Fanfic su artisti musicali > One Direction
Segui la storia  |      
Autore: Ammimajus    06/07/2013    2 recensioni
Non ero mai riuscita a gestire i miei devastanti e contrastati sentimenti, gli stessi che avevano lacerato la mia giovane esistenza in tante piccole pezze. Non ero mai uscita vincitrice da una sola delle battaglie combattute contro me stessa, per questo motivo il confronto con gli altri mi intimoriva fino a farmi confinare nel mio guscio.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Hola, belli!
Avevo promesso che sarei rimasta lontana da Efp per un po', ma non ce l'ho fatta. Ho iniziato una nuova long, più precisamente il sequel di una fic che ho scritto un po' di tempo fa. State tranquilli: anche se non avete letto la prima fic, potrete tranquillamente seguire gli avvenimenti di questa, perché spiegherò ogni cosa. Ho inserito la storia nella categoria "One Direction", è vero, ma quei cinque compaiono come personaggi secondari, quindi potrete avventurarvi anche se non appartenete al mio fandom. 
Se questo capitolo ha visto la luce, ringraziate la canzone Something, dei Beatles, perché mi ha accompagnato durante tutta la stesura di questo “incipit”. Non ho più niente da dire, ad esclusione del fatto che spero vivamente che questa storia vi piaccia, anche se ciò che ho pubblicato è solo un piccolo inizio. 
Cassie. x





CAPITOLO 1. 

 

« Carlos, vieni qui! Piccolo, non correre così, potresti… Ah, dannazione! »
Sbuffai. Stava iniziando ad imbrunire, la volta celeste cominciava ad essere screziata dall’arancione di un sole ormai pallido. Non era il caso di rimanere fuori ancora per molto, con il mare grosso e la notte incombente.
«Criança, ti avevo detto di non correre! Guardati, sei tutto sporco di sabbia. Ti sei fatto male? »
Parlare a Carlos era come inveire contro il vento. Non prestava ascolto, tutto preso dal suo nuovo passatempo. Con addosso solo un paio di mutandine bianche, rotolava sulla sabbia ridendo allegramente. Non mi riusciva di rimproverarlo, con quelle piccole fossette appena scavate che gli incorniciavano le labbra rosee e un paio di cosce paffute che si dimenavano, in preda all’euforia. Il suo riso beato e innocente mi ricordava le mie vecchie fotografie, quelle che conservavo nella scatola di cuoio, sotto il letto. Anni felici, prati verdi, freddo pungente e braccia pronte a stringermi.
« Posso giocare un altro po’? » chiese Carlos, le iridi biancastre puntate nelle mie. Ormai fermo, aveva iniziato a rigirarsi tra le dita le ciocche dei miei capelli, ormai lunghissimi e curati.
« No, honey. È ora di cena. Domattina ti porto di nuovo qui, è una promessa ».
« Cosa mangiamo? » domandò ancora, rizzandosi a sedere con un gesto fulmineo. Il sorriso non aveva smesso di illuminargli il volto, gli occhi sembravano più brillanti e spaventosi che mai.
« Non lo so, Carlito. Sarà una sorpresa! » ridacchiai. Mi avvicinai al suo viso e gli scoccai un bacio sulla guancia.
« Puoi prendermi sulle spalle? »
Carlos allungò le braccia, tirando verso il basso la mia maglia. Diedi una scossa veloce ai suoi boccoli castani e gli rivolsi un grande sorriso, reperito chissà dove.
« Un tempo l’avrei fatto, sai? Adesso però sei un ometto e non riesco più a reggerti. E poi gli uomini camminano » azzardai, sperando di punzecchiare il suo orgoglio.
Carlos sfoderò un’espressione arrogante –ah, sapevo benissimo da chi aveva appreso a sorridere in quel modo!- e spiccò un balzo considerevole per un bambino della sua età. Si mise a correre rapidamente per la spiaggia, fino al punto in cui questa incontrava la strada. La zona che campeggiava a ridosso della baia era un alveo straripante di altissimi palazzi, automobili sfreccianti e negozi lussuosi. Carlos sembrava piccolo e indifeso, mentre correva a gambe nude verso il clangore metropolitano.
