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Autore: FedericaMars    01/07/2013    2 recensioni
Ho tutta la vita che mi scorre davanti, da sempre, come se fosse un film; come se non fosse mia, la roba che sto vivendo.
Non sono mai riuscito a percepire il momento: sembra sempre tutto un ricordo, il presente ha i contorni sfumati come in una foto d'epoca, il sapore di un qualcosa che è già irrimediabilmente sfuggito.
Se ci penso adesso, non riesco a ricordare una sola volta nella quale sono stato felice.
Tutto mi ricorda il degrado e la disperazione, il traguardo al quale non sono mai giunto, la felicità che non ho mai trovato.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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 Io ed Alex diventammo davvero molto amici, la nostra infelicità era così simile che accanto a lui quasi mi sentivo felice, o perlomeno riuscivo a dimenticarmi la metà dei problemi. Noi, insieme, giocavamo ad essere marci. Quel poco di speranza che avevamo dentro lo nascondevamo per bene sotto strati di cinismo e strafottenza. Ce ne andavamo in giro come due cretini, recitando una storia che era l’esagerazione di noi stessi. Adesso credo che forse potevamo salvarci. Sarebbe bastato essere meno stupidi, meno convinti. Ma col senno di poi ne son piene le fosse, e noi non siamo riusciti a tirarci su, anzi, abbiamo fatto di tutto per buttarci ancora più giù. E ci siamo riusciti. Ci siamo riusciti in pieno. Io ed Alex andavamo in giro facendo casini e poi salivamo sul tetto di un immenso palazzo grigio e decadente, sede di alcuni vecchi uffici, caduti in miseria per colpa dei tagli al personale. Su quel palazzo alto 10 piani al centro della città ci sentivamo come in un film americano, come quei ragazzi senza futuro, con un passato difficile alle spalle ed un presente fin troppo problematico, quelli che bevono e fumano e dicono parolacce perché sono schifati da tutta la merda che c'è intorno a loro. Ci sentivamo persi e sprecati, dicevamo di volerci ammazzare, proprio come quei ragazzi disperati che si buttano dal grattacielo più alto di New York e la fanno finita. Però noi di ammazzarci davvero non ci avevamo mai pensato, anche perché ci vuole coraggio, ci vuole quasi più fegato ad ammazzarsi una sola volta che a vivere tutti i giorni. Noi ci limitavamo ad esistere. Salivamo fino al tetto, ci sedavamo sul cornicione, ma sempre a distanza di sicurezza, con in mano una sigaretta, e quando andava bene qualche canna, e nello zaino le bottiglie di vodka prese al discount sotto casa. In realtà non ci piaceva fumare, e neanche bere. In realtà non ci piaceva la birra che scolavamo a barili, e tanto meno la vodka, che mandavamo giù a sorsi quasi disperati che ci mandavano la gola in fiamme. Non piaceva a nessuno dei due il pizzicore alla gola di quando inspiravamo il fumo della nostra canna. Non ci piaceva, eppure lo facevamo. E lo facevamo praticamente tutti i giorni. Era una specie di modo per farci male consapevolmente, era una punizione per qualcosa che non avevamo fatto. Lo sentivamo come un gesto necessario. Stavamo su quel tetto per ore. A volte speravamo che qualcuno venisse per caso a controllare e ci trovasse lì, sdraiati per terra con le bottiglie di vodka svuotate ed i filtri delle canne, nell'alone di fumo e nel puzzo di alcol; che ci trovasse così, devastati, e che ci portasse dalla polizia, mobilitando pattuglie, allarmando le famiglie. Speravamo che qualche giornalista facesse un articolo su di noi, che esagerasse le nostre condizioni. Volevamo uno di quegli articoli pieni di accuse verso i genitori assenti, la facilità con la quale ci si procura le droghe. Un manifesto ipocrita di scaricamento di colpe per una società che stava andando allo sbando. Volevamo leggere da dietro le sbarre che eravamo una generazione persa, volevamo leggere che ci avevano trovati praticamente morti, imbottiti di cocaina, e che ci avevano salvato in extremis. Desideravamo la