Solo un
avviso prima della lettura: se siete come me e leggete sempre le parole finali
prima del resto, non fatelo. Miraccomando. Né leggete la quinta nota della storia senza esserci davvero arrivati: spooooiler. :D (no seriamente, non fatelo!)
Meet me Halfway
Pt. 2
A Sherlock non sono mai piaciute le vacanze. Le trova
un’inutile perdita di tempo, perché non riesce a capire come mai si abbia
bisogno di qualche settimana di pausa
a Natale. Perché non una settimana, come tutte le altre interruzioni
dell’anno[1]? È una festività? A lui non risulta. Nessuno in casa ha mai
festeggiato qualcosa di cattolico, tantomeno il Natale. Certo, ci sono sempre
stati dei ricevimenti particolari, in quell’occasione, ma Sherlock ha sempre
pensato che sia perché gli altri festeggiano e che quindi, per non
sfigurare, i suoi genitori abbiano
seguito la massa.
A Sherlock non può importare di meno.
Sono quattordici giorni che non vede John. Il
diciassette dicembre si sono salutati con quel che non si può definire un
buonissimo rapporto, e da allora ha piovuto ogni maledetto giorno, con la
temperatura che si aggirava attorno ai due gradi, e poi ci sono state le
vacanze di Natale.
E ora Sherlock si sta preparando in camera sua per il
grande ricevimento della notte di Capodanno, e tutto ciò a cui riesce a pensare
sono le parole di Mycroft: “Il fatto che tu non partecipi ancora alle serate
d’elite non vuol dire che non ci sono”. Il suo primo grande ricevimento d’elite avverrà questa sera.
Sherlock si chiede spesso perché non è nato in una
delle famiglie comuni dei suoi ex compagni di classe. Forse ciò avrebbe anche
portato lui ad essere normale, ma a
quel punto Sherlock scuote la testa. Non vuole essere normale.
---
Sono passati venti giorni da quando si è visto per
l’ultima volta con John.
Si specchia nella sua camera e osserva la figura nello
specchio rivolgergli uno sguardo imbronciato, mentre si liscia la giacca nera e
il colletto bianco della camicia sottostante.
Quegli abiti sono da uomini adulti, e Sherlock è
costretto ad indossarli anche lui – su misura, ovviamente – quel giorno.
Continua a tenere il volto corrucciato anche quando sua madre lo fa chiamare
per scendere: la cena è pronta. Quest’anno Sherlock è riuscito ad ottenere di
non festeggiare, in questo particolare giorno: un grande ricevimento gli è
bastato, tante grazie. Ha proposto
lui stesso quella soluzione: festeggiare la notte di Capodanno anziché il sei
gennaio, giorno in cui compie dodici anni. Eppure, crescere di un anno va
rimarcato in ogni caso, infatti Sherlock non è riuscito ad evitare il completo
elegante, ma perlomeno sarà in famiglia e basta.
Perlomeno, il tutto finirà ad un orario accettabile
perché il giorno dopo riesca ad alzarsi in orario per andare a scuola.
Scende le scale dirigendosi verso la sala da pranzo con
un solo pensiero in testa: il giorno seguente vedrà John. La sua indipendenza è
il più bel regalo che possa essergli fatto.
---
Sherlock cerca di non accelerare il passo, il giorno
successivo, ma farlo gli costa un impegno mentale notevole: le sue gambe
vogliono prendere il controllo sulla sua mente, per portarlo vicino a John
prima del necessario. È strano, per lui, voler vedere così tanto una persona e
ciò lo spaventa, perciò cerca di tornare ad essere impassibile come sempre,
almeno nelle apparenze: lo aiuta a restare calmo.
In ogni caso arriva all’incrocio di John – da quando ho iniziato a chiamarlo in questo
modo? – prima del solito, e John è visibile in lontananza, qualche angolo
dopo. Sherlock sorride vedendolo avvicinarsi sempre più velocemente: è
senz’altro lui, la camminata inconfondibile e il solito cappello di lana sulla
testa. Stesso giubbotto, stesse braccia strette attorno al busto. Sente un calore
espanderglisi al centro del petto, che ha
sperimentato poche altre volte in vita sua – e tutte dovute a John – e il
sorriso gli si allarga. Gli è mancato così tanto.
Si accorge di essersi fermato più del necessario –
l’incrocio è sgombro, non c’è nessuna scusa per non passare subito – e subito
si volta in avanti, deciso ad attraversare. Riesce ad arrivare al marciapiede
opposto, quando lo vede con la coda dell’occhio, a sinistra, un riverbero brillante
che non dovrebbe esserci. Si volta in quella direzione ed ispeziona con lo
sguardo l’incrocio e i dintorni: non c’è nessuno, la strada è praticamente
vuota. Sherlock continua a camminare lentamente per non dare nell’occhio a
possibili passanti o possibili auto
passanti, ma guardando fisso a sinistra, preoccupato. Può giurare di aver visto
qualcosa di lucente muoversi, molto velocemente, e non gli piace. Vuole essere
certo che tutto vada bene. Ma d’altronde, non c’è nulla sul lato sinistro della
strada, e non appena si rilassa, prima ancora di pensare di voltarsi indietro a
cercare John, si sente spingere in avanti e leggermente verso sinistra, due
braccia sulle spalle e una risata famigliare a riempirgli le orecchie.
John.
Si volta verso destra col sorriso sulla faccia e lo
stesso calore di prima nel petto e appena osserva il viso di John che ride, ad
una distanza così prossima, gli manca il fiato. I muscoli del viso si stirano
automaticamente in un largo sorriso, che coinvolge pure gli occhi, e le braccia
si muovono sole a circondare la vita di John quanto più possono: John ha lo zaino, e le braccia di Sherlock non
riescono a fare un giro completo, perciò si aggrappa ad esso, con forza, mentre
le braccia di John lo premono contro di lui per le spalle.
John continua a ridere e Sherlock non si è mai sentito
così bene in vita sua. Inspira profondamente all’altezza del cuore di John e
sente il respiro di quest’ultimo sulla sua spalla sinistra, lì dove John ha
nascosto il viso. La risata sta scemando e i respiri di John si fanno sempre
più pesanti, mentre si preme ancora di più Sherlock addosso e cerca di
calmarsi.
Senza accorgersene, Sherlock ha spostato le mani sulle
spalle dell’amico e ora riesce a sentirle: forti, larghe – sicuramente più
delle sue – e tremanti. Sherlock spalanca gli occhi – quando li ho chiusi? – e li sente
più freschi del normale. Quando ho
iniziato a piangere?, non può fare a meno di chiedersi, mentre sente le
mani di John tremare assieme alle spalle e il respiro di John essere diventato
sempre più frenetico.
John
sta piangendo, e Sherlock sente distintamente il vento
fresco negli occhi, e tutto questo come è
successo?
« Dio, mi sei mancato così tanto » il sussurro spezzato
di John lo distoglie dai suoi pensieri. Sente il respiro di John farsi sempre
più frenetico e può intuire le sue lacrime, e si impone di resistere, capendo
di non riuscirci quando si accorge di avere la vista sfocata. « Così tanto, Sherlock
» continua John, con una voce sempre più bassa e spezzata.
Sherlock può sentire ora il rantolare di John e senza
che lui abbia consciamente pensato di parlare sente la sua voce rispondergli «
Anche tu, John » un sussurro, per non spezzare quel clima intimo, caldo.
Caldo.
Sherlock spalanca gli occhi a quel pensiero. Ripensa a John che cammina tutto
infreddolito per le strade di Londra, da solo, quell’unico giorno in cui lo ha
visto mentre passava in macchina, e si ricorda di aver voluto riscaldarlo semplicemente
abbracciandolo.
Non poteva prevederlo, ovviamente – una parte della sua
coscienza ancora intenta ad analizzare e catalogare quelle sensazioni che un
abbraccio dà, e a decidere quanto quel suo primo abbraccio sia piacevole –, ma
la sensazione di calore che sente gli conferma che sì, quel giorno avrebbe
potuto riscaldarlo con il solo aiuto del suo abbraccio.
John allaccia le braccia attorno il collo di Sherlock
ancora di più e borbotta qualcosa che Sherlock interpreta come scuse. Sherlock
preme forte John contro di sé per un istante, prima di allontanarlo
leggermente, sempre con le mani sulle sue spalle. John cerca di nascondergli lo
sguardo ancora nella sua spalla e quando Sherlock lo allontana delicatamente,
prendendogli la testa tra le mani, si arrende e solleva il viso, guardando a
terra.
« Scusami » sussurra John, mentre con le mani si
asciuga le lacrime dalle guance.
Sherlock lo guarda, gli occhi che riescono a mettere a
fuoco sempre meglio, e gli stringe le mani sulle tempie. Non ha mai visto così
John, e non sa come comportarsi. Lui non è bravo in quelle cose, nei sentimenti.
« John? » prova a chiamarlo, la voce sottile.
« Scusami » ripete John, un po’ più padrone di sé ora.
Ha ancora gli occhi lucidi, ma almeno le lacrime hanno smesso di scendere. «
Non capiterà più ».
« Va tutto bene » dice Sherlock, sottolineando il
concetto con una presa più salda delle mani, sempre gentilmente.
Si guardano negli occhi per vari secondi, calmi, e
Sherlock non riesce a non pensare a quanto siano belli, così blu, resi più
accesi dal leggero velo di lacrime ancora presente in essi. A poco a poco torna
l’ironia negli occhi di Sherlock e John non può far altro che notarlo: sospira,
e finalmente anche i suoi tornano ad essere gli occhi giocosi di sempre.
« Okay » dice, sorridendo.
Sherlock sorride a sua volta. Che bello vederti sorridere, John. Resta così sempre.
La voce di John lo distoglie dai suoi pensieri. « Ehm,
Sherlock, puoi anche lasciarmi andare il viso, sai » dice esitante, ma gli
occhi lasciano trasparire tutto il divertimento celato in quelle parole: ecco
di nuovo John. Non appena capisce il senso di quelle parole, subito lo lascia
andare, arrossendo fino alla punta dei capelli e voltandosi immediatamente
davanti, riprendendo a camminare. Non si era minimamente reso conto di stargli
tenendo il viso, era uscito così naturale e spontaneo che non aveva preso
coscienza del gesto effettivo, e di quanto fosse non da lui.
Maledizione,
si ripete Sherlock, mentre accelera il passo per allontanarsi da John. Quest’ultimo
sta ridendo a crepapelle e Sherlock può giurare che si stia tenendo la pancia,
anche se non lo riesce a vedere.
Dopo qualche minuto sente John dietro di sé che ancora
ridacchia, e decide di accelerare di più il passo per allontanarsi ancora,
tornando rosso, con un broncio visibile da chilometri di distanza.
« Andiamo, non correre! » lo apostrofa John, quando
riesce a dire una frase intera senza che venga interrotta dalla sua stessa
ilarità.
Sherlock lo ignora, continuando a camminare davanti a
lui, ma non riesce a fare a meno di sorridere, nel sentire l’altro felice.
« E dai, broncio,
rallenta! » lo provoca John, conscio che così dicendo Sherlock si fermerà per
rispondergli a dovere. Infatti, appena sente quel nomignolo, Sherlock si gira e
lo fissa: sguardo assassino, guance in fiamme, socchiude gli occhi. « Cammino
velocemente perché siamo in ritardo, genio! » sibila, per poi continuare « E mi
chiamo Sherlock, non “broncio”! » marca bene quell’ultima parola e John,
sentendola con la vocina sottile di Sherlock – con la vocina arrabbiata di Sherlock che vuole essere
grossa e autoritaria ma che in realtà è comunque sottile – non può impedirsi di
ricominciare a ridere.