« Carlos, fermati, devi metterti i pantaloncini! » lo rimbrottai, sforzandomi di apparire inflessibile e categorica. Avevo perso con il tempo l’attitudine ad impartire ordini in modo perentorio, sicché non era rimasto nulla della mia antica risolutezza, così come dell’insensibilità.
Carlos non mi prestò ascolto. Delle volte mi ricordava me stessa, quando da piccola, incurante di indossare le scarpe, scappavo via dalle braccia di mia madre e immaginavo di approdare in altri mondi, dove nessuno imponeva regole e limiti. L’unico effetto che tale atteggiamento sortiva, puntualmente, era la suscitata disperazione di mia madre, unita ad un duro rimprovero.
Allungai il passo e afferrai Carlos per una mano, tirandolo verso di me qualche istante prima che si gettasse sulla strada, pronto ad attraversare senza aver neppure guardato i veicoli provenienti da entrambe le carreggiate. Lo sollevai da terra e me lo sistemai bruscamente in braccio. « Alla fine hai vinto tu, eh? » dissi, con un’ammonizione che sembrava davvero poco un rimprovero e molto più un’offerta di pace.
Carlos ridacchiò e affondò il viso tondo nell’incavo del mio collo. Stava chiaramente approfittando della mia pazienza.
« La prossima volta ti porto in giro con un guinzaglio, come si fa con i cani » tuonai a quel punto, leggermente irritata.
Il bambino finì per non prendere sul serio nemmeno quella minaccia. Dal momento esatto in cui si era alzato dal letto, al mattino presto, si era creato una sorta di bolla di sapone che consisteva nel voler vivere la giornata perfetta, senza curarsi delle regole e delle precauzioni. Non aveva smesso di ridere e giocare nemmeno all’ora di pranzo, con un piatto di minestra poggiato sul tavolo al posto della torta al cioccolato di cui aveva fatto richiesta.
Accasciato sul mio petto, si muoveva di continuo, incuriosito da questo o da quel particolare fortalezense.
Passò dall’indicarmi un omaccione vestito in modo così colorato da sembrare la reincarnazione di Arlecchino, fino ad additare una donna, che portava a spasso un cagnone di taglia troppo grande e si lasciava trascinare dalle virate brusche di quest’ultimo.
« Quella è una gi! » urlò ad un certo punto, stringendo le mani attorno al mio collo per attirare l’attenzione.
« Cosa? » farfugliai, interdetta a causa del tono di voce che aveva utilizzato.
« Guarda quel cartello –nel dirlo Carlos additò l’insegna di una rimessa per automobili, tirata a lucido- quella è una gi! »
Il cartello, giallo e appariscente, ospitava una grossa gi nera troneggiante, in bella grafia. « Bravissimo! » esclamai, improvvisamente rabbonita.
« Mi hai insegnato a scriverle tre giorni fa » asserì Carlos, assumendo un cipiglio orgoglioso.
Scoppiai a ridere a lo strinsi forte, fino a farlo lamentare, “ché sembra di stare chiusi in gabbia”.
« Carlos, adesso scendi, suvvia! Non ce la faccio più a reggerti ».
Fui sorpresa dall’immediata obbedienza del piccolo. Probabilmente aveva avuto modo di notare la mia espressione contrita e affaticata e aveva deciso di prestarmi ascolto. In un primo momento, Carlos poteva apparire come un bimbo prepotente e viziato, ma lo conoscevo abbastanza da affermare che era tutto il contrario. Riusciva a mostrarsi incredibilmente compassionevole e molto altruista, specialmente se ero io quella in difficoltà.
Gli allungai i pantaloncini e lo osservai, mentre con molta flemma se li infilava e li abbottonava, senza staccare lo sguardo da me.
« Stai bene? » chiese, prendendomi per mano. Le sue piccole dita sembrarono scomparire nelle mie, ora gonfie e callose. Occuparmi della casa e di un bambino erano mansioni che non mi erano mai spettate, nella mia vecchia vita. Né mia madre le aveva mai svolte. Avevamo un conto in banca sufficiente a mantenere una governante che si prendesse cura di ogni cosa. Avevo imparato qualcosa in più circa l’economia domestica quando avevo vissuto con le mie amiche, ma mai avrei pensato che responsabilizzarsi e occuparsi di una famiglia –una vera famiglia- richiedesse così tanto sforzo.
