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Autore: Glory Of Selene    02/07/2013    1 recensioni
*Attenzione! Questa storia è basata su una da me precedentemente scritta, Il Sottile Confine tra Realtà e Illusione. Non è necessario leggere quest’ultima per capire la trama, ma è consigliato se non si vuole perdersi il colpo di scena finale della prima.*
C’è un fantasma nei sogni di Tuomas. Un fantasma di cui lui è pazzamente innamorato, un fantasma che stringe in mano il filo di ogni suo sentimento. Un fantasma che sarà lì con lui nel momento della sua morte.
Ma quali sono state le emozioni del suo fantasmino dai capelli rossi? Era veramente solo una figura inumana che si divertiva a scomparire ed apparire a piacimento? Che cosa c’era veramente dietro quel sorriso dalla sconcertante dolcezza?
…Quale sarebbe la versione della storia, se fosse Aurora a raccontarla?
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tuomas Holopainen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fuori dall’ospedale il mondo senza Tuomas mi disorientava.
Ruotava sfuocato intorno a me, come a ricordarmi che io non ne facevo parte, che non potevo percepirlo. Vagavo senza meta, badando solo a mettere un piede davanti all’altro, maledicendo me stessa e la mia natura ogni singolo istante del mio eterno e inutile viaggio.
Sapevo di non poter tornare a casa. Anche quel mondo mi era estraneo ora, con tutto quel bianco e quella felicità immotivata, che mi avrebbero solamente irritata. Ma sapevo anche che, in realtà, non era la natura di quei due mondi ad essermi estranea, ma ero io ad essere estranea alla loro. Camminavo, come una sola particella intrappolata tra due elementi che non potevano essere suoi.
Ogni tanto, nei giorni di pioggia, quando mi sedevo sulle panchine ad osservare le persone scappare dalle gocce che io non potevo sentire – quanto avrei pagato per poter percepire la sensazione della pioggia sulla pelle! –, la mia mente tornava a Tuomas, a quel bambino timido che nessuno sembrava in grado di capire, ancora così piccolo eppure già così sensibile, quel bambino che era stato affidato a me e che io avevo dovuto abbandonare, colpevole del solo peccato di averlo amato troppo e in un modo sbagliato. Mi chiedevo dov’era, che cosa stava facendo, se fosse riuscito a superare i suoi problemi con gli altri bambini, se il suo braccio si fosse aggiustato bene e senza problemi, se avesse vinto quel torneo di tennis al quale pensava così spesso. Mi chiedevo se adesso ci sarebbe stato qualcun altro a prendersi cura di lui, a svolgere il lavoro che io non ero stata in grado di fare.
Pensare a Tuomas non mi faceva bene. Lui rappresentava il fallimento, e altri sentimenti sui quali non mi volevo soffermare. Ma non potevo, non volevo smettere di farlo, perché ero legata a lui in una maniera che non potevo ignorare, e perdere lui definitivamente avrebbe significato perdere me stessa.
Certo, perdere me stessa non sarebbe stato poi tanto male; e mi ritrovai a pensarci spesso, durante i giorni di pioggia. Ora che non avevo più scopo potevo fare di me ciò che volevo, e se  me ne importava meno di zero della mia anima perché continuare a soffrire inutilmente?
Era un’idea allettante. Per molto tempo continuai a rimuginarci sopra con immotivata eccitazione, dovuta al fatto che finalmente potevo dire di avere un nuovo scopo, fosse pure uno scopo malato e controproducente.
Camminavo per le strade, osservavo gli uomini con interesse, loro, campioni di morte, avrebbero sicuramente saputo indicarmi il modo migliore per raggiungere il mio obbiettivo. Sapevo però che non sarebbe stata cosa facile: annientare me non era come annientare qualcun altro. Avrei avuto bisogno di qualcosa fuori dal comune.
Passò altro tempo e io continuai a pensare, arrovellarmi, sul trovare un modo per farlo. E in fondo ero soddisfatta perché, impegnata com’ero a trovare un espediente per autodistruggermi, avevo smesso di rivolgere la mia attenzione al passato e di cercare nei miei sogni il volto paffuto di quel bambino dagli occhi grigi.
L’illuminazione mi arrivò per strada, quando vidi un uomo avvicinarsi ad un’auto. Lo osservai meglio: era teso, la fronte luccicava di sudore. Ci mise meno di un attimo per fracassare il vetro.
Io balzai all’indietro, attonita, mentre lui apriva la macchina dall’interno, vi si introduceva e cominciava a trafficare con qualcosa sotto il cruscotto.
Mi avvicinai al ladro, sbigottita; e un’idea cominciò a prendere corpo nella mia mente. C’era un modo, mi chiedevo, per compiere uno di quei peccati che si diceva fossero tanto potenti da distruggere gli uomini? Se fossi riuscita a compierne uno, sarei finalmente scomparsa?
I giorni successivi li passai a mettere a punto un piano. Scoprii di non avere alcuna paura di ciò che mi potesse attendere, ma questo non mi preoccupava quanto la possibilità di un fallimento. Perché se avessi fallito, allora cos’avrei fatto? Sarei stata condannata a vagare sola per le strade, per sempre?