Sherlock si volta indignato, deciso a non fermarsi più
né ad aspettarlo né a girarsi, e si sente affiancato da John. Probabilmente si
è messo a correre per riuscire ad arrivargli vicino.
Sherlock comunque non ha intenzione di parlargli e John
dopo qualche minuto riesce finalmente a smettere di ridere. « Okay, okay, hai
ragione, la finisco! » si arrende, alzando le braccia come se fosse colpevole.
Bene,
pensa Sherlock, finalmente. Continua
però a restare nel suo mutismo, per ripicca.
John se ne accorge e scuote la testa sorridendo e
basta. Continuano a camminare in quel silenzio piacevole: era mancato ad
entrambi tutto ciò, e non volevano rovinarlo per nulla al mondo.
Una decina di minuti dopo inizia a piovere e Sherlock
si porta automaticamente le mani dietro lo zaino, tentando di aprirlo e
prendere l’ombrello in quel modo, con scarsi risultati. John lo nota e,
sorridendo, scosta le mani di Sherlock da lì. « Lascia, faccio io » dice.
Sherlock lo lascia fare – si fida totalmente di lui – e
incrocia le braccia al petto, aspettando. È sempre John a tenere l’ombrello,
che sia il suo o quello di Sherlock.
Non passa molto tempo quando Sherlock sente la pioggia smettere
di bagnarlo. Nota con la coda dell’occhio che John non si avvicina come è
solito fare quando porta l’ombrello, e anzi, sembra quasi che si sia man mano
allontanato di proposito. Sherlock non si volta verso di lui continuando a guardare
davanti a sé, ma pensa alle possibili spiegazioni: John è arrabbiato o imbarazzato
per qualcosa, oppure la sta facendo apposta per farlo avvicinare. Riflette.
Quando si è offerto di prenderlo non ha mostrato segni di disagio o di
seccatura, quindi non è arrabbiato o imbarazzato. Potrebbe aver visto qualcosa
nel suo zaino in grado di fargli cambiare umore in così poco tempo? Decisamente
no: i libri e i quaderni non hanno questo potere. Scarta quindi la prima opzione.
Maledetto.
Sherlock rimane nella sua posizione a braccia
incrociate e broncio anche quando John si allontana ancora, incurante di
bagnarsi. Non la darà vinta a John. Quest’ultimo alla fine, esasperato, ride e
gli si avvicina, circondandogli le spalle con un braccio mentre lo stringe a
sé. « Va bene, hai vinto tu. Contento? » gli dice, sorridendo.
Sherlock non può fare a meno di arrossire nel sentirsi
avvolgere le spalle dal braccio di John, ma cerca di rimanere nella sua posa
per quanto possibile. Alla fine però cede anche lui, sciogliendo la presa,
rilassando le spalle e accostandosi a quella sinistra di John, sorridendo. È
molto più comodo così. « Ovvio che avrei vinto io » non riesce a trattenersi
dal dire. E John ride.
---
Va avanti in quel modo per qualche mese. Le settimane
sparse di vacanza sono sempre noiose,
e Sherlock non vede l’ora di tornare. A volte piove, ed è costretto ad andare
in auto. Quando succede John capisce che non verrà e, nonostante sia
dispiaciuto da una parte, dall’altra è contento perché quell’idiota ha meno
possibilità di ammalarsi.
Non litigano più. Dopo aver sperimentato cosa volesse
dire non vedersi per ventuno giorni sapendo di non essersi lasciati in buoni
rapporti, non osano più bisticciare, quasi a voler evitare di passare un altro
periodo di distacco così lungo con la stessa sensazione. Ma d’altronde, non si
creano più potenziali occasioni per litigare.
---
Un giorno di fine aprile, al rientro da una settimana
di pausa, Sherlock aspetta John al loro angolo per più di dieci minuti, e
quando capisce che non verrà gli si chiude lo stomaco, e si avvia verso la
scuola quasi correndo.
Non c’è neanche al ritorno, quel giorno, né i
successivi giorni.
Sherlock continua a ripetersi ogni volta che
probabilmente è solo un’influenza, l’influenza di primavera, che passerà
subito, ma poi il giorno dopo non lo vede comparire e si preoccupa sempre di
più.
---
È l’otto maggio quando Sherlock, aspettando i soliti
cinque minuti all’angolo, lo vede avanzare verso di sé, sorridendo.
Finalmente.
Sherlock non riesce a controllare i muscoli del viso, che si tendono da soli ad
aprirsi in un sorriso enorme, e si impone di restare fermo, nonostante voglia
andargli incontro con tutto se stesso. Questa volta non riesce a distogliere lo
sguardo dall’amico sempre più vicino, come fa di solito. Il sollievo e la
felicità nel rivederlo gli fanno dimenticare che quella è una strada pubblica –
anche se a quell’ora vuota: non è tra le principali della città ed è poco
frequentata – e senza pensarci due volte inizia ad andargli incontro, prima
piano, poi accelerando il passo sempre di più, finché si ritrovano faccia a faccia,
fermi in mezzo la strada, trenta centimetri a dividerli.
Il sorriso dalle labbra di Sherlock è svanito, così
come quello di John. Entrambi si guardano negli occhi, trovandoci dentro la
certezza di un amico.
Rimangono in quella posizione per quelli che sembrano
minuti, ma che in realtà sono secondi scanditi solo dal silenzio. E poi Sherlock
si avvicina a John e gli cinge il collo con le mani. Si solleva sulle punte e
lo abbraccia, nascondendo il viso nell’incavo tra collo e spalla, e lo stringe
di più a sé mentre sente John portargli una mano dietro la schiena e una sui
riccioli, accarezzandoli piano.
« Sherlock … » sussurra John, e la voce gli trema. Non
ha mai visto Sherlock reagire in quel modo, non l’ha mai visto abbracciarlo.
Sherlock a quel richiamo si stacca immediatamente da
John, quasi tornando in sé, e sorride all’amico. Un’occhiata perplessa di John
è tutto ciò che gli serve per aprirsi ancora di più nel sorriso e sbuffare,
indicando con un cenno del capo la via per la scuola. « Faremo tardi, su,
sbrigati! » è quello che riesce a dire, prima di incamminarsi all’indietro, lo
sguardo sempre rivolto verso l’amico.
John rimane un attimo perplesso prima di decretare che
camminare in quel modo è decisamente pericoloso e di muoversi, andandogli
incontro. « Va bene, va bene, ho capito. Sto venendo. Voltati normalmente ora »
dice John, preoccupato che l’altro possa cadere, ma incapace di non sorridere.
Sherlock non vuole perderlo di vista. Non dopo non
averlo visto per così tanto tempo, di nuovo. Continua a guardarlo e a camminare
in quel modo, e gli fa la linguaccia.
Non si aspetta che John si metta a correre
all’improvviso però, e viene preso alla sprovvista quando inizia ad aumentare
il passo, con un nuovo sguardo: ora è una sfida, John sta scherzando, e
Sherlock non potrebbe esserne più felice. Accelera anche lui camminando
all’indietro, stando bene attento a non andare a sbattere contro qualche muro,
e torna a fare la linguaccia a John, questa volta chiudendo gli occhi.
John ride, e in un attimo si è avvicinato di due metri
buoni. A quel punto, Sherlock si gira e inizia a correre come si deve, ridendo
anch’egli, girando all’angolo della ormai “loro” strada e guardandosi indietro
di tanto in tanto. John lo rincorre, ma non ci vuole molto a Sherlock per
capire che non sta sfruttando la sua potenza al cento per cento: lo avrebbe già
raggiunto, a quel punto.
Sherlock gliene è grato, perciò si ferma qualche minuto
dopo, girandosi indietro per aspettare John. Per un secondo vede il solito
luccichio, ma è troppo felice per preoccuparsi di ciò che possa essere, in quel
momento.
« Forza, lumaca! » lo apostrofa Sherlock, e John lo
guarda inclinando il capo – un’inversione di ruoli, per una volta.
« Lumaca? Ma senti un po’ questo! » ribatte John, e
Sherlock ride ancora. Ora sono fianco a fianco, e si girano, incamminandosi
lentamente – la corsa ha fatto guadagnare loro un po’ di tempo in più –, col
fiato ancora corto per quella corsa improvvisata.
« Sì, sei una lumaca, oppure un bradipo. A te la
scelta! » continua Sherlock, consapevole che John sia rimasto indietro per
fargli piacere, ma avido nel prendersi quella piccola soddisfazione personale.
Dopo tutte le volte che John l’ha preso in giro, questo è nulla.
John, d’altro canto, non può scoprirsi: ammettere di
aver lasciato andare avanti Sherlock equivarrebbe all’ammettere di essere forte
fisicamente ma debole interiormente, in quanto non ha avuto cuore di umiliarlo anche nella corsa: sebbene
Sherlock sia più piccolo, ha un orgoglio molto grande, e per questo John l’ha
semplicemente rincorso. Quindi, questa volta è il turno di John di farsi rosso
e di indignarsi, e quello di Sherlock di ridere.
Sherlock gli fa la linguaccia, per la terza volta in
quella giornata, e John si imbroncia ancora di più. « Smettila » borbotta.
Sherlock inizia a ridere e gli fa la linguaccia, di nuovo. « Smettila! »
esclama John, e Sherlock non può trattenersi dal prendere la sua personale
vendetta.
« Dopo tutte le volte che lo hai fatto tu, non ho certo
intenzione di smettere adesso! » risponde a tono.
John lo guarda in cagnesco. L’aria fiera e soddisfatta
di Sherlock gli fanno rilassare la postura, e semplicemente lo osserva,
l’ironia negli occhi quasi palpabile. È così spensierato, così felice, e semplicemente non resiste. Gli prende
la testa tra le mani e Sherlock smette di ridere, e quando John è sicuro di
avere la quasi completa attenzione
del più piccolo, lo porta velocemente vicino a sé lo bacia sul naso, gli
occhioni blu ora dolci incollati agli azzurro grigio sorpresi di Sherlock.
Si stacca praticamente subito, e la reazione di
Sherlock è qualcosa di impareggiabile. Rimane paralizzato dov’è, con gli occhi
spalancati che risaltano ancora di più nella pelle del viso ormai di un colore
rosso intenso, e la bocca leggermente aperta a formare un piccolo cerchio. Lo guarda
sbigottito e imbarazzato e John non può fare a meno di ridere a quella vista. È
riuscito a zittire Sherlock: un’altra piccola vittoria.
La risata di John scema man mano che passa il tempo, e
viene rimpiazzata da un largo sorriso dolce e quando capisce che Sherlock non
si sarebbe mosso ancora per un po’, inizia a camminare per conto suo e si volta
indietro solo dopo qualche passo.
« Allora, pulce, vieni o rimani lì tutto il giorno? »
chiede John, sorridendo in direzione di dell’amico. Questo sembra riaversi
parzialmente dalla trance, e segue John quasi automaticamente, la bocca ora
chiusa ma il viso ancora rosso, e non lo osa guardare negli occhi. Inaspettato, lo cataloga infine la mente
di Sherlock. Sgradevole? No. Quasi … Piacevole.
