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Autore: Melisanna    18/01/2008    5 recensioni
La guerra imperversa in Asia e in Europa. Le grandi Nazioni europee si sono lanciate nelle conquiste imperialiste, spinte dalle ricchezze dell'Oriente e dal desiderio di esportare la loro cultura in quelle regioni selvagge. Soprattutto desiderano civilizzare o distruggere le feroci popolazioni dei semiumani berserkyr. Nel frattempo il capitano Ilija Nicolaevic consuma la sua licenza fra le nevi della Siberia, mentre il momento di tornare ai suoi doveri si avvicina. Si sente morto a venticinque anni. Eppure il suo spirito aspetta solo di essere svegliato.
Genere: Fantasy, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Il sangue sotto la neve

Ho scritto questo racconto per la Disfida dei Criticoni, concorso organizzato dal sito di critica "criticoni.net". Adesso che pubblico non conosco ancora i risultati e sono piuttosto nervosa ^^

E' molto tempo che ho in mente questi personaggi e questi eventi, anche se è diventato un racconto erotico solo a causa dell'occasione del concorso. fa parte di un corpus di scritti decisamente più abbondante a cui spero di potermi dedicare in futuro, per completarli e riunirli in un unico lungo racconto. In quella storia Ilija è soltanto un personaggio secondario e questo breve racconto è una sorta di spin off.

Nell'attesa di conoscere Maurin e la sua nave, la Seahawk, spero che apprezzerete la storia del capitano Ilija Nicolaevic.

Il Sangue sotto la Neve

“Cosa sono queste grida?”.

Una sottile linea verticale si formò fra le sopracciglia scure di Ilija Nikolaevic, mentre scrutava la foresta innevata. Urla concitate e rumore di zoccoli, portati dal vento, avevano rotto per un attimo la quiete cristallina del mattino.

“E’ la battuta di caccia, capitano, sono accorsi da tutti i dintorni per prendervi parte! Non avevo mai visto tanti signori tutti insieme” Aleksej aveva le guance rosse per l’eccitazione e lo guardava con occhi spalancati, attraverso ciuffi di capelli biondi “Cercano il Fantasma Bianco, ne avete sentito parlare, signore?”

Ilija scosse lentamente la testa, senza distogliere lo sguardo dall'orizzonte. Pareva che i cacciatori si stessero allontanando, per fortuna.

"E' una tigre enorme, capitano! Bianca e argentata come la neve sotto la luna, dicono, con artigli affilati come lame e zanne lunghe come pugnali" si affrettò a spiegare il ragazzo. "E' capace di sbranare da sola una mandria intera e... " la voce di Aleksej si abbassò in un affascinato sussurro evocativo "Dicono che sia una mangiatrice di uomini. Decine di cacciatori l'hanno cercata, ma senza successo: pare possa svanire nella nebbia. Gli unici che l’hanno trovata non sono mai tornati".

Aleksej lasciò sospesa nel silenzio della neve l'ultima frase, palesemente per goderne l'effetto.

"Perché non partecipate anche voi alla caccia capitano?” propose speranzoso “Ci saranno grandi onori per chi abbatterà la belva e voi, con la vostra esperienza, non ve la lascereste di certo scappare!".

Ilija volse lo sguardo verso il giovane. “Prender parte alla caccia?” mormorò perplesso “Non fa per me, davvero”.

Il ragazzo scosse il capo, deluso “Oh. Beh, allora, capitano, queste sono le razioni che avevate chiesto e il comandante ha detto di ricordarvi che la vostra licenza sta per finire e c’è bisogno di voi”.

“Come comanda. Porgigli i miei saluti. Arrivederci Alesa” .

Mentre il messo si allontanava, Ilija Nikolaevic, capitano dello squadrone del Carro, si voltò di nuovo, meditabondo, a fissare l’orizzonte.

La tigre si voltò furibonda, cercando di colpire con la zampa massiccia uno dei cani che la incalzavano da ogni parte, ringhiando e abbaiando freneticamente. Un segugio rotolò lontano, il cranio sfondato e il muso coperto di sangue, ma molti altri ne approfittarono per azzannarle i fianchi. La belva, ruggendo di rabbia e di dolore, si lanciò sui nuovi aggressori che si sparpagliarono uggiolando, solo per tornare alla carica con rinnovato vigore, spronati dall’arrivo dei primi cacciatori. Intorno alla tigre cominciarono a risuonare gli spari, mentre la folta pelliccia candida si impregnava di sangue.

Cercando di tenere a bada un numero crescente di avversari, la bestia ruotava su se stessa, sferrando colpi sempre più nervosi, via via che il terrore prendeva il posto della furia. Con un ultimo balzo potente superò i cani, gettandosi fra i cacciatori. Si fece largo fra gli uomini presi dal panico e, prima che potessero reagire, sparì fra gli alberi.

