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Autore: Euachkatzl    02/07/2013    2 recensioni
“Black window of la porte? Ma non è quella…”
“Sì, Tico, è quella che tu non riesci a suonare neppure su Guitar Hero” gli rispose Richie, un po’ pentito di avermi preso in giro, ora che stavo suonando perfettamente una delle canzoni più difficili che avesse mai sentito.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Thank you for loving me,
For being my eyes
When I couldn’t see,
For parting my lips
When I couldn’t breathe,
Thank you for loving me

 
Dopo lunghe riflessioni, lunghi interrogatori, qualche bevuta e, lo ammetto, un paio di canne, decisi che sarei stata la chitarrista di supporto dei Bon Jovi e nient’altro. Non la nuova fiamma di Richie, di Jon, di chiunque fosse. Io sarei stata la chitarrista di supporto dei Bon Jovi che collaborò nell’ Old Glory Tour 2013. Tutto qui.
Con questa idea in testa passai il primo mese di prove, ignorando gli sguardi ammiccanti di Jon e quelli tristi di Richie. Ma la costanza è sempre stata una mia pecca. Le diete, i buoni propositi di inizio anno, tutto va a quel paese con me. Difatti, dopo quel mesetto passato con solo una metà del letto disfatta, bussai al pesante portone di casa Sambora. Richie venne ad aprire subito, facendomi poi entrare cortesemente, senza chiedermi il motivo per il quale fossi lì o per il quale non lo avessi minimamente degnato d’attenzione per un mese. Attraversammo l’atrio e ci fermammo in salotto, dove mi sedetti sul divano. Rabbrividii rivedendo il pianoforte nero all’angolo della stanza, il coperchio alzato che mi faceva venir voglia di risuonare Hallelujah, di tornare tra le braccia di Richie e restarci per sempre. Ma le seghe mentali non hanno mai fatto bene a nessuno, quindi scacciai quella assurda nuvola di pensieri e mi concentrai sul perché mi fossi presentata a casa di Richie alle 11 del sabato sera. Già, perché? Non riuscivo a trovare un motivo neppure io, semplicemente avevo sentito il bisogno di andarci. Perché quando ascoltando la tua musica preferita non riesci a svuotare la mente, devi mettere a posto un paio di cosette nella tua vita.
Misi a fuoco Richie, seduto in silenzio davanti a me, intento a guardarmi negli occhi. I miei docili occhi grigi, in netto contrasto coi capelli rossi tinti di fresco. Jon mi aveva fatto una bella ramanzina per quel cambiamento improvviso di colore: mi aveva spiegato che dovevo creare un’immagine, che non potevo cedere al primo schizzo che avevo, roba così. Francamente, non me ne è fregato niente. Volevo cambiare e l’ho fatto, un rosso fuoco decisamente audace spiccava adesso attorno al mio viso pallido. “Volevo ringraziarti” dissi, rompendo il silenzio che l’aveva fatta da padrone per troppo tempo. Per un dannato mese durante il quale avevo vissuto con la testa bassa e gli occhi chiusi, evitando di vivere, concentrandomi sull’unica cosa che credevo fosse la cura, ma che invece era la malattia: la musica.
“Ringraziarmi?” chiese Richie, confuso. Il suo sguardo duro si era distorto, lasciando spazio a una faccia sorpresa, di cui lui avrebbe volentieri fatto a meno. Era pronto a una battaglia, e nel vedermi così debole la sua reazione era più che giustificata.
“Sì. Non ti ho mai ringraziato davvero” proseguii “Mi hai fatto amare di nuovo la musica, mi hai dato l’occasione di suonare con i Bon Jovi, ti sei fidato incondizionatamente di me. Come sono andate le cose dopo è un altro discorso, io volevo ringraziarti per questo”
“E sei arrivata fin qui solo per rinfacciarmi quanto io sia stato stupido?” rispose Richie, con un tono amaro. Si alzò dalla poltrona per poi sedersi nuovamente, vicino a me. Avvicinò il suo viso al mio, le mie guance cominciarono ad assumere lo stesso colore dei capelli. Non sono mai arrossita, ma in quel momento lasciai il mio viso scaldarsi, pensando unicamente al ricordo delle labbra morbide di Richie, che si mossero lentamente, senza produrre alcun suono, ma scandendo un’unica, semplice parola che per me fu come un urlo in una chiesa. Affilato, improvviso, gelido. ‘Vattene’. Obbedii a quella parola, a una parola che non era neppure stata pronunciata, solo mimata. Mi alzai con gli occhi carichi di odio. Mi aveva detto di andarmene. Dopo che avevo abbandonato definitivamente il mio orgoglio, tutte le barriere che ci separavano. Barriere che lui era riuscito a ricostruire piuttosto velocemente. Ammirevole. Mi venne voglia di urlargli tutti i pensieri che si erano affollati nella mia mente in un mese, ma mi resi conto che le uniche cose che avevo pensato di Richie erano solo dolcezze. Niente insulti, niente difetti. Solo cose belle, che tre sillabe erano riuscite a sgretolare, forse senza via di ritorno.
 