A questo pensiero spalanca ancora di più gli occhi, ma non ha voglia di lottare
contro i suoi sensi, non questa volta. Quindi, si affianca a John in silenzio e
rilassa un po’ i lineamenti del viso.
John da parte sua è completamente sereno e passa un
braccio sopra le spalle di Sherlock, portandoselo vicino. L’altro è sorpreso da
quel gesto, ma non gli da fastidio – complice il pensiero di poco prima,
suppone – perciò non si muove. È un piacevole calore quello che John emana, e gli
si stringe addosso, felice di poter semplicemente stare con lui.
Dopo qualche minuto, Sherlock si volta verso di lui e
sorride un poco. Vede John voltarsi curioso a guardarlo e il sorriso si allarga
un po’ di più. « Come stai, John? » chiede, con il sorriso sulle labbra, ma
John può quasi toccare con mano la serietà e la preoccupazione nella voce di
Sherlock.
« Sto bene, adesso » risponde, sincero. Sa che mentire
con Sherlock non porta da nessuna parte – e poi non ne ha motivo –, ed inoltre
questo sembra aver già capito il motivo della sua assenza, quindi opta subito
per la verità.
« Per quanto tempo hai avuto la febbre? » chiede
Sherlock. Non è difficile intuire il perché dell’assenza di John, ma per il
periodo avrebbe potuto solo tirare ad indovinare.
« Undici giorni » risponde John, e torna a guardare
davanti a sé. « Dal ventisei. Dev’essere stata
l’influenza primaverile » spiega.
Sherlock annuisce. Poi pensa a tutto il tempo passato
senza vedere John e un paragone gli si forma da solo in testa, facendolo
sorridere ironicamente. Vede John guardarlo inclinando la testa, e coglie al
volo l’occasione per prendersi una piccola rivincita. « Alla fine sei tu ad
esserti ammalato, non io! » dice, a mo’ di scherzo e dispetto.
John lo spinge con il fianco e sorride. « Sono contento
che sia successo così e non il contrario ».
Sherlock lo guarda sorpreso. No, non riuscirà mai a
capirlo. « E per quale motivo? » domanda, interessato.
John lo guarda e pensa per un secondo alla risposta. «
Perché un ragazzo di tredici anni è più abile a superare un’influenza di uno di
undici anni! » dice, come a prenderlo in giro.
Sherlock a quel punto mette su un broncio esagerato,
teatrale. « Non è vero! E comunque dodici, non undici! » dice, orgogliosamente.
Ci vogliono cinque secondi di silenzio da parte di John per rendersi conto di
aver detto involontariamente che da quando si erano conosciuti fino ad allora
Sherlock ha compiuto gli anni.
John lo guarda sorpreso, prima di esibirsi in una
faccia offesa. « Ma come dodici? E non mi hai detto niente! » esclama,
staccandosi da Sherlock e aumentando un poco il passo.
Sherlock rimane interdetto per qualche istante. Perché mai John ha reagito così? Il
compleanno è stato mio, non suo. Non può incolparmi di essersi dimenticato il
suo compleanno. Pensa che le persone normali si fanno gli auguri, festeggiano, ma continua a non capire.
Per lui, il compimento dei dodici anni ha segnato l’inizio della partecipazione
alle serate di gala, e non è stata di certo una bella cosa.
Forse
voleva farti gli auguri, gli suggerisce la sua mente e
Sherlock aggrotta le sopracciglia. E
quindi?
« John? » lo chiama, ma questo continua a guardare
davanti a sé. Sherlock riesce a capire che oltre la facciata esagerata, John ci
è rimasto davvero un po’ male e non riesce a capirlo. « John? » riprova.
Questo sbuffa e non si volta.
Sherlock si imbroncia – poco, non vuole tirare troppo
la corda – e si avvicina di più a John, tirandolo per la manica del giubbotto.
« E dai, mi dici cosa ti ho fatto? » chiede.
John non da segni di voler rispondere e Sherlock si
imbroncia un po’ di più – e questa volta non la fa apposta, gli viene naturale
e basta. Lo tira di nuovo per la manica, e inizia a ripetere “E dai, e dai, e dai”
finché John non si gira di scatto verso di lui e lo interrompe. « Ohi, quando
ti ci metti sai essere davvero rompi palle! » esclama John, semi divertito semi
serio.
Sherlock è contento che almeno si sia girato. « … Dai?
» chiede speranzosamente, e a quello John scoppia a ridere forte, tanto da
tenersi la pancia dopo qualche minuto. Sherlock incrocia le braccia al petto in
un nuovo broncio e John a quella vista ride ancora più forte, facendo arrossire
Sherlock di frustrazione. « Sei impossibile » borbotta.
John lo guarda incredulo, qualche risata ancora a
scuotergli il petto, finché non inspira profondamente tre-quattro
volte per calmarsi. « Io sono
impossibile » annuisce, marcando il pronome personale. Detto ciò, un’altra
scarica di ilarità lo colpisce e ridacchia ancora un po’.
« Quando ti deciderai a smettere di ridere e a dirmi
cosa ti ho fatto non sarà mai troppo presto » borbotta Sherlock, fisso nel suo
broncio. Non può evitare di notare, però, quanto John non ci stia pensando già
più di tanto e si rilassa impercettibilmente.
Dopo un altro minuto John torna padrone di sé e si
avvicina a Sherlock, mentre camminano. Quindi, dopo un lungo sospiro, inizia a
parlare. « Sherlock, mi hai tenuto nascosto il fatto che tu abbia fatto il
compleanno » dice, e scuote la testa.
Sherlock aggrotta le sopracciglia, girandosi a
guardarlo. « E quindi? Per quanto ne so, pure tu potresti averlo fatto »
ribatte.
« Io sono nato il sette agosto[2] » risponde subito
John, fissandolo di rimando. Sette agosto,
segna mentalmente Sherlock. John continua. « Non mi hai detto nulla, e sappi
che ci sono rimasto male » conclude, tornando a guardare la strada.
« Questo l’ho notato, grazie mille » borbotta Sherlock
a bassa voce, voltandosi a guardare la strada. Quando si rende conto di ciò che
ha detto, però, spera che John non abbia sentito. Si gira e vede John guardarlo
male, e capisce che sì, l’ha notato. Ops.
« Ma non capisco perché » dice subito, cercando di distogliere l’attenzione
dalla sua frase precedente.
John decide di lasciar correre la prima frase,
sospirando poi quando capisce che Sherlock è sincero, che non ha veramente idea
del perché se la sia presa tanto. Un compleanno.
Ma
dove ha vissuto finora?
Non può far altro che domandarsi. Sospira di nuovo e con calma inizia a
parlare. « Se tu me l’avessi detto ti avrei fatto gli auguri, avremmo passato
più tempo insieme e ti avrei comprato un regalo » spiega. Sembra rifletterci un
attimo e poi si illumina. « Ma il regalo posso fartelo comunque! »
Sherlock aggrotta le sopracciglia, tentando di capire.
Passi il fare gli auguri – a casa glieli fanno tutti, e non sopporta tutti quei baci sulle guance –, ma come può aver
pensato che avrebbero potuto passare più tempo insieme in vacanza, e soprattutto, un regalo?
Scuote la testa. « John, non avremmo potuto passare più tempo insieme in
vacanza e non capisco come ti sia venuta in mente l’idea di volermi fare un
regalo » scuote la testa di nuovo. Regali
di compleanno, regali di compleanno … Deve aver letto qualcosa che non gli
fa sembrare questo accoppiamento del tutto inverosimile, però non ha elementi
di sua mano per giudicare.
John sgrana gli occhi. « Ma come “come ti è venuto in
mente”? » chiede incredulo. « Sherlock, è quello che la gente fa agli amici nel
loro compleanno » dice, come se fosse ovvio. « E anche ai conoscenti, ai
parenti, e a tutti coloro che li invitano alla propria festa » dice, dopo
averci riflettuto un istante.
Sherlock è ancora più perplesso. « Non capisco come si
possa invitare qualcuno ad un compleanno, e sono poche le cose che non capisco
» dice Sherlock, la fronte aggrottata nel tentativo di venire a capo di ciò che
ha appena detto John.
John, che lo sta guardando tra lo sbigottito e
l’incredulo. « Stai scherzando? » domanda, alzando le sopracciglia.
« Sto parlando seriamente, John » afferma Sherlock,
come se fosse ovvio.
L’amico si volta e alza le braccia in segno di resa,
sbuffando un sonoro “Mi arrendo”. Subito dopo si rigira verso Sherlock: sa che
è meglio spiegare, prima di essere bombardato di domande finché non lo farà
comunque per esasperazione. Si intravede già la scuola, e non ci tiene proprio
a lasciarlo col dubbio fino a pomeriggio. « Mai sentito parlare di “festa di
compleanno”? La serata dove inviti tutti i tuoi amici e ti diverti, dove ti
danno regali e mangiate insieme …? » spiega John. Vedendo Sherlock fare
spallucce si arrende al pensiero che no, non lo sa. « No? Nulla? » chiede, in
un ultimo tentativo.
« Tutto qui? Noioso » risponde Sherlock. « E no, mai
sentito parlarne » finisce.
« Ma dove vivi? » chiede John, spontaneo.
« A casa mia » risponde pronto Sherlock. Quella
risposta dovrebbe già bastare, a John.
Subito si pente di averlo detto, John, e abbassa gli
occhi. « Scusa. Non volevo insultarti, o insultare la tua famiglia » dice, a
bassa voce. Ormai sono quasi arrivati.
« Ma è vero » risponde Sherlock, con uno sguardo
limpido. Vedendo che John non si volta, gli tocca il braccio, piano. « John.
Non preoccuparti » dice solo, non sapendo bene cosa fare.
A John sembra bastare, almeno un poco, e si volta verso
Sherlock, guardando quei ricci scompigliati dalla corsa e quel visino così
innocente, e sorride. Gli passa una mano tra i capelli e se lo porta vicino,
stringendolo un attimo, prima di lasciarlo andare e girare verso la scuola
pubblica.
Sherlock rimane per un istante fermo al suo posto, con
il viso leggermente arrossato, e poi sorride, avviandosi verso la sua scuola. A pomeriggio.
---
Qualche giorno dopo, John gli porta il regalo di
compleanno, scusandosi per il ritardo: un piccolo portachiavi a forma di
trifoglio[3], non troppo grande per essere notato a prima vista, ma abbastanza
per incastrarci un dito in ogni foglia.
Sherlock lo rimprovera che non doveva, ma gli piace
talmente tanto che lo attacca subito alla fibbia del pantalone, sorridendo a
John, ringraziandolo con lo sguardo.
Da quel giorno, lo incastra sempre in una fibbia del
pantalone, in modo da coprirlo con la maglia in casa. Non se lo dimentica mai.
---
Il giorno dopo, Sherlock porta a John uno dei suoi due
portachiavi: un gatto nero stilizzato. Spiega a John che i suoi genitori si
sarebbero insospettiti se avesse chiesto di uscire – non lo fa mai – e che la
scelta è caduta su di esso in base al colore del gatto: nero come i suoi
capelli, in modo che John sappia sempre a chi apparteneva.