Corse fino allo stremo delle forze e mise in atto tutti i trucchi che conosceva per far perdere le sue tracce, eppure, ogni volta che si fermava, sentiva in lontananza gli ululati dei cani e le grida degli uomini. Infine si lasciò scivolare in una forra profonda, sperando di trovare riparo fra i rovi che la riempivano. Sapeva che non era un buon nascondiglio, che i cani l'avrebbero trovata senza difficoltà, ma con il sangue, dalle sue ferite, era colata via ogni forza.

L'incoscienza la colse prima di aver raggiunto il fondo.

Era lunga quasi quattro metri. La più grande che avesse mai visto. Ilija osservava la belva dall’alto del suo stallone sauro, trattenendo per la cavezza il cavallo da soma.

Restò a fissarla esitante per molti, lunghi minuti, poi scivolò giù dalla sella e scese cautamente nella forra. Mentre si avvicinava sfiorò la giubba, all’altezza del cuore, con la punta delle dita, preparandosi a reagire. La pietra incastonata nel suo petto pulsò rassicurante.

La tigre era assolutamente immobile, ma Ilija sentiva la vita vibrare in lei, il battito del suo cuore, il sibilo rauco del suo respiro. Si fermò a un paio di metri da lei, osservandola, poi si avvicinò ancora fino a sfiorarla con la punta della stivale. Non ci fu la minima reazione.

Si inginocchiò e affondò le mani nella pelliccia soffice, rimpiangendo il contatto di cui lo privavano i guanti spessi. “Continua a dormire, non ti muovere, sei così stanca, così stanca”. Il mormorio di Ilija fluiva lento e quieto, sull’intera foresta sembrò cadere un silenzio placido e sonnolento “Brava ragazza, non ti muovere, dormi, non ti muovere”.

Lentamente Ilija cominciò a legare le zampe della fiera, senza mai smettere di parlare. Quando ebbe assicurato bene la corda, si arrampicò di nuovo fino ai cavalli e fissò l’altro capo al petto possente dello stallone. “Coraggio fratellino, tira” Il sauro scrollò il capo, poi cominciò a muoversi, la cervice incurvata per lo sforzo, i muscoli tesi sotto il lucido mantello nocciola, trascinando lentamente il corpo della belva, fuori dal nascondiglio che quella si era trovata.

Ilija rafforzò, con i tronchi di due giovani abeti, il travois su cui portava il risultato della sua caccia, una giovane femmina di capriolo, e vi caricò con sforzo la tigre. Il cavallo da soma roteò gli occhi e scalpitò, spaventato, mentre lo legava alla barella e anche lo stallone, addestrato sui campi da battaglia, sbuffò, innervosito da quel carico inusuale. Ilija mormorò qualche parola rassicurante che parve placare il timore dei cavalli, quindi li spronò schioccando la lingua. I due si incamminarono verso il campo, mentre il capitano li seguiva cancellando le tracce.

Ogni tanto, portati dal vento, giungevano loro gli schiamazzi dei cacciatori. Ilija seguiva i cavalli con passo spedito, chiedendosi quale follia lo avesse invaso.

Né la sua nobile famiglia, né il comandante erano stati soddisfatti quando si era preso una licenza di tre mesi, al termine dell’ultima campagna. Non si erano opposti, solo perché non avevano potuto: il capitano Ilija Nikolaevic aveva talmente brillato durante i combattimenti, risollevando le sorti di una battaglia avventata e mal progettata, che nessuno aveva osato rifiutargli la sua, più che umile, richiesta.

Ilija aveva approfittato di quel tempo per meditare e cercare di ritrovare se stesso, dedicandosi alla parte più introspettiva di quelle arti marziali che praticava fin da fanciullo. Si era isolato nel profondo Nord della Russia, al confine con la tundra siberiana, terra natale della sua famiglia. Per settimane non aveva intrattenuto rapporti con altri che il giovane Alesa, che lo riforniva di tutto ciò che non poteva procurarsi da solo.

Sia i suoi famigliari, sia il comandante, però, lo avevano bombardato di messaggi, affinché anticipasse il suo rientro: lui, il principe Ilija Nikolaevic Myskin, avrebbe dovuto sapere quanta importanza aveva per la loro Grande Nazione che i contingenti russi dell’Esercito Internazionale Umano, si mostrassero all’altezza della situazione. Soprattutto ora che l’Impero inglese diventava sempre più potente e arrogante. Voleva forse che il suo paese subisse l'ignominia di inchinarsi davanti alla loro Donna re?

Ilija, però, non riusciva a interessarsi di politica. La Russia era prospera e la sua industria avanzata, grazie alle sue riserve di pietre arcane, tra le più grandi del mondo. La politica dello zar era illuminata: negli ultimi vent'anni il Paese aveva fatto passi da gigante, sia dal punto di vista sociale che economico.

Non capiva quella smania di gettarsi nelle guerre imperialiste che sembrava aver contagiato gran parte della nobiltà. Avrebbe gradito una vita tranquilla, nelle sue tenute a nord, dove potersi dedicare agli studi e alla meditazione.

Ovviamente, non gli era stato permesso. Non solo la sua famiglia deteneva il controllo di buona parte delle forze militari e puntava a mettere un suo erede sul trono, ma Ilija aveva dimostrato fin da bambino una tale naturalezza nel manipolare i flussi di potere che, a undici anni, era già iscritto all’accademia militare. La sua carriera nell’esercito, con grande gioia della famiglia, era stata fulminante e inevitabile.