Sprofondai nel mio cuscino e inspirai forte il mio profumo. Il mio. Perché non c’era quello di nessun altro a mescolarvisi. Sentivo una pura fragranza di mimosa, che non avevo permesso a nessuno di sporcare. L’orgoglio è una brutta cosa, ti rende cieco e ti convince di essere sulla buona strada, anche se in realtà stai andando verso il fondo. Mandai a fanculo tutto e accesi lo stereo a tutto volume. Sentii i battiti dei vicini sulla mia porta: era pur sempre l’una di notte. Senza curarmene molto, entrai in doccia e accesi l’acqua fredda, tentando di lavare via dagli occhi le labbra di Richie che si muovevano dicendomi ‘Vattene’. Neppure l’acqua gelida riuscì però a togliere il sapore amaro che ormai si era impresso sulla mia pelle, sul mio cuore. Avevo bisogno di qualcosina di dolce, di una coccola sincera. Presi in mano il telefono e scrissi un messaggio semplice semplice, di quelli che però ti lasciano a bocca aperta. “Domani sera sono da te”. Destinatario: Fefè.
 
Arrivai all’aeroporto di Milano verso le 8 di sera, presi il primo treno per Treviso e in un paio d’ore mi ritrovai a destinazione. Uscii e rividi Treviso, uno dei miei più grandi amori. Non è che sia sta figata di città, ma le esperienze più belle le ho avute qui. Qui ho conosciuto la Fefè, qui ho dato il mio primo bacio, qui ho fatto il mio primo concerto. Tutto qui, in una città di neanche 90mila abitanti. Presi il bus numero 55, che mi portò davanti al palazzo dove c’era la mia vecchia casa. Cominciai a salire le scale, notando che in più di un anno non era cambiato nulla: l’intonaco alle pareti era ancora scrostato, le scale di marmo erano scivolose come sempre; prima o poi qualcuno si sarebbe ucciso lì. In sostanza, era rimasto un buco di posto. Appartamento numero 549: sulla porta c’era ancora inciso ‘The seventh house’, la settima casa. Mi spuntò un sorriso malinconico sulle labbra: eravamo davvero pessimi. Aprii la porta, mai chiusa a chiave, e salutai forte, non vedendo nessuno nel piccolo salotto color bianco panna. Una ragazza dai capelli blu spuntò da dietro una porta e mi guardò di sbieco. “Ma sei deficiente?!” mi urlò appena appoggiai le borse per terra avvicinandomi a lei. La guardai, basita. Aprii la bocca per controbattere ma non ne ebbi il tempo. “Hai un tour coi Bon Jovi tra un mese e tu torni qui, in questo buco di posto? Ma sei diventata scema? Mi rompi le palle con Jon e tutto il resto da quando avevi quindici anni e adesso te ne torni qua? Vedi di prendere il primo aereo e tornare in America, tu in questa casa non ci rimani”
“Cazzo, calmati. Che è, sei isterica?” le urlai, irritata. Un anno che non ci vediamo e appena entro in casa mi sbatte fuori. “Sono tornata perché cercavo qualcuno che mi potesse ascoltare, ma vedo che non è qui” Uscii sbattendo la porta, lasciando le borse sul pavimento esattamente dove la avevo appoggiate. Sapevo benissimo da chi dovevo andare. Le valigie non mi sarebbero servite.
 