John è troppo felice e stupito dal gesto di Sherlock
che non gli fa notare il piccolo particolare che il suo compleanno sarebbe
stato solo fra qualche mese. Non gli chiede neanche il perché di tanta
segretezza – non lo fa mai, dopo che Sherlock gli ha fatto capire chiaramente,
un giorno, di non insistere sull’argomento –, semplicemente, lo allaccia ai
pantaloni e ringrazia Sherlock, tirandoselo addosso per le spalle e appoggiando
la testa sui suoi ricci, sorridendo. Gli promette che lo indosserà sempre, ai
pantaloni, proprio come Sherlock.
Entrambi non si accorgono del luccichio che appare
sempre più spesso.
---
È il quindici luglio, quando Sherlock lo viene a
sapere.
Non riesce a rimanere impassibile davanti al padre e
alla madre – Mycroft è in camera sua – e il viso gli si contrae in una smorfia
dolorosa. Non piange, non dice nulla per non tradire la voce: semplicemente
sale in camera sua, correndo, si chiude la porta a chiave alle spalle e si
butta sul letto, togliendosi le scarpe alla bell’e meglio solo quando è già
sopra.
Inspira ed espira velocemente, lasciando che siano solo
lacrime silenziose a sfuggirgli dal suo autocontrollo, anziché singhiozzi.
Lo sapeva. L’aveva saputo sin dall’inizio.
Ed adesso rimpiange solo il non avere un cellulare – se
solo i suoi genitori gli permettessero di averne uno –, una sola persona a
riempirgli i pensieri: John.
---
Dal giorno dopo, negli occhi di Sherlock c’è una
malinconia che John non ha mai visto prima. John pensa che sia perché Sherlock
sa che la scuola sta per finire – dieci giorni ancora – e non chiede. Sa che ad
agosto non avranno tempo per vedersi, dato che i genitori di Sherlock, così
come i suoi, non sanno nulla della loro amicizia, ma è solo un mese. È
rincuorato dal pensiero che mancherà così tanto a Sherlock, seppure per così
poco tempo. John sa che a lui Sherlock mancherà allo stesso modo, perciò non fa
domande, si limita solo a stargli più vicino, fisicamente.
Più passano i giorni, però, più Sherlock si incupisce. Il
ventotto, John non ce la fa più a vederlo in quel modo, e, avvicinatosi a
Sherlock e passatogli il braccio sul collo – un’abitudine, adesso – si china un
poco e gli domanda: « Sherlock, va tutto bene? ».
Sherlock non risponde, si limita ad annuire e a
continuare a camminare.
Sapendo quanto l’altro sia suscettibile quando si parla
di sincerità sui sentimenti, John non lo contraddice. Si limita a stringergli
un po’ le spalle e a mormorare: « Dai, sarà solo per un mese, o poco più ».
Sherlock si volta a sinistra, dall’altra parte rispetto
John, per celargli gli occhi lucidi di lacrime. Non riesce neanche ad annuire,
questa volta.
Nonostante la vista offuscata, però, riesce a
riconoscere il luccichio metallico ormai familiare. Sherlock si impone di non
girarsi verso John a chiedere se anche lui l’avesse visto: non vuole mostrarsi
debole. Perciò ingoia le parole, resta in silenzio e continua a camminare.
---
Sono le otto meno cinque e Sherlock esce di casa. È
l’ultimo giorno di scuola, e il giorno prima è rimasto d’accordo con John di incontrarsi
prima del solito. Hanno anche deciso di saltare la scuola, quell’ultimo giorno.
John non ne era entusiasta, ma quando ha sentito Sherlock annunciargli con
tanta gravità e tristezza che sarebbe stato meglio così, che “dovevano
parlare”, a John sono sembrate inutili le sue motivazioni, e ha accettato.
Una volta arrivato al solito angolo, Sherlock si gira
per vedere John arrivare con un passo più frettoloso del solito, e nota la preoccupazione
sul suo viso non appena lo scorge. La mia
faccia deve essere un disastro se sta facendo preoccupare John, pensa.
Cerca di sorridergli, ma smette di provarci immediatamente: appena ha sollevato
gli angoli delle labbra, gli occhi hanno iniziato a pizzicargli
fastidiosamente.
Respira un paio di volte per mantenere il controllo di
sé e fa qualche passo in direzione di John. Man mano che sia avvicina,
quest’ultimo sgrana sempre di più gli occhi, rallentando di conseguenza il
passo. Sherlock aggrotta le sopracciglia quando nota che quello negli occhi di
John è puro terrore, e no, non è lui la causa di quell’espressione sul viso
dell’amico. Ora John è immobile al suo posto, e sta osservando Sherlock – no,
qualcosa alle spalle di Sherlock – con occhi sgranati, mentre trema. Sherlock
soppesa le opzioni in mente per un secondo: cosa può essere? Quella strada è
sempre deserta, tranne che per …
Sherlock si volta dietro di lui con uno scatto, e la
visione che gli si para davanti è raggelante. Un uomo biondo, alto e vestito di
nero gli è vicinissimo, la sua muscolatura imponente immobile, e gli dedica
solo un’occhiata cinica prima di rivolgersi a John, sorridendo. « Sali » dice
solamente, e la sua voce è così fredda e calma che Sherlock ne ha paura – per
la prima volta in vita sua prova un genuino terrore.
John è immediatamente affiancato da un furgone bianco
da macellaio, e nello stesso istante le porte di dietro si aprono. Un uomo
vestito di bianco scende con noncuranza dal mezzo e va a posizionarsi davanti,
affianco al guidatore. L’uomo vestito di nero non accenna a muoversi, ripete
solo il suo ordine: « Sali ».
« Lascialo stare » dice subito Sherlock, e l’attenzione
dell’uomo si sposta su di lui. Lo sguardo penetrante dell’uomo è ora fisso nel
suo. Sherlock spera di non mostrare
alcun segno di terrore, mentre continua a parlare. « John, torna a casa », dice
perentorio.
A quel punto, l’uomo alza il braccio muscoloso verso di
lui e una mano guantata mira al collo di Sherlock, prima che questo si sposti
indietreggiando. L’uomo con uno scatto gli è davanti e gli afferra la testa con
la mano sinistra mentre la destra si posa attorno al collo, stringendolo.
John, a quel gesto, sussulta visibilmente, gli occhi
incollati alla nuca di Sherlock, e subito sale sul furgone, cercando di non far
agitare di più l’uomo che ora tiene Sherlock in pugno, letteralmente.
Sherlock ora ha gli occhi spalancati e cerca di
liberarsi dalla presa dell’uomo, inutilmente. « Lasciami andare » riesce a
sussurrare col fiato corto.
L’uomo lo scruta dall’alto al basso, prima di
annunciare: « Non prendo ordini da un Holmes » e spingerlo con malagrazia verso
il furgone. Sherlock nota il fatto che l’uomo conosca il suo cognome, e si
chiede come mai. Non riesce a liberarsi dalla sua presa salda, e con John
dentro neanche lo vorrebbe.
Una volta salito raggiunge immediatamente John e gli si
accoccola addosso, stringendolo. John non reagisce più di tanto, lo stringe
solamente, protettivo, mentre lo sguardo rimane fisso all’angolo sinistro
dell’abitacolo: un uomo vestito con jeans sdruciti e una maglia di cotone a
giro maniche li sta osservando, le mani sulle ginocchia, e non sembra incline a
perderli di vista per un istante.
Dopo qualche minuto, John sente Sherlock tremare
impercettibilmente. Sa che tutta la sua precedente spavalderia era dovuta
all’adrenalina, ma una volta che questa abbandona il corpo non rimane altro che
lo shock, e la paura. Lo stringe a sé, facendogli distogliere lo sguardo
dall’uomo nell’angolo, e gli posa le labbra sui ricci, fissando un punto
indefinito al di là di Sherlock. « Stai tranquillo, ti porterò fuori di qui »
sussurra John al suo orecchio, stando attento affinché l’uomo non lo senta.
Sherlock si stringe di più a lui e non parla, annuisce
impercettibilmente e basta. John gli passa la mano tra i ricci e poi la porta
dietro la schiena, premendolo di più a sé. La vergogna nel provare paura o la
riluttanza nel mostrarsi spaventati in quel momento li abbandonano, e si
aggrappano all’unica cosa certa in mezzo a quel furgone.
« Fate proprio una bella coppia » commenta
improvvisamente l’uomo vestito in jeans, e i due sussultano. La voce ha un
misto di incredulità e disprezzo, e a John fa ribollire il sangue nelle
viscere. Perché sta succedendo a noi? Non
può non chiedersi.
John può sentire il battito di Sherlock sotto le dita,
lo sente respirare per calmarsi, e John fissa l’uomo nell’angolo con astio e
sfrontatezza. « Che cosa volete da noi? Cosa vi abbiamo fatto? » gli domanda,
rabbioso.
L’uomo sorride e basta, un lampo di cattiveria gli
passa attraverso gli occhi e non dice nulla. In quel momento si sente il mezzo
fermarsi, e John stringe di più Sherlock, mentre un’ondata di paura gli si
diffonde addosso.
Nessuno viene ad aprire, né l’uomo sembra intenzionato
a muoversi o a parlare. Passano i secondi, poi i minuti, e nessuno osa spezzare
quel silenzio in cui l’abitacolo è sceso. Sherlock sta ancora respirando a
scatti, ma il silenzio surreale lo porta ad affinare l’udito, e il respiro di
John lì vicino sembra essere un punto fisso a cui aggrapparsi. Sincronizza il
suo respiro con quello di John, cercando di mantenere il ritmo e di rallentare
i battiti del cuore.
Dopo quel che sembra un’eternità si accorge di essersi
calmato, di respirare più normalmente, perciò allenta la presa attorno a John. Quest’ultimo
si rilassa un poco nel sentire la tensione scivolare via dal corpo dell’altro, sebbene
la paura dell’incertezza sia ancora lì in mezzo a loro.
Infine, dopo quelle che sembrano ore – ma che in realtà
è stata solo mezz’ora –, la porta viene aperta da fuori e l’uomo in jeans
rimane seduto lì mentre li guarda. « Dopo di voi » dice solo, e aspetta che
John aiuti Sherlock ad alzarsi per alzarsi a sua volta.
Una volta scesi, non fanno a meno di notare che sono
ancora a Londra – ma d’altronde il viaggio è durato troppo poco affinché
possano essere usciti fuori città. Si trovano nel quartiere dove ci sono anche
le loro scuole e, osservando meglio, sono in una traversa di quella che riconoscono
come la via principale: la “loro” via. Più avanti nella strada una vetrina aperta
– probabilmente un’entrata per un garage –
sembra star aspettando loro. Si guardano per il più breve degli istanti prima
che l’uomo in jeans tossisca e distolga la loro attenzione dall’ambiente. «
Avanti, avete capito che dovete entrare di vostra spontanea volontà, non fatemi
far sì che debba minacciarvi » sospira, dietro di loro.
I due si guardano ancora una volta, entrambi
spaventati, e John annuisce, decidendo per entrambi che sì, meglio fare le cose
di loro spontanea volontà. Si incamminano quindi verso il garage, seguiti
dall’uomo.
Varcano la soglia della spessa vetrata opaca, e si
trovano davanti ad un muro: devono proseguire a destra per qualche passo, in
una specie di corridoio di due metri di lunghezza. Appena svoltano a sinistra,
si ritrovano davanti ad uno spazio vuoto dalle dimensioni di una stanza
moderatamente grande. Attaccato alla parete sinistra c’è un tavolo bianco con
tre sedie, e a destra nulla. Sul muro in fondo è presente una piccola porta
marrone, chiusa.
