse non è molto evidente, ma che lo rende ai miei occhi un personaggio riuscitissimo. In poche parole, Sonic è sempre stato l'adolescente sfacciato che conosciamo, o prima era diverso? C'è un motivo nel suo passato per cui si comporta così? Be', nella fic ho cercato, e cercherò, di rispondere a questa domanda ^^

Riguardo ai personaggi qui troverete solo il mitico zio Chuck dei fumetti (che conosco a spanne solo grazie a Wikipedia inglese... un modo alternativo per dire: siate clementi per le eventuali ma assai probabili castronerie che ho scritto, non essendo - ovviamente - intenzionali), più piccoli accenni a papà Jules e a mamma Bernie, come avete incontrato qua e che troverete anche nei capitoli a seguire.

Ultimissimissima cosa, non ho ancora familiarità col rating, ma nel dubbio ho messo giallo per via di un certo qualcosa-che-non-posso-dire, che forse potrebbe "turbare i deboli di cuore". Nulla di macabro, per carità, ma non si sa mai ;)

Boh, mi pare di aver detto tutto, per ora... se vedemmio, gente!
Martix Hedgehog

  
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