A ventidue anni era stato arruolato nell’Esercito Internazionale e, solo un anno dopo, aveva avuto il suo primo scontro con i berserkyr.

A sentire il suoi superiori, se l'era cavata splendidamente, ma aveva avuto incubi per mesi, al ricordo di quelle creature bestiali che si scagliavano con furia sanguinaria contro lui e i suoi compagni, incuranti delle pallottole, accartocciando come lattine le corazze degli autoviri.

Né era stato meglio, quando aveva scoperto di poterli veramente colpire e uccidere, come gli era stato insegnato.

Aiutato dalla pietra, aveva incanalato il potere attraverso le dita delle mani e dei piedi, lo aveva raccolto alla altezza dello sterno e poi lo aveva liberato, vibrando il colpo, lungo la lama della spada. Il risultato era stato sorprendente: aveva squarciato la spalla di un berserkyr lupo, magro e feroce, che era appena uscito illeso da una scarica di fucile in pieno petto. La bestia aveva urlato di dolore e incredulità e aveva provato a colpirlo con le zampe munite di artigli, ma Ilja gli aveva affondato la spada fino all’elsa nel collo. Mentre cadeva agonizzante, il mezzo-lupo si era trasformato in una giovane donna asciutta, con incongrui capelli grigio ferro.

Sapeva che sarebbe successo, ma era stato lo stesso uno shock. Aveva visto spegnersi due occhi così simili ai suoi e saputo di essere stato la causa di quella morte.

Da allora aveva combattuto molte volte contro i berserkyr, ma non ci si era mai abituato. Non al terrore che emanavano, ma a quella loro natura duplice, umana e mostruosa.

Aveva accolto l’annuncio della sua nomina a comandante del Carro, con sorpresa e disagio. Aveva continuato a fare il suo dovere esattamente come prima, sentendosi sempre più insoddisfatto e vuoto, mentre i suoi famigliari si beavano della sua luce riflessa e ne approfittavano per rafforzare la loro posizione a corte.

Poco più di un anno prima, sua madre, radiosa di orgoglio per i suoi successi, gli aveva presentato la sua futura sposa, Katarina Aleksandrovna. Ilija doveva ammettere che era bella con i lucenti capelli rossi e il viso di perfetta porcellana.

Ma era ambiziosa e spietata, completamente immersa negli intrighi di corte e nelle lotte di potere. Quando era con lei, si sentiva un cavallo da corsa, lustrato e riverito, perché nella prossima gara potesse fruttare al padrone il più possibile.

Quando, alla fine dell’ultima campagna, gli era arrivata notizia che la data del matrimonio era stata fissata, era stato veramente sollevato di potersela svignare a Nord, nonostante le proteste di tutti i suoi congiunti.

Come se non bastasse aver irritato la sua famiglia e quella della sua promessa sposa, ora rischiava di attirarsi le ire di tutta la nobiltà del luogo, per salvare una bestia inutile e potenzialmente assassina. Doveva essere completamente impazzito.

Nonostante ciò, Ilija si dedicò con tutto sé stesso a curare le ferite dell'animale. Erano profonde, ma meno gravi di quanto avesse creduto, vedendo la quantità di sangue che aveva impregnato la neve intorno alla belva caduta. La tigre si sarebbe rimessa rapidamente e allora avrebbe potuto essere un pericolo anche per lui. Avrebbe fatto bene a tenerla quieta con il potere ammaliante, che la pietra donava alla sua voce.

La pelliccia era lunga e folta, striata di argento e nero e macchiata del rosso cupo del sangue. La pulì accuratamente e affondò le mani e il viso nella sua vellutata morbidezza, lieto che l'incoscienza della bestia glielo permettesse. Aveva un odore muschiato e insospettabilmente gradevole.

Che bestia magnifica.

Aveva ripreso i sensi in un luogo sconosciuto, l’aria impregnata dell’odore di uomo. Aveva cercato di alzarsi in piedi per fuggire, o combattere, ma le sue scarse forze le avevano permesso a malapena di sollevare la bella testa pesante per guardarsi attorno. Allora aveva visto l’umano accanto a lei.

Si era accorto che era sveglia ed era arretrato, lentamente, ma con prontezza, mormorando parole rassicuranti.

Aveva avvertito il potere nella sua voce, riconosciuto la pietra che vibrava, incanalando i flussi, nell'incavo tra le sue clavicole, ma non aveva potuto fare a meno di cedere al loro incanto di calma sonnolenta.

Vedendo che non si muoveva, l'uomo si era di nuovo avvicinato, continuando a parlare con quel tono lento e cantilenante che l'avvinceva. Aveva alzato una zampa, minacciosa, per avvertirlo di stare alla larga, ma la stanchezza l'aveva di nuovo sopraffatta ed era sprofondata nel sonno.

Quando aveva riaperto gli occhi, l’uomo non era più lì, ma l’odore persisteva. Le sue ferite erano state curate e fasciate. Vicino a lei c’erano cibo e acqua.