Sherlock si guarda attorno spaesato, in quanto non ha
mai visto una “casa” di quel genere, e John non distoglie lo sguardo dalla
porta marrone.
« Fate come se foste a casa vostra » dice ironicamente
l’uomo in jeans, prima di uscire dalla porta principale e chiuderla a chiave.
Appena John sente chiudere la porta inizia ad urlare «
Ehi! Non potete lasciarci qui! ». Si avvicina alla porta e inizia a prenderla a
pugni, continuando a gridare alla volta dell’uomo che è appena uscito – e che
non può sentirlo.
Continua in quel modo per qualche minuto, finché
Sherlock non gli va vicino e gli prende un braccio, calmo. « John, lascia
stare. A giudicare da quanto è spessa questa vetrata immagino non ci senta
nessuno » mormora rassegnato, contrastando con le urla di John.
Quest’ultimo smette di battere alla vetrata e si volta
verso Sherlock, guardandolo in viso, con un’espressione di rabbia e
disperazione. « Dici che è un garage per feste per bambini insonorizzato? »
chiede.
Sherlock annuisce lentamente e si volta verso l’interno
della casa quando sente i suoi occhi iniziare a pizzicare. Respira
profondamente per calmarsi, e butta il suo zaino malamente sul tavolo,
afferrando una sedia. « Alla fine non siamo andati comunque a scuola » commenta
ironicamente, sedendosi.
John lo guarda stranito. « Ed hai intenzione di
startene lì seduto e non provare a scappare, o chiamare la polizia? » domanda
allibito.
Sherlock alza l’angolo destro della bocca in un pallido
tentativo di sorriso. « Non ho un cellulare e dubito che riusciremo a sfondare
quella porta, o la vetrata » dice calmo. La rassegnazione inizia a farsi strada
in lui strisciando, silenziosamente. « E poi, John, sii realistico. Quante
possibilità abbiamo di uscirne vivi, dato che ci hanno fatto vedere anche le
loro facce? » domanda Sherlock, e man mano che parla la voce si fa più acuta. «
Se fosse un rapimento con riscatto avrebbero usato qualcosa per coprirsi, o ci
avrebbero bendati. Non credo si siano posti il problema della segretezza perché
semplicemente non avremo occasione per denunciarli » continua, sempre più
velocemente. « Inoltre conoscono il mio cognome » finisce, guardando fisso
davanti a sé. Non si accorge che John si è mosso fino a ché non lo sente
posargli una mano sulla spalla, e allora sussulta vistosamente, il respiro che
accelera sempre di più.
« Sherlock … » sussurra John, notando quanto l’altro
sia scosso.
Sentendo il suo nome, Sherlock non può impedire alle
lacrime di offuscargli la vista, e inizia a tremare. Respira profondamente
tentando di calmarsi, ma ottiene solo giramenti di testa e la vista offuscata.
Si aggrappa fortemente al braccio di John, ormai l’unica certezza – quanto poco ci resta? – e lo stringe
convulsamente, facendolo abbassare, gli occhi spalancati.
John prende una sedia e gli si mette di fronte, lascia
lo zaino sul tavolo – affianco quello di Sherlock – e gli prende la testa tra
le mani, obbligandolo a guardarlo. Sherlock lo fa, ed entrambi si scrutano a
fondo, John più tranquillo di Sherlock – ha l’aria di uno che non si è ancora
rassegnato. « Sherlock, usciremo di qui. Te lo prometto » sussurra, convinto.
Sherlock scuote la testa ma non distoglie lo sguardo da
quello di John. « No, non fare questo tipo di promessa. Non è colpa tua e,
anzi, probabilmente è solo colpa mia e tu ti sei trovato al posto sbagliato nel
momento decisamente sbagliato » dice Sherlock con voce spezzata, ricordandosi
il suo cognome nella voce dell’uomo vestito di nero. « Moriremo, ed è solo
colpa mia » dice infine, guardando in basso, sconfitto. « Non avresti mai
dovuto rivolgermi la parola », ed è appena udibile.
John gli fa sollevare lo sguardo, premendo con le mani
ai lati della testa di Sherlock, obbligandolo a guardarlo negli occhi. Il suo
sguardo è fermo, sicuro. « Preferirei morire piuttosto che non averti mai
conosciuto » dice lentamente, facendo imprimere nella memoria di Sherlock
queste parole. « Quindi smettila di dire che è colpa tua – perché poi? –, o che
non avrei mai dovuto incontrarti » conclude, sicuro di sé, e Sherlock si sente
ancora più piccolo, più fragile.
« Ha detto il mio cognome, conosce me, non te »
risponde a bassa voce.
« E chi ti dice che non conosca anche me? » ribatte
subito John.
Sherlock sospira. Presentimento.
Non lo dice, si limita ad avvicinarsi a John e a guardarlo negli occhi. La
sicurezza di John fa rilassare Sherlock di pochissimo, ma è già un buon
risultato.
Passano qualche minuto di silenzio in quel modo prima
che Sherlock sospiri e si riaddrizzi, sistemando la
sedia affianco quella di John, di spalle contro il muro davanti l’entrata –
nell’angolo sinistro vicino al tavolo. Sospira e posa il capo sulla spalla
destra di John.
Sono le loro ultime ore assieme e non sanno cosa dirsi.
Il silenzio è perfetto, non ci sono frasi imbarazzanti o inopportune.
Semplicemente ascoltano i respiri altrui e gli altrui battiti, e sono felici di
poter restare da soli per un po’. Ancora per un po’.
Verso le due di pomeriggio un rumore alla porta li fa
sobbalzare entrambi. Si raddrizzano immediatamente, rendendosi conto di essersi
avvicinati fino a ché Sherlock non gli era praticamente addosso, il viso quasi
sul petto di John e le mani sulla sua pancia. Il cuore di entrambi batte più
velocemente, ora, e si scambiano un’occhiata carica di panico, prima di vedere
l’ombra di un uomo entrare dal corridoio.
È di carnagione chiara, con i capelli scuri – tendenti
al nero – e alto poco più di un metro e ottanta. Indossa dei pantaloni beige
aderenti e una maglia marrone, appena visibile sotto la giacca di una tonalità
di marrone più scura. Dimostra poco più di cinquanta anni, e sembra un uomo
assolutamente normale.
Appena li vede, sorride entusiasta. « Oh, ma bene! »
esclama all’improvviso, esaltato, negli occhi un lampo crudele. La sua voce è
profonda e sferza la quiete nella quale se ne stavano Sherlock e John, che
sussultano. « Cosa abbiamo qui, vediamo … » inizia a parlare, avvicinandosi a
loro. Prende la terza sedia e la fa girare velocemente, portandola davanti a
loro e sedendocisi sopra, ad un metro di distanza. «
Un piccolo Holmes ed il suo… » osserva John dalla
testa ai piedi, perplesso. « Amico? Questa è una grande conquista per la sua
razza » l’ultima parte della frase è quasi una considerazione tra sé e sé.
Sherlock si irrigidisce, e John gli prende la mano,
cercando di calmarlo. Sa esattamente cosa passa per la testa al più piccolo, in
quel momento – ‘conoscono me, non te,
visto?’ e ‘sì, è un mio amico,
problemi?’ – e lo rassicura silenziosamente: ci sono sempre io.
L’uomo sorride a quella vista – un sorriso malevolo,
tirato – e si raddrizza. Sta aspettando le domande.
« Chi sei tu? Cosa vuoi da me? » domanda Sherlock tra i
denti. « Cosa vuoi da noi? » chiede ancora, sempre più scuro in volto.
L’uomo non smette di sorridere. « Oh, dal tuo amichetto
nulla. Si è solo trovato accanto alla persona sbagliata » dichiara, sereno.
Sherlock si irrigidisce ancora di più e sente gli occhi pizzicare, ma non vuole
dargli questa soddisfazione, così inspira velocemente e profondamente. John gli
stringe ancora di più la mano, e spera davvero che l’amico creda alle sue
parole di prima. L’uomo, vedendo quella reazione da parte di Sherlock, scoppia
a ridere. Bastardo, pensa John. « O
almeno, quello era il piano, prima che il mio amico Peter m’informasse di
quanto sembriate legati – oh, a proposito, dovete a lui il mio ritardo. Non vi
volevo di certo far annoiare, ma aveva qualcosa
di urgente da dirmi e da propormi, così “ubi maior, minor cessat” » continua,
rilassandosi sullo schienale. « Che per chi non lo sappia, vuol dire “Gli
impegni minori soccombono di fronte a quelli superiori” » finisce, guardando
John con la testa inclinata in una certa curiosità.
« Lui è intelligente, di certo più di te » sputa
Sherlock, rabbioso, allo sguardo dell’uomo su John.
L’uomo ride ancora, per davvero, prima di sporgersi in
avanti, coi gomiti sulle ginocchia. « Oh, non ne dubito. Per aver attirato l’attenzione
di un Holmes bisogna essere piuttosto intelligenti e interessanti » sottolinea. Guarda John con curiosità. « Vorrei
davvero scoprire, prima o poi, cosa tu abbia di così intrigante » commenta a
bassa voce.
La mano di Sherlock si stringe possessivamente attorno
a quella di John. « Chi sei tu e cosa vuoi da noi? » Sherlock ripete la
domanda, la mascella contratta.
L’uomo torna a rivolgere la sua attenzione al più
piccolo e torna ad appoggiarsi con la schiena alla sedia. « Curioso. E
irritante. Dovevo immaginarlo » sospira. « Ma non ti farò sprecare un altro po’
del tuo prezioso fiato, tranquillo » annuncia, prendendo una pausa. Teatrale, pensa Sherlock.
« Mi chiamo Richard Brook[4]
» inizia l’uomo. Il cuore di Sherlock perde un piccolo colpo all’udire il nome
e il cognome di quell’uomo. Di certo, adesso non hanno alcuna speranza di poter
raccontare questi eventi. La mano di John stringe la sua impercettibilmente. «
Mi hai mai sentito nominare? » chiede, rivolto a Sherlock. « Molto
probabilmente no, sei troppo piccolo per interessarti alla vita serale dei tuoi
genitori … E sinceramente non ti vedo portato » dice, pensieroso. « O forse non
mi hai mai sentito nominare perché non compaio mai nei discorsi dei tuoi
genitori … D’altronde, a loro cosa gliene può interessare di me? Probabilmente
si sono già dimenticati » continua, fissando un punto sopra la parete, parlando
quasi a se stesso.
Sherlock fa mente locale, ma no, non ha mai sentito
quel nome. Ma come fa quell’uomo a sapere così tanto della sua famiglia, e
soprattutto, come li conosce?
La risposta gli arriva qualche istante dopo. « Non
guardarmi così, Holmes. Non ne hai alcun diritto, né ce l’avevano i tuoi l’ultima
volta che mi hanno visto ». Fa una pausa, prima di continuare, guardandoli a
turno. « Sono uno scienziato. Oh sì, sono uno dei migliori scienziati della
Gran Bretagna. Le mie scoperte sono geniali, davvero geniali … Eppure ai tuoi genitori non andavo bene. Bisogna essere
davvero importanti per essere degnati dell’attenzione di un Holmes » continua,
all’indirizzo di John. « Il ché mi fa tornare in mente te … Cosa hai tu di così
speciale? » domanda.
