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Autore: Il giardino dei misteri    04/07/2013    8 recensioni
Sara Orlandi frequenta il quinto liceo scientifico in un paese di tremila anime ed è sempre stata sola. Suo padre non ha mai voluto sapere niente di lei, abbandonando sua madre prima ancora che nascesse, e sua madre, beh, l'ha dovuta crescere da sola. Ma non è mai riuscita veramente a fare la madre. A quarant'anni pensava a truccarsi, uscire il sabato sera e andare alla ricerca dell'anima gemella. E Sara, se l'era spesso dovuta cavare da sola.
A scuola era anche peggio. Tutti la ignoravano e la trattavano male, prendendola di mira. La prima di Eleonora, la ragazza più odiosa e subdola dell'Istituto, che si prendeva gioco dei ragazzi come se fossero soldatini.
E poi, c'era Luca, tanto bello quanto stronzo. Il ragazzo per il quale Sara aveva preso una cotta colossale dai tempi delle medie. Luca ha sempre ignorato la presenza di Sara. Se ne ricordava solo per i compiti o per essere aiutato, fino a quando un giorno una strana passione li unisce ...
Spero che vi piaccia. Buona lettura ^.^
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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II.

 

Quando quelle cinque ore del cavolo ebbero fine, tornai a casa. Non che ci fosse molta differenza tra scuola- casa, perché in ambedue i luoghi ero sola, ma almeno a casa mia non avrei visto quelle facce lavate dei miei compagni. Che poi compagni era una parola grossa. Semmai, approfittatori, falsi, traditori. Ecco, si, forse avrebbero dovuto chiamarsi così.

Quella era proprio una giornataccia. Era iniziata male e non poteva che finire peggio. Non avevo dubbi. Non ne potevo più, non ne potevo veramente più. Volevo andarmene, andarmene via, lontano, in un posto in cui ci sarebbe stato davvero qualcuno disposto ad amarmi.

<< Tieni duro, Sara, devi tenere duro>> mi dissi. << La fine dell’anno non è poi, così lontana. Mancano solo … sei mesi!>> << Si, sei mesi, più gli esami, se non morirò prima!>> dissi sbarrando gli occhi.

 

 Presi lo zaino e me ne andai in camera mia. Quello era il mio mondo, il mio rifugio fin dagli anni adolescenziali,  e io mi ci rintanavo quando mi sentivo troppo sola o quando nessuno mi capiva. Chiudevo la porta, prendevo la mia chitarra e non esistevo più per nessuno. Questo era l’unico modo per calmarmi, per portare un po’ di pace dentro di me. Suonare e dimenticarsi di tutto. Neanche piangere mi serviva molto. Perché non c’era mai stato nessuno che mi aveva asciugato le lacrime, ma me le ero dovute sempre asciugare da sola e da sola dovevo consolarmi e trovare la forza per andare avanti.

La mia stanza era piccola, molto piccola e aveva le pareti dipinte di giallo, ma che erano praticamente coperte da milioni di poster e riviste. Il mio letto si trovava al centro della stanza e accanto vi era una scrivania, piccola, in cui erano riposti i miei libri, i quaderni e tutto il materiale scolastico. Sull’ altra parete c’era l’armadio e appoggiata ad esso, dentro la sua custodia, c’era la mia chitarra. La mia adorata chitarra.

Me la aveva insegnata mia madre, quando ero piccola. L’unica cosa buona che avesse fatto in diciotto anni!

 Quando ero giù, mi sedevo sul letto con le gambe incrociate, prendevo la chitarra ed entravo in un mondo tutto mio. Non mi importava più nulla. Né di mia madre, né della scuola, né di quella vita. Non mi importava niente di niente. Prendevo il plettro, un foglio di carta, una penna  e scrivevo … scrivevo canzoni. Non c’era niente di più bello della musica, perché anche quando eri giù, lei non ti tradiva mai. Anche quando gli altri ti pugnalavano alle spalle, lei ti accoglieva tra le sue “braccia”. Anche quando il mondo ti si rivoltava contro, lei non ti abbandonava. Mai. Anche quando piangevi, lei ti consolava. Sempre.

 Per me, era come una medicina. Era la mia linfa vitale. Bastava che avessi con me la chitarra e tutto sembrava più bello. Tutto più dolce e meno amaro. La vita iniziava ad avere un senso. E mi sembrava che ci fosse qualcosa ancora per cui valeva la pena lottare.