“Ciao, Edo” salutai stupidamente, senza aspettarmi una risposta. Mi sedetti per terra, sulla pietra fredda del cimitero. “Ho una scaga assurda a stare qui a quest’ora, ma volevo qualcuno che mi ascoltasse. Senza parlare, senza contraddirmi. Ho fatto una cazzata dietro l’altra per troppo tempo, devo fermarmi a pensare. Me l’hai insegnato tu: togli le mani dalla chitarra, prendi un respiro… Ricomincia. La situazione adesso è un po’ più grossa di un assolo fatto male, ma credo che fermarsi possa far bene lo stesso” Sospirai, rendendomi conto che stavo parlando con una tomba bianca, con un sasso con su scritto Edoardo Prada. La sua foto era contornata da una cornice dorata, il suo viso era sorridente. Era uno scatto bellissimo, me lo ricordavo perfettamente. Viaggio in Inghilterra, davanti all’O2 Arena. “Un giorno suoneremo qui” aveva detto Edo, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Foto immancabile davanti all’edificio, foto che ora era attaccata alla sua lapide. ‘Be passionate. Always.’ era la frase che gli avevo dedicato, scritta in un delicato corsivo appena sotto la foto. Mi alzai e feci per andarmene, ma non ci riuscii: era troppo tempo che non andavo a trovarlo. Era troppo tempo che desideravo parlargli e, visto che questo era l’unico modo, non mi restava altro da fare. Tornai a sedermi davanti a lui e presi una boccata dell’aria fresca della notte. “Mi sono trasferita a Perth Amboy, sai? Dopo anni e anni che ti rompevo con questa storia, l’ho fatto davvero. Ho anche conosciuto i Bon Jovi. Sono diventata la loro chitarrista. Mi sono innamorata di Richie. Ho baciato Jon. Ho fatto un mese di prove col gruppo per fare un tour. Strano come i sogni di una vita si avverino tutti in una volta, mettendoti in un casino assurdo. Tra un mese dovrei essere a Lisbona, su un palco a coronare l’ultimo desiderio ancora non avverato: il concerto coi Bon Jovi. Ma a questo punto mi chiedo se farlo o no. Se è meglio avere rimorsi o rimpianti” Dopo questa frase mi bloccai: tempo fa a una domanda del genere avrei risposto subito ‘rimorsi’, senza pensarci due volte. Ora però non ne ero più così sicura. Rimasi in silenzio, fissando il bellissimo sorriso di Edo, i suoi capelli biondi sparsi al vento. Poi mi alzai e uscii dal cimitero, tornando all’appartamento numero 549.
Trovai Fefè seduta a tavola, mentre picchiettava nervosamente le dita sul legno chiaro, sul quale era appoggiata una bottiglia di birra mezza vuota. “Scusami” mi disse, senza girarsi, quando sentì i miei passi avvicinarsi. Si voltò e mi osservò. “Bei capelli” disse infine, con un sorriso timido “Non ti ho mai sopportata bionda”
Le andai incontro e la abbracciai forte, lasciando scorrere le lacrime lungo le guance. “Torna in America” mi sussurrò, come se sapesse perfettamente tutto quello che era successo lì. “Hai risolto casini ben più grandi di quello in cui sei ora. Hai passato momenti per cui chiunque sarebbe andato fuori di testa. Hai suonato con le unghie che sanguinavano, hai cantato quando ormai avevi perso la voce. Non credo ci sia qualcosa che tu e la tua testa di cazzo non possiate superare”
“Mi sei mancata” dissi, tra i singhiozzi che si facevano sempre più insistenti.
“Anche tu” rispose lei, nascondendo il suo viso tra i miei capelli. Non ne sono sicura, ma una lacrima deve averla versata pure lei, anche se sapevo che non lo avrebbe mai ammesso.
 