« Smettila di concentrarti su di lui e continua a parlare
» Sherlock riporta l’attenzione su di sé, e Richard lo guarda storto, questa
volta. La mano di John si stringe attorno a quella di Sherlock, cercando di
contenerne l’umore.
« Tu la devi piantare di darmi ordini, Holmes » sibila,
innervosito. « Non hai ancora capito che qui non comandi tu, che non
arriveranno i tuoi maggiordomi leccaculo a tirarti fuori e a comprarti un
microscopio perché sei annoiato? » continua, innervosendosi.
« Scusalo, è sempre molto impulsivo, non intendeva
farti arrabbiare » John cerca di rimediare e Richard sposta lo sguardo su di
lui, interessato.
« Oh, ora capisco. Gli fai da cagnolino anche tu? Ne
devi avere di fegato per sopportarlo, se è sempre così che si comporta »
domanda, divertito.
Sherlock sente qualcosa fargli male al centro del petto
e china il capo, nascondendo gli occhi a quell’uomo sadico.
John si sente chiamato in causa, e non può fare a meno
di agitarsi. « No. Lui è un mio amico, così come lo sono io. Non hai alcun
diritto di parlarci in questo modo, non ti abbiamo fatto nulla di male » dice,
stringendo ancora la mano di Sherlock.
Lo sguardo di Richard diviene più pensieroso,
enigmatico. « Peter aveva ragione. Sembrate davvero affiatati. Okay, ho capito,
niente più battute su voi due, mi arrendo » dice, alzando le mani in segno di
resa. « Siete amici. Okay. Mi sorprendo ancora che un Holmes riesca ad averli,
però non -- ».
Viene interrotto da John. « Basta! È così, che ti
piaccia o no! » sbotta.
Richard lo guarda ora meravigliato. « … lo metterò più
in dubbio » finisce la sua frase, lentamente, guardando negli occhi John. « Sì,
ha carattere. Non male come scelta » sussurra a se stesso.
« Scelta di cosa? E mi vuoi spiegare cosa ti abbiamo
fatto? » chiede Sherlock, impossibilitato a rimanere in silenzio. Se sta per
morire per mano di quell’uomo, vuole almeno sapere il perché.
Richard torna a guardarlo, le sopracciglia aggrottate.
« Sei proprio incontrollabile, ragazzino » commenta, esasperato. « La tua
scelta. Come amico, intendo » spiega.
Sherlock aggrotta la fronte ma si avvicina di più a
John, come a sottolinearne l’appartenenza, e la fierezza di avere un amico come
lui. John lo guarda e non riesce a non sorridergli.
« Oh dio, non mi dite che siete innamorati » esclama
l’uomo con una smorfia, alzando gli occhi al cielo.
Sherlock sta per rispondergli subito di farsi gli
affari suoi, ma viene preceduto da John. « E anche se fosse, c’è qualche
problema? » domanda, sfidandolo.
Richard lo guarda serio. « Ovviamente no. Ma in quel
caso ci perdereste ancora di più, quindi mi auguro per voi che non lo siate »
dice, prima di scoppiare a ridere. « Amore … Che vogliono capirne loro di amore
» riesce a dire, tra un singhiozzo e l’altro.
Sherlock serra la mascella, ma ancora una volta è John
a rispondere. « Ti ricordo che siamo qui. E che stiamo aspettando una
spiegazione » dice, serio.
Brook
ride ancora più forte, tanto da tenersi la pancia, e Sherlock e John non
possono far altro che aspettare che smetta. « Vogliono una spiegazione! Sono
stati rapiti, e vogliono pure una spiegazione! » rantola, mentre cerca di
riacquistare lucidità. « D’accordo, allora » concorda alla fine,
raddrizzandosi, la faccia ancora un po’ rossa. « Per iniziare, qual è il tuo
nome? » chiede a John.
John serra la mascella, non intenzionato a rispondergli.
« Oh andiamo, puoi dirmelo, ragazzino! Di certo non starò a chiederti che
numero di scarpe porti, è per colloquiare meglio » dice Richard.
« John » risponde questo, riluttante. Richard si apre
in un sorriso. « Oh, visto che non era così difficile? John » ripete come ad
accertarsene.
« Non vuoi sapere anche il mio nome? » domanda
Sherlock, offeso per essere lasciato in disparte, sia pure da uno psicopatico.
Richard si rigira verso di lui e lo guarda sprezzante.
« So tutto di te, Holmes. Ti ho pedinato – no aspetta, vi ho fatti pedinare per così tanto tempo che tra un po’ so pure il
numero di passi esatto che fai per arrivare a scuola » risponde, come se fosse
ovvio.
Sherlock sbuffa, ma poi la sua mente si sofferma su una
cosa in particolare: vi ho fatti pedinare.
Gli si illuminano gli occhi a quell’intuizione. « Oh, ecco cos’era quel
luccichio ogni volta! » esclama, alla fine di quest’epifania. Si gira verso
John. « John, non hai notato pure tu, a volte, una specie di luccichio? »
domanda, infervorato.
John ci pensa su per qualche istante, prima di
illuminarsi. « Sì, allora non me lo sono immaginato! L’ho visto spesso di
sfuggita, mentre solo una volta chiaramente » annuisce guardandolo. « L’ho
visto chiaramente il giorno in cui mi hai detto che non potevo dirlo a nessuno,
prima di natale » si ricorda.
« Oh sì, mi ricordo di quel giorno » esulta Richard
sulla sedia, tornando a possedere l’attenzione dei due. « È stato quando avete
quasi litigato » annuisce, guardando Sherlock.
« Ma perché un luccichio? » chiede Sherlock.
« Oh, sai com’è fatta Faye,
molto abile nel nascondersi, ma le piace vestirsi gotica. Probabilmente un suo
bracciale – o anello – deve aver prodotto un riflesso più acuto, qualche volta
» spiega con un gesto della mano, quasi a voler scacciare il pensiero. « Ma la
domanda a cui tu » e si gira verso
John « non hai risposta è questa: perché tutta questa segretezza sulla vostra
amicizia? Scommetto che te lo sei chiesto tante di quelle volte … Sherlock,
caro, perché non lo illumini sulla risposta? » ironizza, pavoneggiandosi.
Sherlock si irrigidisce affianco a John, e diventa
rosso in viso. John se ne accorge, e torna a rivolgersi a Brook.
« Sì, è vero. Me lo sono domandato. Una volta gliel’ho anche chiesto. Ma non me
lo ha voluto dire, e ho avuto la decenza di non chiederlo di nuovo. E se lui
non me lo vuole dire, rispetto la sua scelta, e così dovresti fare tu » dice
John, seriamente. Sherlock raddrizza le spalle, non staccando gli occhi da
quell’uomo. Un bambino che ti impartisce
una lezione di buonsenso, ben ti sta, pensa.
Richard guarda John sorridendo malamente. « Insisto »
dice solamente.
John irrigidisce la mascella. « No. Non lo voglio
sapere » decreta.
« Insisto » ripete Richard, stavolta senza scherzare,
guardando John con malcelata rabbia.
Sherlock sospira. « John, va bene. Tranquillo. Non è
così importante, alla fine » dice, rassegnato. Sposta lo sguardo su John e vede
che lo sta guardando con tristezza e riluttanza, e Sherlock annuisce. « Mio
fratello mi ha espressamente chiesto di non farmi amici » inizia a parlare, con
calma. « Ha detto che sarebbe malvisto
» sputa fuori quella parola, « e che mi avrebbe impedito di frequentare
chiunque. È per questo che non ti ho fatto dire nulla a nessuno, non volevo che
ci fosse anche solo una minima possibilità di non vederci più » finisce, con
tono più basso.
John è sbalordito, non può crederci che una persona sia
in grado di decidere della vita del fratello in questo modo. « Non può avere il
diritto né l’autorità per decidere la gente che
è giusto che tu frequenti o meno » dice, un po’ indignato.
Sherlock sospira. « Il diritto probabilmente no, ma
credimi se ti dico che se avesse scoperto della nostra amicizia avrebbe assunto
un tassista personale per portarmi a scuola » dice, rassegnato.
John sgrana gli occhi, ma non risponde. Al suo posto,
lo fa Richard. « Non sia mai che un Holmes si abbassi ai livelli dei comuni
mortali! » sputa fuori, presente in quelle parole tutto il risentimento che
cova.
Sherlock si volta verso di lui. « Ma si può sapere che
cosa hai contro la mia famiglia, e contro noi due? Non l’ho mica deciso io,
anzi, fosse per me! » quasi gli urla contro, stanco di sentire le sue battutine
sarcastiche su di lui.
Richard lo guarda in volto, attento, serio. Il labbro
sinistro si alza in una pallida imitazione di un sorriso.
« Appunto, ci dici cosa ti abbiamo fatto? Perché tutto
questo? » domanda John, triste, stringendo la mano di Sherlock.
Richard torna a prestare attenzione a John. « Oh, non
mi hai fatto niente, tu. E a dire il vero, neanche l’Holmes qui presente » concede,
guardandolo per un istante prima di tornare a guardare John. « Come mi ha fatto
gentilmente notare il tuo amico, non è stato lui » continua, sovrappensiero. « Ma sai com’è … La sua unica
maledizione è quella di avere il sangue Holmes nelle vene, e la tua » guarda
John « è quella di essere con lui ».
Dopo qualche minuto di silenzio in cui nessuno dei
sapeva bene cosa dire, le mani dei più piccoli strette saldamente l’una
nell’altra, Richard si riscuote dai suoi pensieri e guarda Sherlock. « Prendevo
parte alle serate di gala insieme ai tuoi genitori » inizia a raccontare. « Ero
una personalità importante, uno scienziato tra i migliori in circolazione. Era
risaputo. Però a voi Holmes e ai Trevor non ero mai andato a genio. Mi vedevano
come qualcuno di pericoloso, di pazzo
» dice, sibilando l’ultima parola ed inclinando la testa. « E man mano che
passava il tempo hanno iniziato a non invitarmi più ai ricevimenti che davano
loro. Più passava il tempo, più le altre famiglie iniziavano a vedermi come un
estraneo e, alla fine, nessuno più si è preso la cortesia di invitare quel
povero disgraziato di Brook, che con le sue scoperte
avrebbe potuto far saltare in aria la convinzione della scienza così come la
conoscete e costruire le basi per una nuova tecnologia » continua, amaro. «
Probabilmente, una volta raggiunto il loro scopo, gli Holmes e i Trevor si sono
persino dimenticati di me » finisce.
Sherlock lo guarda fisso in volto. Non se lo aspettava.
« Ma ci siamo trasferiti a Londra solo quest’anno … Certo, pure qualche anno fa
eravamo qui … Quando è successo? ».
« A Londra ancora c’ero, poi vi siete trasferiti a
Manchester e hanno pensato bene di dimenticarsi
di me. O che la distanza Londra-Manchester sia troppo
grande per poter essere percorsa da me.
O quello che vuoi » risponde, aspro.
Sherlock distoglie lo sguardo da lui. « Io non lo
sapevo » mormora.
Richard torna composto, un lampo di cattiveria che
passa attraverso gli occhi. « Oh, non ne dubito. Col tempo ho capito che non
c’è bisogno di essere nella cerchia degli amici degli Holmes, per essere
brillanti » esclama. « E poi ho trovato il modo perfetto per punirli! »
finisce, saltellando sulla sedia in preda all’eccitazione.