Iniziai a scrivere tutto quello che sentivo, quello che provavo e vennero fuori pochi versi. Non mi piacevano. Li scarabocchiai. Scrissi altri, ma anche questi non andavano. Li modificai, inserii nuove parole, li rilessi,ma tutto fu inutile. Strappai oltre dieci fogli. Non mi piaceva niente, quel giorno.

<< Maledizione!>> mi dissi. << Oggi non è giornata, non riesco a buttare giù nemmeno una frase di senso compiuto!>>

Posai la chitarra sul letto. Forse avrei trovato l’ispirazione fuori, vedendo qualcosa di interessante. Anche se non so cosa avrei visto di interessante in un paese che faceva schifo!

Presi la mia giacca, la abbottonai bene per non sentire freddo , e uscii.

Camminai a piedi attraversando il viale che portava a casa mia e mi introdussi sul “corso” .

Camminai lentamente, osservando con attenzione tutto ciò che mi circondava, come un bambino piccolo che mette piede fuori dalle mura domestiche e guarda incuriosito com’è fatto il mondo, e tendendo l’orecchio ad ogni rumore, perché ognuno di esso mi sembrava un suono, una nota, una nuova musica da comporre . Mi trovai così a fantasticare. Lo facevo spesso quando ero attratta dalle meraviglie e quando mi soffermavo a guardare ciò che mi circondava. Non mi fermavo spesso a guardare cosa c’era intorno a me, ma quando capitava, mi lasciavo trascinare da una miriade di sensazioni e mi immergevo in un altro mondo a fantasticare, immaginandomi in una vita diversa. Una vita in cui tutto era perfetto. Una vita in cui c’erano due genitori che ti volevano bene e si interessavano a te, che ti capivano, che ti incoraggiavano e che ti sostenevano sempre, qualunque cosa fosse successa , e un paio di “marmocchi “ più piccoli come fratelli, che rendevano le tue giornate speciali.

Mi trovai ad essere sempre più assente. Mi ero immersa in quell’ assurdo sogno che mi ero creata, per fuggire dalla realtà. Lo facevo sempre, quando la vita quotidiana mi pesava troppo.

Ad un tratto, mentre continuavo a pensare come sarebbe potuta essere la mia vita,  sentii un colpo.  Non capii più nulla. Mi sentii più fragile, leggera, mi reggevo in piedi a malapena, stavo scivolando via, quasi non avessi più un solido appoggio sotto i miei piedi. Come se stessi cadendo,ma non capivo perché. Sentivo di essere quasi a terra, col sedere sul pavimento. Poi, sentii una stretta forte, vigorosa, decisa, sotto le mie braccia e sotto la schiena e io ero più stabile e forte. Come se stessi scivolando da un pendio ripido e mi stessi reggendo a stento per non cadere.

Mi destai da quella specie di sogno. La prima cosa che vidi, furono due immensi occhi azzurri che mi puntavano. Erano degli occhi stupendi. Limpidi, sinceri, sorridenti. Sembrava che fossi immersa in un oceano grandissimo e azzurro o in un cielo limpido nei giorni di sole.

Mi scostai da quei meravigliosi occhi e mi ridestai dai miei sciocchi pensieri. Vidi un ragazzo che mi fissava divertito, col sorriso sulle labbra. All’inizio, non lo riconobbi. Riuscivo a malapena a distinguere i suoi lineamenti, poi misi a fuoco la sua immagine.

Sobbalzai. E mi liberai da quell’abraccio, da quella stratta che mi teneva forte la vita, diventando rossa pomodoro o forse peggio.

<< C- che ci fai tu qui?>> iniziai a balbettare.

<< Niente, ti stavo venendo incontro. Poi, stavi scivolando e ti ho salvata. Ringraziami, Orlandi.>>

Non sapevo cosa dire. La lingua mi si era ingarbugliata, ero tutta rossa in viso, il cuore mi batteva a più non posso, come se fosse un orologio svizzero, e stavo iniziando a sudare, muovendo nervosamente le mani, anch’essa sudate.

<< Beh, lo so che non trovi le parole per un così nobile gesto>> disse lui scherzando.

Col cuore che ancora mi martellava, tentai di rispondere, cercando di non farmi  sorprendere in preda all’agitazione.