Era arsa dalla sete, perciò, nonostante fosse ancora sospettosa, annusò la ciotola e bevve gran parte del contenuto. I suoi lunghi baffi vibravano, mentre gli occhi luminosi indagavano l’interno dell’isba. Non c’era niente di minaccioso lì dentro. Si stirò soddisfatta, quando, a indagine ultimata, seppe di poter fuggire in ogni momento. Se l'uomo credeva di tenerla imprigionata in quella ridicola capanna era uno sciocco e l'avrebbe schiacciato come una mosca. Per il momento, però, avrebbe approfittato delle cure e del cibo che le venivano offerti: era debole e sopravvivere da sola nella foresta, con i cacciatori alle calcagna sarebbe stato difficile.

Quando l’uomo tornò, si limitò a tenerlo sott’occhio, mentre le si avvicinava guardingo.

Il suo incantesimo di parole continuava a ronzargli tra le labbra e si sentiva tranquillo e al sicuro, certo che lei fosse ancora preda del suo potere.

Non ritenne necessario deluderlo, si limitò a sorridere divertita.

Un paio di giorni dopo, la svegliò il rumore di zoccoli nervosi sulla neve.

Voci di umani sconosciuti, fastidiose e troppo alte, si alternavano con quella del suo umano, coprendola con violenza.

Non riusciva a capire quello che dicevano, ma sembravano irritate e indagatrici. Ascoltò tesa, pronta a reagire se ce ne fosse stata necessità, fuggendo o combattendo fino allo strenuo.

La voce del suo umano, però, era forte e decisa e ciò che disse sembrò convincere i nuovi venuti ad andarsene. La tigre chiuse gli occhi e stirò le zampe rassicurata.

Bravo umano, come premio gli avrebbe lasciato credere, ancora per un po,' di poterla domare con i suoi incantesimi.

Dedicò i giorni seguenti al riposo, per recuperare il più rapidamente possibile energie. Dormiva ore e ore di fila, svegliandosi solo per bere e mangiare, crogiolandosi soddisfatta nelle pellicce che arredavano l'isba.

Intanto ne approfittava per studiare il suo umano.

La toccava con mani forti e gentili, desiderose di affetto. Camminava con lunghi passi lenti e sicuri e guardava il mondo con sguardo inquieto. Come tutti gli umani non sapeva cosa voleva e cercava senza tregua risposte a domande sciocche.

Non le ci volle molto a riacquistare forze sufficienti a trascinarsi fuori dalla capanna, per godersi i raggi pallidi del sole.

Possibilità che le permetteva di osservare l’uomo Ilija, mentre si tuffava nel fiume gelato e meditava nell’acqua fredda. Lo scrutava da sotto le palpebre pesanti, valutando con apprezzamento i muscoli solidi delle braccia e la schiena larga, i pettorali scolpiti e il volto attraente.

Ogni tanto l'uomo, sentendosi osservato si voltava verso di lei, divertita dal suo imbarazzo, mormorando parole bizzarre nella sua lingua incomprensibile. La tigre sbadigliava con noncuranza, per poi tornare a fissarlo appena si voltava.

La bestia si stava riprendendo velocemente. Ilija ne era felice. Aveva cominciato a chiamarla Katja ed era un po’ rattristato all’idea che presto si sarebbero dovuti salutare. Lui per tornare alla civiltà e ai suoi doveri, lei alle sue foreste selvagge.

Al di là dell’iniziale sospetto, Katja si era rivelata una compagnia piacevole e discreta. Ilija aveva imparato ad apprezzare il conforto che gli dava accarezzare la setosa pelliccia bianca e parlare con qualcuno, per cui non era il principe Myskin. Per cui non era proprio nessuno, in effetti.

Non poteva negare di trovare un po’ strani e perfino imbarazzanti certi suoi comportamenti, ad esempio il modo sfrontato con cui lo osservava quando faceva il bagno, ed era davvero sorprendente la prontezza con cui aveva capito di doversi tenere alla larga dai cavalli. Ma, se qualche sospetto si affacciò alla sua mente, si affrettò a scacciarlo: Katiusa era un animale davvero unico, anche la natura ne aveva dato prova, facendole dono del suo splendido mantello; non c’era nient’altro. Cominciò a crogiolarsi nell’idea di portarla con sé a Pietroburgo.

Mancavano solo cinque giorni alla fine della licenza, quando, a notte fonda, fu svegliato da un peso che gli gravava sul petto. Qualcosa di morbido e caldo gli stava sfiorando il collo. I lunghi peli di Katja gli solleticavano le nari. Ilija cercò di scacciarla, mormorando qualcosa nel sonno e allungò un braccio per spingerla via, ma, invece di affondare nella folta pelliccia, la sua mano incontrò pelle nuda e liscia. Spalancò gli occhi per la sorpresa e, nell'azzurro riflesso della luna sulla neve, scorse un figura femminile china su di lui.