Sherlock e John vengono catapultati alla realtà in meno
di un secondo: sono stati rapiti da uno psicopatico, che con tutta probabilità
vuole ucciderli per vendicarsi degli Holmes. Si stringono la mano, ancora una
volta, e rimangono rigidi sulle loro sedie, fissando l’uomo con terrore.
È John il primo a parlare. « Puoi essere migliore di
così, non diventare un assassino » implora con voce sottile. Sherlock riesce a
sentire il battito accelerato del suo cuore attraverso le mani intrecciate, e
non si stupisce che la paura stia prendendo possesso di John. Lui stesso è già
rassegnato. Preferirei morire piuttosto che
non averti mai conosciuto, si ripete nella mente le parole di John, conscio
che non ha il suo odio, ma la sua sincera e leale amicizia, fino alla fine.
Richard Brook lo guarda
sorpreso. « Chi ha parlato di assassinii? » domanda, sinceramente colpito. Poi
spalanca gli occhi. « Oh, ma non ditemi che pensate che vi uccida! » continua.
Non vedendo reazioni da parte dei due se non quella di un minuscolo accenno di
sollievo, scoppia a ridere. « Oh dio! E tu
… » dice, rivolgendosi a John, dopo aver smesso di ridere. « Tu non lo odi,
sebbene hai pensato finora che io stessi per ucciderti a causa sua? Davvero,
davvero sorprendente » commenta, stupito. « Quasi mi dispiace rovinarvi … »
mormora, appena udibile.
Entrambi si irrigidiscono a quelle parole.
Brook
li guarda, assottigliando lo sguardo. « No, non diventerò un assassino solo per
farla pagare agli Holmes. C’è un modo più sottile per farlo » sussurra,
sorridendo.
C’è silenzio assoluto per qualche istante, dopodiché
l’uomo si porta la mano destra nel taschino interno della giacca e ne estrae
una piccola bottiglietta. Due paia di occhi si posano su quell’oggetto, mentre
l’uomo li guarda, divertito. « Ve l’ho detto che sono uno scienziato, no? Uno brillante » sottolinea, sorridendo. Apre
la bottiglietta e ne versa il contenuto in una mano: alcune pillole dello stesso
colore e dimensione fanno bella mostra di loro.
« Cosa sono? » domanda John, non riuscendo a
distogliere l’attenzione da esse. « A che servono? » chiede ancora.
Qualche secondo di silenzio, poi Richard ghigna. « Vi
presento una mia invenzione: le pillole
dell’amnesia » sussurra, con fare cospiratorio.
Il cuore di Sherlock perde un battito, prima di
iniziare la sua corsa furiosa. Quello di John lo segue a ruota. Entrambi hanno
gli occhi spalancati, e stringono convulsamente la mano altrui.
Richard sorride. « Okay, è finito il tempo dei
convenevoli » dice, guardandosi l’orologio. Sgrana gli occhi un momento dopo. «
Per la miseria, le quattro meno venti! Quanto abbiamo parlato? » domanda,
retorico. « Sarà meglio che ci diamo una mossa. Servono venti minuti perché
facciano effetto e dopo un’altra ventina di minuti si perdono i sensi, e
ovviamente, in caso ve lo steste chiedendo, sì, si perdono anche i ricordi dal
momento in cui la pillola smette di fare effetto fino quando si sviene. È come
se i fatti che succedono in quel lasso di tempo non siano mai accaduti, perché
la sede del cervello dove si immagazzinano i ricordi è “insensibile” »
annuncia, rilassato, come se non stesse in procinto di somministrare quel tipo
di farmaco a due ragazzini.
« No … » sussurra Sherlock, il cuore a martellargli
nelle orecchie. « Non puoi farci questo » continua, incredulo.
Brook
fa finta di pensarci su un attimo. « Mm, lasciami pensare … Oh, lo sto facendo!
» esclama, sorridendo come un bambino davanti ai regali di natale.
« Ti prego … » sussurra John, stringendosi a Sherlock.
Gli occhi iniziano a pizzicargli.
Richard scuote la testa. « Non c’è modo di fermarmi »
dichiara, prima di alzarsi ed avvicinarsi a John. Questo si fa più piccolo man
mano che si avvicina, stringendosi addosso a Sherlock.
Quando l’uomo va per porgergli una pillola, Sherlock
scatta in avanti e afferra la pillola, per poi buttarla a terra e pestarla con
il piede, fino a ridurla in briciole.
Richard lo osserva sbigottito, prima di prendere di
nuovo la boccetta e prendendo un’altra pillola. Rimette il contenitore nel
taschino della sua giacca e porta la mano libera nell’interno destro della
giacca, prendendo una pistola da una delle tasche interne. Gli occhi di
Sherlock si spalancano e John stringe di più la sua mano. L’uomo toglie la
sicura – sempre con una mano – e la punta alla testa di Sherlock. « Per ogni
evenienza, non si sa mai » commenta, velenoso. « Una mossa Holmes, una sola, e quei tuoi begli occhi non
saranno più azzurri ma bianchi e screziati di rosso » sputa, negli occhi una
luce feroce.
John stringe convulsamente la mano di Sherlock, mentre
l’uomo parla. « Okay, okay, dammela, ma non fargli del male, ti prego »
sussurra velocemente, incapace di udirsi a causa del martellare furioso del
cuore contro lo sterno del petto.
Brook
sorride e gli allunga la pillola. John la prende silenziosamente, guardandola e
maledicendola. Non può far altro però, se vuole risparmiare Sherlock, perciò porta
la mano tremante in bocca e ingoia la pillola. « Oh, bravo bambino, così si fa!
» esclama Richard, eccitato di nuovo. Abbassa il braccio con la pistola, togliendo
la testa di Sherlock dalla traiettoria, e torna al taschino sinistro. Prende
un’altra pillola e chiude il tappo, rimettendo la boccetta al suo posto,
dopodiché alza la pistola verso la testa di John e si rivolge a Sherlock,
offrendogli l’altro braccio. « Prego » dice, porgendogli la pillola,
sorridendo.
Sherlock sussulta quando John è preso di mira e afferra
immediatamente la pillola, portandosela in bocca ed ingoiandola, il più veloce
possibile.
Appena vede Sherlock deglutire, sorride e abbassa il
braccio con la pistola. Sherlock si rilassa impercettibilmente. Si avvicina a
John e alza le sopracciglia, in attesa. Il bambino apre la bocca, e dopo aver
controllato che abbia ingoiato veramente, si sposta verso Sherlock, facendo lo
stesso.
« Oh, bravi ragazzi ubbidienti! Così si fa » annuisce
contento. « E ora, vogliate essere così cortesi da raccontarmi la vostra storia.
Sarà l’ultima volta che sarete in grado di dirla, non sprecatela! » continua,
iniziando a ridere. Vedendo che nessuno dei due osa aprire bocca, smette di
ridere ma allarga il sorriso. « Insisto » dice solo, la mano che stringe ancora
la pistola.
Sospirando, John inizia a parlare: non ha senso far
arrabbiare quell’uomo e visto che ormai non hanno più nulla da perdere,
acconsente a quella richiesta strana. Gli dice tutto, dalle volte in cui, non
vedendolo davanti, gli andava a finire contro – perché è così piccolo! – alla litigata prima di natale, il
luccichio, le volte in cui non si vedevano per il maltempo e per le vacanze, i
portachiavi, fino all’uomo in nero di quel giorno, il furgone, e l’attesa.
Tutto. A volte Sherlock lo interrompe per annotare fatti che sfuggivano a John,
o per commentare. Se si dimenticano qualcosa, Richard interviene, amichevole,
ricordandogliela, e loro annuiscono e vanno avanti, fino a ché arrivano alla
fine.
« Ma che storia commovente, degna della prima pagina di
un giornale di cronaca » commenta, fintamente dispiaciuto, mettendo a posto la
pistola.
Sherlock e John digrignano i denti in sincrono. Brook ride, poi si guarda l’orologio. « Le quattro,
perfetto! » esulta, battendo le mani.
Entrambi lo guardano con odio, mentre la consapevolezza
che si dimenticheranno tutto ciò che hanno appena raccontato, tutto della loro
vita, inizia a farsi strada strisciante. Il respiro di John inizia a farsi più
veloce, seguito da quello di Sherlock.
Notando la loro crescente agitazione, Richard ricomincia
a parlare. « Oh, state calmi. La pillola non agisce totalmente, non è così
potente! No, nel momento in cui si rievocano i ricordi, il farmaco procede ad
eliminarne il contenuto dall’ippocampo e dall’amigdala [5]. Non avete perso
tutta la vostra vita, solo la vostra intera conoscenza reciproca! Non è
geniale? » commenta, in estasi.
Gli occhi di Sherlock stanno per schizzare fuori dalle
orbite e John semplicemente scuote la testa, non volendo capire. « No aspetta
un attimo, come sarebbe a dire? Non esistono farmaci del genere » commenta,
scuotendo la testa ancora.
Brook
sorride esultante. « Ma è questo il punto! L’ho inventato io! » esclama.
John continua a scuotere la testa, avvicinandosi sempre
di più alla verità ma non volendola accettare. « No. Non è possibile. Come …?
».
Viene interrotto da Richard. « Vi ho fatto raccontare
la vostra storia nei minimi particolari! Tutto quello che sta succedendo ora
non vi rimarrà impresso, ma perché credi che vi abbia fatto raccontare la
vostra storia subito dopo aver preso la pillola? Per passare il tempo? Non
essere stupido. Vi ho fatto ricordare apposta ogni particolare, compresi i miei
uomini e me! E sai qual è la parte migliore? » chiede, esaltato. John non
riesce a parlare, capisce che tutto ciò che ha detto l’uomo è vero e accadrà, e
la gola gli si chiude ancora, mentre gli occhi iniziano a pizzicare.
Sherlock scuote la testa furiosamente, sapendo già
quello che l’uomo dirà, e si aggrappa a John, iniziando a sentire le guance
inumidirsi di lacrime scese contro la sua volontà. « John » sussurra,
facendogli spostare l’attenzione su di lui.
Non vedendosi calcolato, Brook
continua, spietato. « Nessuno verrà mai a chiedervi che fine abbia fatto il
vostro amico, perché nessuno lo sa » sottolinea
queste parole. Poi si rivolge a Sherlock. « Gli Holmes non lo verranno mai a
sapere, perché non sanno di John, e nessuno se la potrà prendere con me! Certo,
a quest’ora dev’esserli già arrivata la mia lettera
dove spiego che mi sono vendicato su di te, ma ovviamente non mi sono firmato.
Che senso ha vendicarsi, se la parte interessata non lo sa? » parla,
velocemente, negli occhi un luccichio crudele. « Non sapranno cosa ti è
successo però! » e qui scoppia a ridere. « Si preoccuperanno e basta, e quando
ti vedranno tornare intatto saranno sollevati, ma nella loro mente rimarrà il
tarlo che qualcosa possa esserti successo. Mi basta questo, sai. E non
risaliranno a me. L’ho fatta stampare
a macchina, l’ho fatta spedire da uno dei miei uomini … Sono o non sono uno
scienziato perfetto? » domanda, raggiante. Torna a rivolgersi ad entrambi. « E
vi dirò di più: vi do la mia parola che, se doveste rivedervi e io lo venissi a
sapere, non alzerò più un dito su di voi. Riconoscerò la mia sconfitta morale
di fronte a voi e basta ».