La mattina dopo, ripartii per l’America. Fefè era riuscita a convincermi un’altra volta. Era una delle poche persone che ascoltavo quando mi davano un consiglio, e ogni volta mi accorgevo di aver fatto bene. Fefè, prima o poi ti farò santa.
Rividi il cartello con scritto Palm Spring Road e sorrisi: mi sentivo un po’ stupida, ero tornata in Italia convinta di non rivedere più Perth Amboy e il giorno dopo ero di nuovo lì. Entrai e fui accolta con un urlo di Jon: “Juju! Dove cazzo eri finita?”
“Niente, non ha importanza” risposi, confusa. La mia mente era intenta a ripetere il discorso di Fefè, come se fosse stato un mantra. ‘Non c’è nulla che io e la mia testa di cazzo non possiamo superare’. Presi la chitarra dalla custodia e cominciai le prove, sotto lo sguardo di rimprovero di Jon, che non si era certo accontentato della mia risposta.
 
Infatti, dopo quell’oretta e mezza durante la quale ero riuscita a suonare completamente Wild is the wind (sì, mi sentivo un fottuto mito), il biondo mi fermò e mi chiese di parlare. Rimanemmo soli in quella stanza, triste come sempre, con le pareti di un bianco così immacolato da star male. “Dove sei stata ieri? Sinceramente. Ti ho chiamata miliardi di volte e non mi hai risposto, non eri da nessuna parte”
“Sono tornata a casa” risposi tranquilla, come se attraversare due volte l’oceano per fare solo una chiacchierata fosse la cosa più normale del mondo. Jon  non mi chiese altro del giorno prima, forse a causa della mia faccia che si era improvvisamente intristita o forse perché l’argomento che stava per affrontare lo interessava di più.
“Non ci ho provato con te solo per portarti via da Richie. Te l’ho già detto, ma te lo ripeto, io sono innamorato di te. Mi piace cantare sapendo che sei vicino a me, anche se tu non mi vorresti nemmeno vedere. Mi piace sentire la tua presenza e basta. Mi piace sentire il tuo profumo, anche da lontano. Mi piaci da morire”
Rimasi immobile davanti a quella dichiarazione. Mi tremavano le gambe, le ginocchia sembravano incapaci di reggere il mio peso.
“Un ultimo bacio?” propose Jon, che aveva capito perfettamente che i miei sentimenti non combaciavano con i suoi. Avvicinai semplicemente le mie labbra alle sue, posandole delicatamente. Gli accarezzai i capelli, iniziando a mordicchiargli il labbro inferiore: mi sentivo una troia, ma era pur sempre Jon Bon Jovi l’uomo che avevo tra le mie braccia. Le nostre lingue si incrociarono, le nostre mani esplorarono il corpo dell’altro, curiose ma delicate, a tratti con una presa forte e a tratti con delle carezze quasi impercettibili. Le mie labbra carnose scesero verso il suo collo, strappandogli un sussulto di sorpresa. Tutto era cominciato come l’ultimo bacio, ma diventò qualcosa di più grande. Fu comunque l’ultimo, ma ne posso sentire ancora i brividi.
 
Nota dell’autrice:
ciaoooooo, sono tornata :33 Tutto il casino sembra essersi risolto: Richie ha detto chiaro e tondo a Juju che non la vuole più vedere, Juju ha chiuso tutto con Jon. (Bel modo per chiudere) ;)
Vabbè, credo che il prossimo capitolo arriverà abbastanza presto, ho un’ideuzza che mi gira in testa ;)
Baci baci, Euachkatzl <3    
  
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