Il corpo della donna era soffice e armonioso, con curve piene, ma aggraziate. I grandi occhi rilucevano come quelli di un gatto, mentre lei lo fissava, leccandosi, con la lingua rosea, il labbro superiore. Il suo addestramento militare prese il sopravvento e la mano destra corse a cercare la spada.

La donna gorgogliò una risatina divertita e gli bloccò il braccio senza fatica.

Con studiata lentezza abbassò il viso sul suo e gli annusò le labbra, respirando il suo respiro. Il suo profumo selvatico e muschiato lo invase, lasciandolo stordito.

Dio, se doveva morire quella notte, non sarebbe stata una brutta morte.

Per la prima volta da anni sapeva cosa desiderava.

Desiderava che le labbra della donna annullassero la distanza che le separava, di sapere se il loro sapore era come il loro odore lasciava sospettare. Desiderava il contatto della pelle pallida, splendente nel ceruleo bagliore, sulla sua.

Intuire le forme del suo corpo attraverso le coperte di pelliccia, sentire la pressione della sua coscia contro l'inguine, senza poterla toccare, sconvolgeva i suoi sensi, risvegliando nelle sue viscere un calore liquido e languido.

Non seppe far altro che giacere perfettamente immobile, subendo quell'attesa agrodolce, incatenato dal suo stesso desiderio.

La donna lasciò scorrere il suo fiato caldo lungo i suoi zigomi e la sua fronte, lasciandogli appena percepire la sua vicinanza, senza mai toccarlo, se non con le lunghe chiome seriche e le ciglia guizzanti. Sfiorò a mala pena la piega sensibile del suo collo con la punta del naso e riversò contro il suo orecchio un ansito sommesso, che si sciolse in rivoli elettrici che scorrevano attraverso il suo corpo fino al ventre.

Si sollevò sopra di lui, puntellandosi sulle mani e inarcando la schiena come un gatto che si stira, considerandolo con il suo sguardo azzurro e specchiante.

Quando le sue labbra si schiacciarono finalmente contro quelle di Ilija, l'uomo dimenticò i suoi doveri, la sua famiglia e persino il suo nome.

Ilija si svegliò molto più tardi del solito e rimase a lungo a giacere sul letto, fissando il soffitto e richiamando alla mente gli avvenimenti della notte.

Non era sicuro di non aver sognato, ma l’odore pungente della donna persisteva nell’aria ed egli si sentiva languido e spossato.

Aveva giaciuto con un berserkyr, un guerriero mannaro. Non uno dei cani randagi che si prostravano ai piedi degli umani o delle gattine ammaestrate che i nobili si tenevano in casa come giocattoli. No, un bersekyr selvaggio; una enorme tigre che in battaglia poteva staccare la testa a un uomo a mani nude.

Probabilmente se lo sarebbe mangiato a colazione e, anche se fosse riuscito a cavarsela, lo avrebbero condannato per alto tradimento.

Fu stupito di scoprire che non gli interessava un gran ché, né dell’una né dell’altra possibilità. Si sentiva appagato come non gli succedeva da anni, a questo punto era troppo tardi per tornare indietro, andasse come doveva andare… Alla fine, raccolte le forze, si trascinò fuori dall’isba, deciso a farsi un bagno gelato per schiarirsi le idee.

La donna era lì, lo aveva preceduto e stava nuotando placida nel punto più profondo del fiume.

Ilija la guardò a lungo, riconoscendo nella sua pelle candida di albina, negli enormi occhi obliqui, quasi completamente riempiti dall'azzurro dell'iride, nella bocca grande, con gli angoli che si curvavano leggermente all’insù in un sorriso perpetuo e sardonico, nel naso camuso e nella mascella quadrata, tante e tante somiglianze con la sua forma animale.

Si tuffò e la raggiunse, nuotando a larghe e rilassate bracciate. Katja, che aveva continuato a nuotare in su e giù durante il suo esame, con incurante civetteria, gli sfuggì, nuotando lentamente nella direzione opposta.

Ilja cercò ancora di avvicinarsi, chiedendosi oziosamente se l’avesse offesa in qualche modo. Ella si allontanò di nuovo, gettandogli un occhiata maliziosa da sopra la spalla. Ilija era perplesso: forse era delusa perché si era addormentato subito, la sera prima. Rimase fermo a guardarla.

Katja si mosse di un paio di metri nella sua direzione, mormorando qualche parola di una lingua sconosciuta, con una voce bassa e sensuale. Almeno non sembrava arrabbiata, forse non lo avrebbe sbranato.

Ilja diede qualche bracciata nella sua direzione. Ella gli sfuggì ancora. La pelle chiara luccicava al sole, le spalle rotonde emergevano appena dall'acqua e intuiva a appena l'angolo delle scapole. La notte scorsa non aveva potuto vederla bene: era così buio. Ma ricordava il suo profumo e la sua morbidezza, che si riaffacciavano invitanti alla sua memoria, stuzzicando il suo desiderio.

Provò a raggiungerla.

Inutilmente.