rabbia che sarebbe scaturita da quelle bugie. Oppure volevamo essere trovati lì, su quel tetto, ed essere salvati; però non veniva mai nessuno. Speravamo che ci trovassero così, coi jeans strappati e le scarpe bucate, le felpe troppo larghe con le cuciture sfilacciate. In realtà i soldi per vestirci ce li avevamo, ma andare in giro così rispecchiava molto di più la disperazione che avevamo dentro. I vestiti sdruciti rappresentavano la nostra anima logorata dall'angoscia del tempo che sfugge, ogni macchia era un pugno, un livido che avevamo dentro. A volte abbiamo provato anche a farci del male, ma mai troppo, perché entrambi avevamo paura. Comunque non ci importava del dolore, volevamo solo sentire se eravamo ancora vivi. Ricordo che una volta, quando ancora non avevamo provato a sperimentare il dolore fisico, Alex mi prese improvvisamente per un braccio, mentre camminavano per la strada, senza una meta, e mi chiese di dargli un morso. Ricordo ancora bene l'incredulità nel sentire quelle parole, strane e distorte dal tono grave. “Dammi un morso” mi disse. E io lo guardavo con la faccia stupida, sicuro di non aver capito bene. “Dammi un morso” ripeté, “voglio sentire se sono ancora vivo”. Il morso non glielo detti, ma situazioni del genere mi mettevano un’angoscia tale che potevo stare agitato per giorni, senza riuscire a mangiare o dormire. Ma non erano solo cose del genere a mettermi l’ansia, anzi, soffrivo spesso di attacchi di panico apparentemente immotivati, soprattutto nei periodi più tranquilli e sereni, quando quasi mi dimenticavo di essere infelice, ecco che arrivava l’attacco, col mal di stomaco, la sudorazione e tutto quello che ne seguiva. Sono stati tempi duri, ma nonostante tutto ero ancora speranzoso. La nostra era una farsa, la mia, era una farsa. Talvolta provavo a convincermi, che era tutto falso, che non ero triste davvero, che era l’identità che avevo costruito intorno al mio personaggio da film americano. Non era forse davvero così? Non sapevo neanche chi ero. Poi un giorno, all'improvviso, non era più un gioco o una caricatura, quello che stavamo facendo. Ci siamo resi conto, tutto ad un tratto, che la vita ci stava ammazzando davvero e ci stava piegando come voleva lei, e questo non potevamo accettarlo. Eravamo disperati, certo, eravamo sprecati, anche, ma credevamo, almeno fino a quel momento, di aver controllato ogni cosa, con le nostre canne e le nostre nottate fuori, con le siringhe tenute per finta nelle tasche. Invece eravamo fregati, ce ne siamo resi conto una mattina di novembre che era tutto finito, finito davvero. Non potevamo più fare finta di nulla, salire fino al 10 piano, andare sul tetto e continuare come se niente fosse, come se credessimo ancora di poter cambiare qualcosa. Allora ci abbiamo pensato. Quella volta abbiamo pensato davvero di farci fuori, di andare verso la fine del cornicione e fare un salto. Non eravamo mai riusciti a parlarne, prima. Il nostro rapporto era basato sul fumo e sull'alcol, sulle giornate perse a girovagare, sui discorsi astratti da ubriachi. Non c'era mai stato niente di veramente pratico, concreto. Nessuno dei due aveva mai detto all'altro che stava soffrendo e che voleva essere salvato o trucidato per sempre. Eppure lo sapevamo, ce lo leggevamo negli occhi che eravamo figli di una società che non ci aveva voluto, sin dal primo respiro di quell'aria sporca e inquinata. Quella mattina di novembre però non ci fu bisogno di dire molto. Se ce l'avessero detto anni prima, che un giorno ci saremmo ammazzati, non ci avremmo creduto. Ci saremmo visti come gli stessi ragazzi americani che invidiavamo e cercavamo di imitare. Gli stessi disperati, drogati e alcolizzati che ammiravamo. Però quel giorno non c'era niente da ammirare, e ne eravamo consapevoli. Ci siamo trovati come sempre su quel tetto, con gli zaini pieni zeppi di bottiglie, le chiavi di casa, le siringhe vuote, l'erba, gli accendini. Ci siamo guardati e lo sapevamo, ma