« Benissimo, sono solo un po’ stanca » affermai, seria.
« Anche se è tardi, non potremmo fare una visita agli zii? » domandò Carlos, arricciando le labbra in un broncio assai supplichevole e poggiando la testa sul mio addome.
L’idea di incontrare Dan e Rosie mi affascinava abbastanza, ad esser sincera. Non li vedevo da un po’, a differenza di Carlos, e non mi sarebbe dispiaciuto passare a casa loro per un saluto veloce. Certo, il dolore acuto che avvertivo all’altezza della schiena mi faceva desiderare di tornare a casa e stendermi sul divano, ma in fin dei conti avrei potuto sopportarlo, pur di ricevere una nuova ondata di calore umano.
La casa di Dan e Rosie non era molto lontana dalla nostra, in cinque minuti a piedi era perfettamente raggiungibile. Per questo mi armai di buona volontà e assecondai la richiesta di Carlos, che in fin dei conti non mi era per niente sgradita. Con il bambino che mi incitava ad affrettare il passo, nel giro di pochi minuti ci trovammo a suonare un campanello d’ottone.
Il portoncino rosso all’ingresso della casa era solo un piccolo accenno dell’atmosfera raccolta ed accogliente che si poteva cogliere quando vi si entrava.
Dan era il proprietario di un’azienda di import-export di medie dimensioni e, per quanto non avesse nessun problema di tipo economico, aveva preferito una casa non troppo grande, di cui potersi occupare personalmente, piuttosto che un appartamento all’ultima moda, come se ne vedevano nei quartieri ricchi di Fortaleza. L’abitazione, nella sua modestia, sembrava portare una ventata di inglesismo in un ambiente che mostrava in tutto e per tutto la sua meridionalità.
I colori dell’ingresso, così come quelli del resto della costruzione, erano tenui e pacati, atti a conferire quella serenità di cui Dan aveva bisogno una volta tornato dall’ufficio.
« Buongiorno, Cassie! E ciao anche a te, piccoletto! » esclamò Rosie, non appena ci vide. Riservò a me un abbraccio caloroso e a Carlos un buffetto veloce. « Era da un po’ che non ti vedevo, mia cara ».
« Lo so, Rosie. Scusami. Ma a quanto pare il mestiere di casalinga è il più faticoso del mondo » sbuffai, alzando gli occhi al cielo.
« Dov’è Michael? » chiese a quel punto Carlos, più impaziente e impertinente che mai.
« Ehi, moccioso! » ululai io di rimando « Sii educato e saluta gli zii, prima di pensare a tuo cugino » lo richiamai, dato che lui aveva già iniziato a correre per tutta la casa in cerca di Michael.
Carlos mi sfidò per qualche istante con lo sguardo, ma quando vide che la mia espressione severa non accennava a scomparire, chinò il capo e obbedì. Andò prima a baciare Rosie, e poi si diresse verso Dan, adagiato sul divano a fumare il suo sigaro.
« Buongiorno, ragazzi » mormorò l’uomo, abbracciando Carlos.
« Posso andare da Michael? »
A Rosie scappò una risatina divertita. « Michael è fuori con alcuni suoi amici, tesoro » lo informò.
Carlos restò deluso da quell’affermazione. Incrociò le gambe all’altezza del petto e si gettò sul divano, sbuffando rumorosamente. « Tu che stai facendo? » chiese, seduto accanto a Dan, rivolgendo un’occhiata al computer che si trovava sulle gambe dello zio.
« Guardo un po’ come vanno i titoli azionari. E direi che la situazione è pessima » rispose quest’ultimo, esponendo parole e concetti che il piccolo non era in grado di comprendere nemmeno lontanamente.
« Preparo un po’ di caffè, ragazzi? » suggerì Rosie, chinandosi un poco per ritrovarsi quasi all’altezza di Carlos. « Per te niente caffè, posso darti un grosso, grossissimo gelato » ridacchiò, e spalancò le braccia come a voler indicare le dimensioni del gelato, nel tentativo di rincuorare Carlos.
« Ti do una mano » mi approntai, dirigendomi verso la cucina senza che nessuno mi avesse accordato il permesso di metterci piede.