Katja non sembrava intenzionata a lasciarsi prendere, eppure, ogni volta che egli si arrendeva e faceva per abbandonare la caccia, si avvicinava inarcando il collo aggraziato e ronfando parole incomprensibili, finché lIjia non si convinceva che, questa volta, si sarebbe lasciata catturare.

Prima di rendersene conto, era completamente perso nel gioco, concentrato con tutto sé stesso nel tentativo di conquistare quell'obbiettivo sfuggente. Le pietre incastonate nel suo petto e nel suo collo pulsavano, reagendo alla sua eccitazione. La lontananza pareva rendere il corpo di Katja ancora più attraente.

Doveva prenderla, affondare le mani nei capelli d’argento, stringere il corpo formoso e mordere le spalle lisce. E all’improvviso Katja era fra le sue braccia e lo baciava con passione quasi feroce.

Gli stringeva il volto tra le mani, allacciandogli le gambe intorno alla vita. I suoi seni rotondi e venati d'azzurro, si schiacciavano contro il suo petto e i capezzoli turgidi sfregavano contro le pietre.

Le avvolse la vita con le mani, premendole i pollici contro il ventre piatto.

La sera precedente l'aveva toccata appena.

Katja lo aveva baciato a lungo, con voluttà, succhiando e mordendo le sue labbra e riempiendogli bocca con la sua lingua vellutata, mentre le sue mani, calde pur nel freddo della notte, si intrufolavano sotto le coperte e studiavano il suo corpo, disegnando il profilo dei suoi muscoli scolpiti, risvegliando un tumulto assordante nel suo sangue.

Le coperte che lo avvolgevano, il peso e la forza sovrumana della berserkyr, ma soprattutto il terrore che quel sogno irreale e conturbante potesse svanire, gli avevano impedito quasi di muoversi. Si era sentito completamente succube di quell’apparizione notturna e sensuale.

Strinse con più forza, per sollevarla e avere miglior accesso alla sua bocca speziata.

Katja si lasciò sfuggire un ruggito stizzito, improvvisamente innervosita e gli affondò le dita nelle spalle, mordendogli dolorosamente la nuca.

Ilija allentò la presa, sconcertato e, lentamente, la pressione dei denti aguzzi diminuì. La donna ricominciò a leccarlo e a baciarlo, risalendo il suo volto fino alla bocca. Egli lasciò scivolare prudentemente le mani verso i suoi glutei, timoroso di irritarla ulterormente, seguendo con le dita la curva della schiena.

Era imprevedibile. Così diversa dalle donne che conosceva che cercavano solo di compiacerlo, così diversa da Katarina Aleksandrovna che premeva, sulle sue labbra, baci come sigilli.

La notte, improvvisamente, si era staccata da lui e aveva strappato via le coperte rabbiosamente, lasciandolo a rabbrividire di freddo. L'aveva fissato dall'alto in basso, con un sorriso famelico, prima di abbassarsi a baciargli il petto e le spalle, bloccandolo a terra, una mano sul deltoide, l'altra, possessiva, sul quadricipite della gamba opposta.

La sua lingua che lo studiava, curiosa e indagatrice, egocentrica e indifferente, lo aveva eccitato più di quanto non avessero mai fatto le donne di piacere a San Pietroburgo. Eppure non aveva mosso un muscolo, per sottrarsi alla presa di Katja e toccarla a sua volta, si era lasciato travolgere da lei, completamente succube della sua malia.

Nell'acqua gelata, il corpo di Katja sembrava avere una temperatura ancora più innaturale, come di un uomo in preda alla febbre. Ilja la schiacciò contro di sé, godendo di quel calore, eccitato dalla sensazione dell'acqua che scorreva tra le loro gambe e mescolava i suoi riccioli neri e la peluria argentea della donna.

Ella ronfava, contro il suo collo, per poi inarcarsi indietro per lasciare spazio ai suoi baci affamati. Affondò le dita nei suoi glutei armoniosi e Katja si spinse contro di lui, con un ansito di piacere.

Lo stesso che era sfuggito a Ilija, quella notte, quando ella aveva fatto scivolare la mano dalla sua coscia, avvolgendo il suo membro eretto e impaziente. L'aveva tenuto in sospeso, giocando con il suo desiderio, senza dargli soddisfazione, mentre lui si abbandonava alla sensazione delle sue dita che lo stringevano. Non pareva esserci stata, in quei gesti, alcuna malizia, né alcuna premeditazione. Katja pareva, bensì, trovarci un suo proprio, personale ed egoistico piacere. Quel suo atteggiamento l’aveva affascinato.

Adesso, sentirla reagire al su tocco, lo eccitava ancora di più. Le baciò la gola e le spalle. La donna si piegò ancor più all'indietro, gemendo rauca di desiderio. Sfuggì alla sua presa, scivolando nell'acqua. Si allontanò, muovendosi sinuosa nella corrente, fino a un masso bruno. Ilija le passò un braccio intorno alla vita, premendo l'inguine contro i suoi glutei. I capelli argentei le si incollavano, lucenti, sulla schiena, e ondeggiavano intorno a lei. Il collo occhieggiava candido fra le ciocche. Ilija si chinò a morderlo, segnando uno a uno, con le labbra e con la lingua i rilievi delle vertebre. Katja ronfò di approvazione, appoggiandosi contro la roccia.