<< Luca Martini, che mi viene incontro appena mi vede? Temo proprio che stasera diluvierà o forse ci sarà una catastrofe!>> dissi sorpresa delle mie stesse parole. Avevo ripreso coraggio.

<< Ah, ah risparmiati lo spirito,Orlandi.>>

<< Che hai bisogno di qualcosa, Martini?>>

<< Perché non potevo semplicemente salutarti?>>

<< Oh, si potevi benissimo farlo, ma mi pare strano che Luca Martini vada incontro a me, Sara Orlandi, e la salvi pure. Non ti pare una scena di quei fotoromanzi sdolcinati?>>

<< Beh, si in effetti … >> rispose lui.

<< Vediamo … se ti conosco abbastanza bene, direi che mi sei venuto incontro per sapere se ti ho fatto gli esercizi. Sto sbagliando?>> dissi io.

Lui rifletté un poco. Poi, mi guardò negli occhi.

<< Non sbagli un colpo, Orlandi. Ebbene si, lo ammetto>> disse lui.

<< Guarda che non ti devi mica vergognare, so come sei fatto. E comunque per tua informazione non ho fatto proprio un bel niente. E non so se li farò quei dannati esercizi!>>

Lui mi guardò storto.

<< Dai, Sara, ti prego … sei la mia unica salvezza.>>

<< Non sperare di convincermi chiamandomi per nome o usando parole sdolcinate.>>

Lui tornò a fissarmi, ancora.

<< E poi, oggi per colpa tua sono stata cacciata fuori. Non mi hai manco chiesto scusa, non vedo perché dovrei farti gli esercizi.>>

Lui parve pensare. Poi, lo vidi sorridere.

<< Perché … perché ti darò un appuntamento. Usciremo insieme!>> disse lui sorridendo come un ebete. Sapeva che nessuno mai avrebbe rinunciato ad un appuntamento con lui.

<< Sai che me ne frega dei tuoi appuntamenti!>> risposi senza pensarci.

Lui sembrò deluso.

<< Aspetta un momento, Sara. Che stai dicendo? E’ tutta la vita che cerchi un appuntamento con lui e adesso gli dici di no? Ma ti sei inebetita, Sara?! Cha stai facendo?>>  dissi tra me e me.

Ma ormai ero decisa a dire di no. Tanto lui mi aveva invitata solo perché voleva gli esercizi, quindi non di sua spontanea volontà, perché gli piaceva.

<< Adesso devo andare>> dissi io alla fine.

<< Aspetta, ma … gli esercizi?>>

<< Ci vediamo domani, Martini. Non ti agitare troppo per gli esercizi, tanto prenderesti comunque due>> dissi tirandogli un leggero pugno sull’addome.

Poi me ne andai.

Quando tornai a casa, presi di nuovo la chitarra e iniziai a scrivere. La passeggiata era stata proficua, infatti mi vennero in mente molte idee.

 

 

                                             In un pomeriggio d’inverno, freddo e solitario,

camminando in città e  guardando qua e là,

circondata da rumori, frastuoni, musiche e colori

           incontri milioni di persone che guardano, sorridono, gridano, 

e ad un tratto  vedi che

due dolci occhi azzurri ti puntano,

e tu non puoi che

guardarli, scrutarli, ammirarli, amarli

perché sono come scintille

in un cielo pieno di stelle.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

Eccomi qua a pubblicare il secondo capitolo di questa storia. Ma, prima di iniziare a dire qualcosa voglio ringraziare innanzitutto le persone che hanno recensito il primo capitolo e che hanno messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Ve ne sono immensamente grata. E vi ringrazio per l’affetto che mi dimostrate.

Spero, che questo capitolo non abbia deluso le vostre aspettative. Ci ho lavorato tanto, nonostante abbia avuto pochissimo tempo, perché correvo di qua e di là tra mille impegni, come una matta. Ho inserito anche un piccolo brano. Forse sembra banale, ma l’ho voluto mettere per concludere il capitolo. Non pensate che voglia rubare il mestiere ai compositori e cantautori. ^^ :D

In questo capitolo si scopre qualcosa di Sara che non si era detto prima: la sua passione per la chitarra e per la musica. Sarà forse questa passione ad accomunare Sara e Luca?

Lo scoprirete presto ^^

Intanto, ditemi com’è venuto questo capitolo. A voi i commenti. Forza, fatevi coraggio e recensite xD.

Baci.

  
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