Rosie mi seguì senza protestare, avvertivo i suoi passi leggeri e veloci che si muovevano lungo la scia della mia andatura cadenzata. Avevo iniziato a sudare copiosamente e qualche ciocca di capelli, ormai madida, mi si era attaccata alla fronte. Scossi il ciuffo con un gesto della testa e legai la mia lunga chioma in una coda di cavallo morbida e informe.
« Ti vedo stanca, Cassie » constatò Rosie.
La conoscevo da quattro anni ormai e non mi riusciva difficile interpretare la sua personalità semplice e schietta. Rosie diceva sempre ciò che pensava, attenuando al meglio le sue affermazioni, perché, nella loro cruda verità, apparissero quanto più possibile cortesi.
Aveva lunghi capelli rossi e un incarnato pallido quasi quanto il mio, in cui due piccoli occhi verdi, slavati dalla monotonia, scattavano saettanti, sempre in cerca di una preda. Rosie era un’attenta osservatrice e un’ancor più minuziosa analizzatrice. Era difficile che qualcosa sfuggisse al suo sguardo sottile, poco importava che fosse una notizia importante o un dettaglio insignificante. Ma nel complesso, questa sua disposizione d’animo non appariva per niente irritante. Era una donna affascinante, aggraziata ed educatissima. Ma, sopra ogni altra cosa, era sincera: una qualità che io apprezzavo smisuratamente nelle persone.
« E’ che… sono solo annoiata » balbettai in mia difesa, sperando che le mura di carta costruite attorno a me non crollassero sotto il setaccio che era il suo sguardo.
Speranza vana, per quanto forte. Non ero riuscita a nascondere il mio sguardo vacuo al bambino che era Carlos, men che meno sarei riuscita a farlo al cospetto di una quarantenne apprensiva che mi aveva accolto nella sua vita come una figlia.
« Ne sei sicura? » insistette, affondando il verde dei suoi occhi nell’azzurro dei miei.
Mi sentii intimorita da quello sguardo. Se c’era una cosa di me che negli anni non era mutata, era senza dubbio la mia esitazione nel mettere a nudo le mie emozioni di fronte alle altre persone. Non ero mai riuscita a gestire i miei devastanti e contrastati sentimenti, gli stessi che avevano lacerato la mia giovane esistenza in tante piccole pezze. Non ero mai uscita vincitrice da una sola delle battaglie combattute contro me stessa, per questo motivo il confronto con gli altri mi intimoriva fino a farmi confinare nel mio guscio.
Ma decisi comunque di essere sincera, perché mi ero troppe volte ripetuta che dovevo riuscire a fidarmi di qualcuno. « No » sentenziai, lasciando pericolare il capo verso il basso. « E’ che, lo ricordo come se fosse adesso… » spiegai, poi feci una pausa e presi un grosso respiro « Era proprio questo il periodo in cui mi sono trasferita a Londra con le mie amiche, qualche anno fa. Se solo avessi saputo che quello sarebbe stato l’inizio della fine, beh… non avrei mai dato l’esame finale e sarei rimasta in Scozia, con i miei genitori ».
« Ma a te non piaceva stare con i tuoi genitori… » ribatté Rosie, nel tentativo di farmi comprendere che non c’era nulla di sbagliato in ciò che avevo fatto.
« Sì, ma sarebbe stato meglio rimanere con loro che separarmi dalle mie amiche ».
« E’ il corso delle cose, Cassie. Quello che noi mortali chiamiamo Destino » proclamò lei, facendo spallucce, come se quella fosse la conclusione più ovvia.
« Io non credo nel destino » asserii, infastidita dalla piega che aveva preso la conversazione. Presi a frugare nella dispensa, cercando una miscela di caffè che andasse bene a Dan.
« E’ un male. Se non credi nel destino, non credi nella speranza ».
Rosie si avvicinò a me e mi fece cenno di spostarmi. Si chinò verso le mensole inferiori delle credenza ed estrasse la polvere di caffè. Iniziò a preparare doviziosamente la bevanda che il marito attendeva impaziente in salotto e  poi restò ad osservarmi, finché non sentì che il caffè stava risalendo.
Il resto della visita fu molto silenzioso. Carlos divorò il suo gelato in tutta fretta e mentre Rosie serviva dal bricco di metallo il caffè, versandolo nelle chicchere colorate che aveva poggiato sul vassoio.