non potevamo dirci nulla. Ricordo che Alex iniziò a scartare due siringhe, una per volta, con calma. Poi lentamente si bucò la vena, aspirò due gocce di sangue, nient'altro. Io sapevo cosa stava facendo, che cosa aveva in mente. Gli porsi il mio braccio, cercando di non pensare all'ago che ci avrebbe conficcato di lì a poco. Tanto che importanza aveva, ormai. Alex bucò anche il mio braccio e aspirò del sangue. Si mise a guardare le siringhe, a me non faceva male, però mi veniva lo stesso da vomitare. La droga non c'era, non ce l'abbiamo mai avuta. In realtà non avevamo le palle per provare, per scoprire di essere dipendenti dall'ennesima cosa che ammazza. Le siringhe e quei buchi però ci servivano per la nostra farsa. Per l'articolo sui ragazzi drogati e disperati che avrebbero fatto dopo aver rinvenuto il nostro cadavere spappolato ai piedi di quell'immenso palazzo grigio e decadente. Dopo aver posato le siringhe ci siamo fatti 4 canne a testa, e ogni canna mi sentivo sempre di più uno schifo, e anche Alex doveva provare la stessa cosa, perché ogni volta si preparava l'impasto quasi aggrappandosi alla cartina, come se fumare quella prossima canna facesse la salvezza dell'intera umanità. Dopo le canne, poi, ci siamo attaccati ognuno alla sua bottiglia di vodka e poi ci siamo messi a piangere. Vista da fuori doveva essere una scena pressoché comica: due ventenni che si sparano a ripetizione canne fino a star male, che si bucano con delle siringhe per far finta di essere drogati e che si mettono a piangere mentre bevono. Eppure, di comico non c'era proprio niente. Eravamo ancora più disperati del solito, perché sapevamo che di li a poco tutto sarebbe finito, finito davvero e per sempre. Infatti non ci volle ancora molto. Ci siamo asciugati le lacrime, ancora senza parlare, e ci siamo fatti altri buchi qua e là, quasi a voler far sembrare che ci drogassimo da sempre. Ad Alex cominciò a buttare sangue il naso ed io gli porsi un fazzoletto, lui alzò le spalle e scosse la testa, si asciugó con la manica della felpa, che in tutto quel tempo era diventata di un colore tra il marcio e l’ammuffito, e iniziò a sputare per terra. Era arrabbiato, arrabbiato con tutti e col mondo, perché lo stava spingendo ad ammazzarsi. Forse era arrabbiato anche con me, che non ero riuscito a salvarlo. Io non ero arrabbiato con nessuno, avevo paura ma lo sapevo, ed in quel momento non mi importava più. Gli ho preso la mano, alla faccia di tutti quelli che ci avrebbero definito "gay", tanto non ci vedeva nessuno, e poi a noi non interessava sapere come ci categorizzavano. Non lo sapevamo nemmeno noi, cos'eravamo; Gay, etero, pazzi, drogati, alcolizzati, inutili. Mi tremavano le gambe e la paura mi faceva sudare freddo. Puzzavo di un odore indefinito, tra sudore e paura e morte, putrefazione. Strinsi la mano di Alex, lui era distante, mi guardava con quegli occhi vuoti. Quegli occhi un tempo così vivi e allegri mi stavano dicendo di fare il primo passo, di condurlo fino al bordo, lui tanto era già morto. Aveva finito quel poco che gli restava nella lucidità di farci i buchi alle braccia e nella rabbia di prima, l'ultima goccia di vita era nel sangue che era colato dal suo naso. Io ero praticamente scosso dai tremiti, non riuscivo più a calmarmi, ricordo che gli dissi "allora andiamo" ma la voce era rotta dai singhiozzi che stavano per arrivare, quel "andiamo" mi si spezzò praticamente in gola, l'unica cosa che si era sentita era stata "allora". Suonava un po' come un esortazione, come un semplice modo di mettere in chiaro le cose. Una precisazione, una constatazione. La fine di una frase che avevamo già pronunciato da tempo. "Allora andiamo". E allora siamo andati. Ci siamo tenuti stretti per mano e siamo arrivati fino al bordo. Abbiamo guardato giù, io continuavo a fissare Alex e lui continuava a fissare la strada. Allora ho saltato, e lui mi è venuto dietro.   

 
  
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