Non sarei mai riuscita a sopportarlo. Sarei impazzita, di certo. Ma, dopotutto, perdere il senno poteva pur sempre essere una delle possibilità; chi perde il senno non ha coscienza di se stesso, giusto?
Mi ritrovai a provare piacere in quelle fantasie. Meglio non esistere che esistere in questa maniera.
Ma era un piacere sbagliato, una perversa felicità che in realtà non mi dava alcuna serenità. La mia anima, solitamente così grande  e luminosa, divenne piccola e fredda come un fastidioso cubetto di ghiaccio incastonatomi nel petto.
Le nuvole si addensarono sopra di me, e io seppi che era in arrivo un altro temporale. Il clima si era fatto gelido…
La prima goccia di pioggia raggiunse proprio il mio avambraccio, e lì s’infranse.
Plic.
Anche lei era fredda. Lasciava una scia gelida sul mio braccio mentre ci scivolava attorno.
Spalancai gli occhi; il ritmo del mio respiro, reso più frenetico dallo stupore, si condensò in tante nuvolette bianche che mi svolazzarono intorno vaporose per meno di un attimo.
Possibile che io…?
Mi alzai in piedi di scatto dalla panchina sulla quale ero seduta e per un attimo barcollai nel percepire quanto fosse forte la sensazione del terreno sotto i piedi, sensazione che prima non mi era mai sembrata che un fastidio appena accennato.
La pioggia s’intensificò e inzuppò i miei capelli, incollandomeli al volto; ci volle qualche secondo perché capissi che i denti che stavano battendo erano i miei.
Davvero era sempre così dolorosa la pioggia?
«Oh…»
Sentii il passo frenetico della corsa su un terreno bagnato, e un paio di braccia calde e forti avvolgermi nel momento esatto in cui io mi lasciavo sopraffare da tutte le sensazioni datemi da un corpo che non avevo mai avuto. Il freddo, soprattutto, era quasi insopportabile.
Lo riconobbi, l’uomo dolce dallo sguardo triste, che io avevo deluso come avevo deluso me stessa.
«Non ti preoccupare, vai… davvero, vai…» …perché, forse, se troverò un modo per uccidere il mio corpo, allora scomparirò anche io.
Fu come se me l’avesse letto in faccia.
«Oh no, Aurora, no… Com’è possibile che tu pensi cose simili…» mormorava mentre mi stringeva.
Dovevo ammetterlo, il suo abbraccio era meraviglioso. Sarei stata rannicchiata contro di lui per sempre.
«Non puoi continuare così.»
Io annuivo.
«Hai ragione, non posso. Per questo è meglio se vai.»
«Non in questo senso!» il suo tono era un misto tra l’attonito e l’indignato. «E’ stato appurato che non si può rimanere lontani dal proprio protetto. Benissimo. Adesso basta però.»
Non capivo cosa volesse dire, dove volesse andare a parare. Quali scelte avevo?
«Torna da Tuomas, ti prego.»
La sua supplica non ebbe su di me l’effetto che avrebbe avuto qualche tempo prima, complice forse anche la mia forma umana, che attutiva e ovattava qualsiasi emozione provassi, facendola arrivare a me come un suono lontano, distorto.
«Questo non è possibile, mi dispiace.» risposi infatti, quasi duramente.
Allora mi staccò da sé quel tanto che bastava per guardarmi negli occhi; il gelo subito giunse famelico a mordere ogni parte del mio corpo, ma non ci badai, persa nel suo sguardo.
«Non protrarre oltre questo dolore. Torna da lui.» Feci per scuotere la testa e obiettare, ma lui mi interruppe subito. «Non devi più avere paura di fargli del male, ora le sue scelte non sarebbero più così tanto condizionate da te. Ora è un uomo.»
Per un attimo quasi non sentii più il freddo, mentre la mia testa si affollava di emozioni contrastanti.
Un uomo? Quel bambino timido e piccolo?
Come avevo fatto a permettere che diventasse un uomo senza di me?
«Quanto tempo è passato?» fu il mio laconico sussurro.
«Tanto.»
«Sta bene?» domandai immediatamente, ecco ritornare quell’apprensione quasi soffocante, eppure fu dolce ritrovarla.
Anche lui se ne accorse, e mi sorrise con tenerezza.
«Sta benissimo.»
Un senso di serenità mi si propagò lungo il corpo, quasi come il tepore dell’abbraccio in cui mi ero stretta solo pochi minuti, era una sensazione che non provavo da troppo tempo.
«Pensi che potrei… solo per un attimo… incontrarlo?»
«Tu desideri rivederlo?»
Non potei che annuire, con un groppo in gola di confusa emozione. Sentivo il viso farmisi caldo, bollente rispetto al resto del corpo, ma non ebbi tempo per rifletterci sopra, perché lui mi prese subito per mano e mi condusse con sé.
Era tutto come l’incredibile notte in cui era nato, la notte in cui avevo cominciato a vivere, ad avere coscienza di me e del mondo… Chiusi gli occhi, abbandonandomi e affidandomi a lui mentre, come allora, il desiderio di vederlo e conoscerlo – un’altra volta – sovrastava qualsiasi altra cosa avessi potuto provare.
 
  
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