"Katja" mormorò egli in affannata e rauca risposta, con una voce che non si riconosceva, mentre affondava una mano in lei per aprirla a sé.

Non poteva aspettare di nuovo che ella, annoiata del suo gioco, smettesse di stuzzicarlo e, strusciando il ventre sul suo inguine, si sollevasse, nella luce cilestrina della notte siberiana, per poi accoglierlo, finalmente, nel suo alveo caldo, con ansiti spezzati di piacere, cancellando del tutto ogni razionalità ancora gli restasse. Non avrebbe aspettato che lei lo portasse al piacere con i suoi movimenti selvatici, graffiandogli il petto con le dita e contorcendosi senza quasi guardarlo.

Invece insinuò le dita nelle pieghe delle sue anche e la prese, rimanendo quasi senza fiato per la sensazione di essere stretto da lei.

Ella ansimò, inclinando il capo all'indietro e schiacciandosi contro lo scoglio per aiutarlo a penetrarla e Ilija prese a muoversi dentro di lei con affondi ritmici e decisi, talmente perduto nel suo desiderio, da essere incurante di provocarle dolore spingendola contro la superficie dura.

Non che la donna paresse curarsene più di lui, anzi ansimava e quasi gridava, senza vergogne e senza finzioni, eccitando la sua passione.

Ilija si chinò su di lei stringendole un seno fra le mani, cercando di sentirla completamente, con ogni centimetro della sua pelle, mentre scivolava in un turbine di luce confusa, che gli vibrava nelle gambe e nel ventre.

Katja ringhiò contraendosi e strusciandosi contro di lui, perdendo il ritmo che avevano seguito.

Si aggrappò a lei e cadde, con lei, nella luce.

Questa volta Ilija non si addormentò e non se la lasciò sfuggire.

Continuò a stringerla teneramente per molto tempo, dopo che avevano finito, parlandole di tutto ciò che gli veniva in mente.

Sapeva che lei non capiva una parola, ma continuare a parlare era un modo per trattenerla e prolungare quel momento di intimità.

“Non ti chiami Katja vero? E’ un nome da umani, un nome stupido, neanche un po’ adatto a te. Vorrei sapere come ti chiami davvero, devi avere un nome selvatico, sensuale, bellissimo come te. Sai come mi chiamo io? Anche io ho un nome stupido, ma sono stupido anche io. Uno stupido uomo, uno stupido principe, uno stupido capitano: Ilija”.

Inclinò la testa incuriosita, stringendo gli occhi, improvvisamente interessata.

“Hai capito? Ti ricordi? Te l’ho già detto quando facevi la tigre. Io sono Ilija” Si appoggiò una mano sul petto “Ilija”.

Le labbra di lei si stirarono in un sorriso compiaciuto, mentre un profondo ronfare le saliva dal petto, come le fusa di un gatto.

“Ilia” mormorò.

“Sì” rispose lui deliziato “Ilija e tu…” titubò dubbioso, mentre la indicava “..Katja..?”.

Lei rise, con una risata profonda e calda come le sua fusa. “ Denzir Nuur” disse indicandosi.

Ilija si sentì travolgere dalla gioia “Denzir Nuur” ripeté, stringendola. Conoscere il suo nome era come poter rafforzare il legame che la univa a lui. Un legame che, la parte ancora razionale di Ilija sapeva bene essere estremamente labile.

“Oggi scendo giù, al paese, ti cerco qualche vestito. Ti porto con me a San Pietroburgo. Sì, ti porto davvero, perché non dovrei? Ci sono un sacco di berserkyr in città. Certo nessuno neanche lontanamente bello e forte e selvaggio come te, ma pur sempre berserkyr. E tantissimi hanno un compagno berserkyr”.

Lo stomaco di Ilija si contrasse, era vero che molti avevano compagne berserkyr, ma erano prostitute, poco più di schiave, disposte a giacere con gli umani per raggranellare il denaro necessario ad arrivare a fine mese. Concubine e cortigiane di lusso, nel migliore dei casi, che attraevano gli uomini con il loro fascino esotico. Voleva forse fare di Katiusa una di loro? “So di qualcuno che ha addirittura sposato una mannara” mormorò dubbioso.

La chiesa ortodossa negava che i berserkyr fossero dotati di anima, dubitava che avrebbero mai dato l’approvazione a un matrimonio misto.

Katja, in ogni caso, non sembrava preoccuparsene.

I vestiti glieli portò veramente. Li aveva scelti con cura, girando da una bottega all'altra con scarso successo, dispiaciuto di non trovare niente di più bello e ricco in quel luogo sperduto. Avrebbe voluto poter abbigliare Katja come una principessa, invece quello che gli veniva proposto, tra gli sguardi stupiti o complici dei mercanti, erano abiti di lana grezza, bruni o grigi, adatti al massimo alla figlia di qualche casata minore. Si sentì particolarmente orgoglioso di essere riuscito a scovare una gonna di seta porpora, che gli era stata descritta come un oggetto di rara bellezza, ma che a San Pietroburgo sarebbe stata considerata modesta fin quasi al ridicolo.