Trascorsi tutto il tempo in cui bevevo a osservare attentamente la figura di Dan, che stava sommessamente chiacchierando con Rosie. Da quando si era traferito in Brasile, dopo la chiusura dell’attività in Inghilterra, aveva deciso di rassomigliare quanto più possibile agli uomini del Sud. “Devo pure ambientarmi”, si giustificava sempre lui, ogni qualvolta che Carlos lo scherniva per il suo aspetto bizzarro. Si era fatto crescere un paio di baffi lunghi e ispidi, le cui punte erano sempre rigirate all’insù, neanche fosse un pistolero uscito fuori da un film western. I capelli non avevano accennato a ingrigirsi: si vedeva solo qualche filo bianco qua e là, ma per i suoi quarantasei anni, Dan era ancora giovanissimo. Appena aveva un po’ di tempo, scendeva in spiaggia, armato di abbronzante, rigorosamente ordinato via Internet, e si stendeva al sole per far colorare la sua pelle candida. In breve, riusciva a diventare dello stesso colorito che i brasiliani avevano d’inverno, quando le temperature si abbassavano leggermente e si stava un po’ più coperti. Degli abiti colorati avevano già da tempo sostituito il suo formale guardaroba inglese e una chioma più ribelle e lucente aveva preso il posto di un’acconciatura sobria e scialba.
Ma c’era una cosa che Dan non era riuscito a far cambiare. Perché non c’era rimedio a quel verde chiarissimo, innaturale e fulgido che troneggiava sul suo viso come la più spaventosa delle minacce. Era come se il verde dei suoi occhi assorbisse ogni cosa, guastasse l’attraente regolarità dei suoi lineamenti e l’affabilità del suo sorriso.
C’era qualcosa, in quel verde, che rendeva Dan unico e speciale. C’era qualcosa di quegli occhi che un tempo era appartenuto anche a me.
« Andiamo a casa? » fu così che Carlos mi ricordò che il mondo esisteva ancora, al di là del mio passato e al di là degli occhi di Dan. Il piccolo poggiò la testa sul mio grembo e mi poggiò le sue braccia sulla vita, come a volermi trascinare via da quella casa. Iniziava ad essere stanco e io, spossata più di lui, non potevo fare altro che accogliere di buon grado la proposta di tornare a casa.
« Sì, Carlito. Mi sa che è ora ».
Feci per alzarmi, quando Rosie mi rivolse un’occhiata apprensiva.
« La cena sarà pronta » mi giustificai a quel punto, sperando che una risposta vaga la soddisfacesse. Era una speranza vana, ne ero consapevole, ma volevo porre fine alle domande, alle preoccupazioni e a quell’intero periodo, così carico di tensione, apatia e, sopra ogni altra cosa, nostalgia.
« Buona serata, ragazzi » salutò Dan, sfilandosi la pipa di bocca e sventolando allegramente la mano. Almeno lui sapeva lasciarsi scivolare addosso ogni cosa.
Rosie, di contro, ci accompagnò alla porta, tenendo una mano sulla mia spalla. « Passerà » mi disse, quando mi accostai a lei per salutarla con un bacio sulla guancia.
Le riservai un abbraccio veloce e mi trascinai dietro un Carlos ormai svogliato, che faceva i capricci e si aggrappava pesantemente al mio braccio.
« Ciao » mormorai infine, e mi chiusi la porta alle spalle.
L’aria inquinata di Fortaleza mi accolse con violenza, strappandomi dal pressante calore della casa di Dan e Rosie e catapultandomi per le vie trafficate, in cui si avviavano passanti e bicilette, automobili e motorini. I palazzi, nel buio ormai consolidato della sera, svettavano paurosamente sopra i miei occhi.
Non era il mio posto, quello. Non lo sarebbe stato mai.
Perciò presi in braccio Carlos –incurante, a quel punto, di ogni sorta di dolore fisico- e iniziai a camminare speditamente, bramosa di trovare un po’ di quiete.  
E quando guardai il portoncino scuro e suonai il campanello, potei finalmente trarre un sospiro di sollievo. Non avrei mai avuto una casa, ma forse potevo contare su un rifugio.
« Papà, siamo tornati! » urlò Carlos, dimenandosi tra le mie braccia nel tentativo di scendere.
« Finalmente! Stavo iniziando a credere che vi avessero rapiti ». 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Ammimajus