John prende Sherlock e lo abbraccia, sentendolo
tremare. Non presta quasi per nulla attenzione a Richard, prima di voltarsi
verso di lui, quasi con le lacrime agli occhi. « Vattene. Lasciaci soli. Hai
già fatto troppo » sussurra, iniziando a piangere, nascondendogli lo sguardo.
A quella vista, Richard Brook
sente un briciolo di compassione invaderlo, e sorride, mestamente. « Ma certo.
Torno tra dieci minuti, quando perderete conoscenza » dice calmo, uscendo da
quella stanza.
Appena sentono la porta chiudersi, John stringe forte
Sherlock a sé e scoppia a piangere. Singhiozza contro la sua spalla e sente
Sherlock tremargli addosso, mentre lo stringe di rimando. « Non è possibile,
non è possibile, non è possibile » sussurra a ripetizione, cercando di
calmarsi. « No. Non è possibile, deve essere uno scherzo di pessimo gusto »
afferma, annuendo.
Sherlock scuote la testa e lo stringe ancora di più.
Ti
prego, non posso non ricordarti più, pensa John. Dammi una minima speranza che ci rivedremo,
ti prego. Sherlock continua a scuotere la testa. John lo stringe forte,
rimanendo in silenzio per qualche minuto, pensando insistentemente – magari riuscirà a ricordarsi qualcosa di
quel lasso di tempo, se continua a pensarci – e sperando in silenzio.
All’improvviso si alza da quell’abbraccio, e raddrizza
Sherlock. I suoi occhi sono leggermente arrossati dal pianto, così come il
naso, e risultano ancora più celesti per colpa delle lacrime che ancora sono
presenti in essi. Alza le mani sul suo volto e asciuga le guance, passandogli
le mani sotto gli occhi, cercando di fermare quelle lacrime silenziose che
scendono senza fermarsi. « Non voglio dimenticarti, John » sussurra Sherlock,
battendo le palpebre per vederlo meglio.
John scuote la testa, tirando su col naso. « Neanche
io, Sherlock. Neanche io » sussurra. « Ma se deve succedere, che succeda.
Abbiamo tanto tempo davanti a noi, Sherlock. A settembre potremo ricominciare
di nuovo, anche se non ci conosciamo. Com’è successo quest’anno, potrà
succedere pure l’anno prossimo! E quel maledetto non potrà più torcerci un
capello » dice, sicuro di sé, mentre Sherlock scuote la testa sempre più forte.
Ha ricominciato a tremare.
« No, John. Era quello di cui volevo parlarti
stamattina » dice triste, afferrando le braccia di John e stringendole. Scuote
ancora la testa. « Mi trasferisco, John. Gli impegni di mio padre lo richiedono
a Birmingham già da domani » dice, le lacrime che non accennano a fermarsi che gli
impediscono di vedere la faccia sconvolta di John. « Volevo passare quest’ultimo
giorno con te, il più possibile, ma non in queste condizioni, e certamente non
con questi risultati » conclude, chiudendo gli occhi.
John continua a scuotere la testa. « No. Allora dammi
il tuo numero di cellulare e riusciremo a messaggiare
di nascosto dai tuoi » dice, convinto.
Sherlock scuote ancora la testa. « Non ho un cellulare,
John » gli ricorda, sorridendo tristemente.
John non vuole rassegnarsi. « Allora scrivi da qualche
parte il mio, o scriviamo sui nostri quaderni tutto ciò che è successo, così
prima o poi lo leggeremo » annuisce.
Sherlock non riesce a guardarlo negli occhi. « Non c’è
più tempo, John. Non c’è più tempo » sussurra, rassegnato.
John, che da quando gli è venuto in mente che possano
ricominciare tutto daccapo non riesce a pensare ad altro, gli appoggia le mani
ad entrambi i lati della testa. « Sherlock, guardami » dice dolce, e Sherlock
apre gli occhi. « Ti troverò. Te lo prometto » sussurra, e appena Sherlock
inizia a scuotere la testa rafforza la presa sulle sue tempie. « Te lo prometto
» ripete, avvicinandosi a Sherlock, gli occhi incollati ai suoi. Porta le sue
labbra a sfiorare quelle dell’altro, quasi impercettibilmente, per un istante.
Dopodiché, il buio avanza nella psiche di John,
facendogli perdere la presa sulla testa di Sherlock, e si accascia sulla sua
spalla, seguito dopo qualche secondo da Sherlock. Non cadono solo perché con
tempismo perfetto arriva Richard a sorreggerli.
Sorride vedendoli così vicini, un sorriso che non
arriva agli occhi, e li divide. Mette John sul tavolo e prende Sherlock in
braccio, portandolo nell’altra stanza – con un altro tavolo sulla parete
sinistra, ad imitare la prima stanza. Appoggia anch’egli sul tavolo e gli
stacca il portachiavi dal passante dei pantaloni, prima di tornare nell’altra
stanza. John è ancora immobile dove l’ha lasciato, e gli mette il portachiavi
che ha regalato a Sherlock nello zaino. Poi, sfila quello di John dai suoi
pantaloni e lo mette nello zaino di Sherlock.
Solleva John dal tavolo e riesce ad infilargli a fatica
il suo zaino, prima di prenderlo in braccio ed avviarsi verso la porta. Esce
con ancora il ragazzo in braccio, andandosi a posizionare vicino l’angolo, e
appena sente un brivido scuotere il corpo di John lo posiziona in piedi,
appoggiandolo a sé e sorreggendolo, fino a ché non si sveglia con un sussulto. Lo
lascia andare immediatamente e John si gira verso di lui. « Oh dio, mi scusi »
dice in fretta, assumendo di essergli andato a sbattere contro.
Richard sorride e scuote la testa. « Non preoccuparti,
ragazzino, è stata colpa mia. Devo stare più attento quando cammino » finisce,
prima di vedere John sorridere ed avviarsi verso casa sua.
Richard sospira e torna dentro. La corporatura di
Sherlock è più debole di quella di John, sa che ci sarebbe voluto qualche
minuto in più a lui, per svegliarsi. Prende il suo zaino e lo mette sulle
spalle, più facilmente che con John, e lo porta in braccio fino a fuori,
benedicendo la quasi mancanza di gente: tutti i genitori hanno già preso i loro
figli, e quelle vie sono poco affollate. Ha scelto quel locale apposta.
Un brivido scuote il corpo di Sherlock e Brook lo mette in posizione verticale, prima di lasciarlo
andare quando lo sente sussultare.
« Oi, attento a dove cammini!
» esclama Sherlock, aggiustandosi il giubbotto. Non lo degna neanche di
un’occhiata mentre si volta e torna a casa, rendendo così inutile da parte
dell’uomo – che ora sorride – alcuna parola.
Stupido,
pensa Sherlock.
---
Una volta a casa, Sherlock non riesce a spiegarsi come
mai sua madre corra ad abbracciarlo non appena lo vede. Non si spiega perché Mycroft lo guarda sorridendo, né perché suo padre sia lì – non sarebbe dovuto tornare fra un’ora?
Vuole solo liberarsi per andare a fare la valigia, ma
non se la sente di staccarsi da sua madre, che sembra volergli riversare
addosso tutti i suoi liquidi corporei sotto forma di lacrime, mentre continua a
stringerlo sul salotto davanti il camino.
Non capisce neanche di cosa suo padre stia parlando con
suo fratello – “sembra che stia bene, che fosse solo uno scherzo di cattivo
gusto?” – e quando chiede spiegazioni, l’unica risposta che ottiene è di non
preoccuparsi. Dopodiché viene lasciato libero di andarsi a preparare, perché
tra quattro ore avrebbero lasciato Londra.
A Sherlock non piace non capire le cose, ma se si
tratta della sua famiglia sa che per quanto ci proverà non riuscirà a sapere
cos’è successo oggi – probabilmente mai. Sospira frustrato, mentre apre la
porta della sua camera e nota le due enormi valigie poste sul suo letto,
aperte. Sembrano così sole, in quella stanza così grande.
Una è nera, l’altra beige.
Sherlock sente una fitta attraversargli la testa,
partendo da dietro la nuca e arrivando sulla fronte. Lacrime ora scendono da
sole, senza che lui abbia ordinato loro di farlo. Reazione al mal di testa, si spiega Sherlock.
Così come è arrivato, il mal di testa scompare, in meno
di qualche secondo, ma le lacrime proprio non riescono a fermarsi. Sherlock si
passa le mani sulle guance più volte, batte le palpebre cercando di mettere a
fuoco per bene gli oggetti, e nel frattempo si avvicina all’armadio e lo apre.
Quando capisce di non riuscire a fermare le lacrime, scuote la testa
esasperato, iniziando a riempire comunque le valigie per non sprecare altro
tempo.
Solo quando il maggiordomo prenderà le sue valigie e le
scenderà giù, sottraendole alla sua vista, Sherlock riuscirà a smettere di
piangere.
*****
St. Barts, 14:57, 2010
« Afghanistan o
Iraq? »
[1] In Inghilterra, l’anno scolastico inizia a
settembre come da noi, i giorni di scuola sono sempre 195 – 200, però finisce a
fine luglio. Questo perché hanno, oltre le solite vacanze di natale, una
settimana di vacanza ogni tanto.
[2] La data di nascita di Sherlock è il sei
gennaio, secondo il canone, mentre
quella di Watson non si sa con certezza. Wiki dice
che è il 7 agosto, anche se non la fonte non c’è, ma chi sono io per
contraddire wikipedia?
[3] Omaggio alla fanfic della
cara ermete, “Anche il trifoglio porta fortuna”.
[4] Omaggio alla 2x03.
[5] Allora, gironzolando per il web mi sono imbattuta
in questo sito (link!),
dove spiega che sono state realmente inventate queste pillole. La
classificazione dell’amnesia che provocano è l’amnesia retrograda selettiva,
stabile. Da brava fanwriter, mi sono presa la libertà
di modificarne il periodo storico e l’inventore, e di aggiungerci una
particolarità: eliminano i ricordi del tutto, non solo dal lato emotivo. Le
pillole funzionano allo stesso modo che viene descritto nel link: mentre
vengono prese, il “paziente” deve
rievocare tutti i ricordi che la pillola deve cancellare. Tutte le nozioni sul
cervello e sulla memoria sono prese spudoratamente da wikipedia.
*si presenta armata di scudo e saluta
timidamente da dietro di esso*
Dunque, alla fine il rating si è alzato solo al giallo. Avevo in mente un altro
possibile scenario, ecco perché nel capitolo precedente mi sono messa al sicuro
dicendo che potrebbe esserci stato il rating rosso. Ho spezzato in due la
storia per non farvi avere un mattone da leggere tutto in una volta, ma le
14,000 parole di questo capitolo non devono essere state semplicissime da
leggere, quindi se siete arrivati fin qui, grazie.
*manda bacini*
Spero siate arrivati alla fine senza un enorme WTF, ho cercato di spiegare
tutto meglio che ho potuto, ma se qualcosa vi risulti ancora poco chiara,
fatemela notare!
Grazie mille a PapySanzo89, mia carissima beta – cosa farei se non ci fosse
lei! <3
Ringrazio tanto anche Cracked Actress ,
che mi ha sostenuta tantissimo e che ha
sopportato stoicamente i miei scleri. Ti voglio bene
tesoro ç_ç
Grazie anche a te, singolo lettore <3 Se vuoi lasciare un commento, ne sarei
felice *_*