- Scusami, Oliver – Oh, come pronunciava il mio nome! Lo faceva sembrare più lungo, più sensuale. – Devo assolutamente tornare al campus, o finisco per non trovare niente per cena. –
Dalle sue parole capii che era passato davvero tanto tempo e, ora che ci ripenso , credo che lui avesse guardato spesso l’orologio, cosciente in ogni istante dei minuti che passavano. Ma all’epoca quel pensiero non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello e mi alzai con lui, insistendo per pagare almeno la mia parte, ma lui non cedette. Era un altro gesto educato, pensai. Presi la tazza, che non avevo ancora finito, e lo seguii fuori dal bar, dove io dovevo andare a sinistra e lui a destra, salutandoci per rivederci chissà quando. Ma lui non era della stessa idea. Mi prese la tazza dalle mani e ci scrisse sopra il suo numero.
- Devo ancora assicurarmi che tu non ti sia fatto male. – fu la sua giustificazione, accompagnata da uno scrollare di spalle, per poi andarsene, salutandomi con un gesto della mano. Mentre io me ne stavo lì in piedi, con la tazza in mano e il sorriso sulle labbra.
Che stupido che ero, solo un illuso che voleva credere a tutto, ma l’ho capito troppo tardi. Mi giro sulla sedia per guardare la libreria alle mie spalle ed eccola lì, quel piccolo cilindro di cartone con i numeri scritti in penna, a guardarmi come se lei fosse l’arma del delitto, un’accusa schiacciata davanti alla mia faccia. Mi alzo e la accartoccio tra le mani, questo almeno mi fa sentire un po’ meglio.