Doveva essere arrivata al paese molti anni prima e aver giaciuto dimenticata fino a quel momento, inadatta com'era al clima di quei luoghi, ma per Katja il freddo non era un problema

Quando glieli presentò, la donna rise come sempre, con la sua risata profonda. Li stropicciò un po' con le dita e si avvolse civettuola nel mantello di pelliccia bruna, ma non mostrò il minimo interesse a indossarli.

Tentò di infilarle un corpetto e la gonna: magari non sapeva come fare, o a cosa servissero gli stracci che le porgeva. Denzir Nuur lo lasciò fare, senza però aiutarlo in alcun modo, fissandolo maliziosa da sotto le lunghe ciglia.

Ilija sospettava che la donna si divertisse un mondo, a vederlo affrontare goffamente i complicati misteri dell'abbigliamento femminile. Ne ebbe la riprova quando Katja si tuffò nel fiume, strappando gli abiti e rovinando il risultato di tutti i suoi sforzi.

Si sentì deluso e vagamente offeso. Possibile che non si rendesse conto di quanto lo preoccupava l'idea di doversi separare da lei? Poteva mostrare un minimo di gratitudine per tutto quello che stava facendo per lei e mostrarsi almeno un po' interessata a risolvere i problemi che lo turbavano.

La donna emerse dall'acqua, con i resti stracciati del corsetto che coprivano appena uno dei seni, e un brandello di seta che le si avvolgeva intorno a un fianco. Il rosso, scurito fin quasi al nero dall'acqua, evidenziava per contrasto la sua carnagione alabastrina. Ancheggiava sensuale e provocante, sprezzante del vento freddo che spirava, i piedi nudi che affondavano nella neve senza un suono. Rivoli lucenti sfuggivano dalle sue ciocche argentee, per disegnare arabeschi luminosi lungo le braccia tornite e il corpo soffice.

Il malumore di Ilija cedette con la stessa facilità illogica delle mura di Gerico alle trombe di Giosué.

Per i quattro giorni seguenti, ignorò volontariamente la precarietà della situazione e annidò le preoccupazioni in qualche angolo polveroso dell’animo.

Sarebbe andata come sarebbe andata. Se doveva rinunciare a Katja dopo averla stretta appena per un attimo, almeno si sarebbe goduto il tempo che gli restava con lei.

La sera dell'ultimo giorno, imballò i suoi averi e li sistemò accanto alla porta dell'isba, con un presentimento di dolore che galleggiava sfuggente tra i suoi pensieri.

Katja si rotolava indifferente tra le pellicce, ma seguiva con gli occhi felini ogni suo movimento. Quando fecero l'amore, quella sera, lei era ancora più selvaggia e irritabile del solito e lasciò lunghe tracce rosse sulla schiena di Ilija. Egli, d'altra parte, l'amò con passione disperata, ubriacandosi del suo odore, nel tentativo di scacciare ogni pensiero.

Il mattino seguente Ilja si svegliò solo: Katja non si vedeva da nessuna parte. Che avesse deciso di batterlo sul tempo e andarsene prima che lo facesse lui?

Depresso e rassegnato a tornare a quella vita che gli era così estranea, dopo quel breve e effimero attimo di appagamento, caricò i suoi bagagli sul cavallo da soma e prese a sellare svogliatamente lo stallone.

Quando ebbe finito, incapace di staccarsi, una volta per tutte, dai quei luoghi, tornò a riempire le borracce con l'acqua della fonte limpida in cui aveva nuotava con lei, fino al giorno prima.

L'idea di riprendere il suo posto nell'esercito e di sposare Katarina gli era insopportabile, eppure gli mancava la forza di ribellarsi a quei precetti così radicati nel suo animo. Non c'era altro che potesse fare. Avrebbe voluto essere come Katja, indomabile e volubile, invece era incapace di liberarsi delle sue catene. Invidiò la tigre che, senza dubbio, era tornata alla sua vita selvaggia senza alcun rimpianto.

Con un sospiro salì a cavallo e voltò lo stallone verso valle.

Gli zoccoli dell'animale affondavano nella neve, con uno scricchiolio piacevole e malinconico e, lentamente, dietro di lui l'isba svaniva nella bruma mattutina, insieme al sogno inconsistente di poter essere vivo veramente, con un cuore pulsante e sangue caldo nelle vene.

La tigre giaceva di traverso sul sentiero, occupandolo interamente, le labbra nere sollevate in un sorriso beffardo. Il suo sciocco umano sarebbe passato di là prima che il sole si sollevasse oltre l'orizzonte. Non se lo sarebbe fatto scappare, si trattava solo di aspettare.

Sbadigliò mettendo in mostra le zanne candide e l'interno rosso delle fauci: non era mai stata a San Pietroburgo.

Chissà com’era.

Un'immagine di Denzir, che rivela da quanto ci stavo pensando

http://www.elfwood.com/art/j/o/jockerylou/tigre.jpg.html

  
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