Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    06/07/2013    1 recensioni
I piccoli difetti che ce li fanno amare diventano delle vere e proprie patologie.
Otto pazienti rinchiusi in un ospedale.
Un ospedale da cui non si potrà più uscire.
Benvenuti alla clinica Welt di Berlino.
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 1

 

“Lo so che è una soluzione disperata .Ma...ma voglio provarci. Se questo servirà a riportarlo indietro, allora sono disposto anche a rimetterci io stesso.”

 
Èil rumore assordante dei freni che fanno presa sulle rotaie a svegliarmi. La carrozza si arresta bruscamente e io finisco con il naso schiacciato sul sedile davanti a me, che puzza di muffa e di vecchio. Mi stropiccio gli occhi, ancora assonnato, poi butto subito lo sguardo fuori dal finestrino appannato.
Il cielo è nuvoloso, di un triste colorito plumbeo.
Dietro di me le persone iniziano già a spopolare il vagone, spingendosi a vicenda per aggiudicarsi la prima boccata d’aria dopo un estenuante viaggio di sedici ore. Io continuo a guardare fuori e vedo già la signora con quel buffo cappello giallo, che era seduta di fianco a me, appoggiare i suoi bagagli sotto l’insegna blu della nostra destinazione: Berlino.
Sorrido allegramente, raccogliendo la valigia e mettendomi la borsa tascapane intorno al collo. Ho l’istinto di saltellare giù dai gradini del treno, tanto sono felice di essere arrivato, ma tutti questi tedeschi sembrano così seri e credo che potrebbero arrabbiarsi se facessi troppa confusione, così scendo con calma, schiacciato come una sardina dai loro corpi che urtano su di me, facendomi mancare il respiro. Non appena tocco terra poso la valigia, emettendo un profondo sospiro di liberazione.
Guardo attentamente i visi delle persone che vagano nella stazione. Cupi, seri, grigi come il cielo della loro capitale. Un po’ mi rattrista, sono sicuro che se solo qualcuno li abbracciasse anche solo una volta al giorno sarebbero tutti più felici.
Rimango fermo, di fianco al treno ancora sbuffante, e vicino a me passa il capostazione che fischia l’ultimo richiamo per i passeggeri ritardatari. Il suono acuto e assordante del fischietto non è nulla in confronto alla sua voce dura e secca, che sembra davvero fatta per impartire ordini. Credo abbia detto qualcosa come: Partenza, in carrozza! Ma non ne sono sicuro.
Rovisto tra le tasche della giacca e finalmente trovo il foglietto stropicciato su cui sono scritti i due indirizzi che mi ero prefissato di imparare a memoria. Ci ho provato, lo giuro, ma li ho scordati quasi subito. Il tedesco è una lingua così diversa dall’italiano e ho fatto una fatica immensa anche solo per imparare quelle poche frasi di estrema utilità.
 
Subito fuori dalla stazione fermo un taxi, agitando la mano per aria. Masticando un tedesco impacciato gli indico l’indirizzo dell’albergo e, incredibilmente, l’uomo mi capisce. Wow, faccio progressi!
Mentre percorriamo le grandi vie del centro di Berlino inizio già ad ispezionare il territorio in cerca della mia meta successiva. Appoggio il mento sulle braccia, incrociate sopra al bordo del finestrino che ho lasciato aperto per far entrare un po’ di aria, anche se fa freddo. Guardo le case schierate corrermi davanti con occhi malinconici.
Il pensiero di quel luogo mi rattrista, ma mi riempie anche di speranza.
Che strano... è possibile provare questi due sentimenti insieme?
 
La camera d’albergo è piccola, ma pulitissima. L’arredamento spartano è ridotto ai minimi termini. Tutto sommato non importa, d’altronde dovrò solo dormirci.
Mi massaggio la spalla indolenzita, come tutte le altre ossa, poi mi butto a pancia insù sopra al materasso, fasciato da una coperta rossa a quadri. Sembra un letto di nuvole rispetto ai sedili del treno. Chiudo le palpebre, desiderando di rimanere lì a dormire per sempre. Mille pensieri iniziano già a frullarmi nella testa e mi rendo conto, a malincuore, che non è il caso di starsene troppo a poltrire. Eppure quel letto è così soffice...
Senza alzarmi, riapro di nuovo il foglietto accartocciato, questa volta esercitandomi sulla pronuncia del secondo indirizzo, con il primo – quello dell’albergo - me la sono cavata discretamente.
Il nome dell’edificio mi sembra così difficile.
“Welt Klinischen.” Lo ripeto almeno cinque volte: voglio essere sicuro di arrivarci al più presto possibile e non è il caso di far sbagliare strada al tassista.
Mi rialzo dal materasso con un salto, poi inizio a frugare nella valigia abbandonata sul tappeto scarlatto di fianco al letto, in cerca di tutti i documenti necessari.
“Vediamo un po’... carta d’identità, passaporto, cartelle cliniche, visto d’ingresso. Ah, potrebbe essere utile anche il certificato di nascita!”
Infilo tutti i documenti nella tascapane.
I miei, ma soprattutto i suoi.
 

***

 
“Ho bisogno di vedere la sua documentazione.”
La guardia armata mi ha bloccato subito il passaggio. Lui e il suo collega sono irremovibili, fermi come statue di marmo davanti al grosso cancello in ferro nero della clinica. Sulla cima delle sbarre sono stati forgiati degli spuntoni, affilati come lance, che mettono i brividi solo a guardarli.
Vicino all’anta sinistra un uomo se ne sta acciambellato dentro ad una specie di torretta di guardia, osservando ogni mio minimo movimento. Sono tutti vestiti allo stesso modo, con delle divise bianche e larghe che mi ricordano quelle dei disinfestatori di topi. Sul taschino destro cucito sul petto ognuno di loro ha ricamato il proprio cognome, ma io non riesco a leggere nessuno dei due. Sotto le visiere dei cappelli bianchi, sempre facenti parte della divisa, i loro occhi mi squadrano e, anche se sono solo in due, io mi sento accerchiato. Forse è perché la loro arma è carica e mirata sul mio cuore.
Posso buttarmi a pancia all’aria?
La guardia che mi ha fermato mi tende la mano, dopo essersi sistemato il fucile dietro alla schiena. Il suo collega lo sta ancora imbracciando, puntandolo verso di me.
Il cuore inizia già a martellarmi dentro al petto e nemmeno il vento freddo di fine autunno riesce ad asciugarmi il sudore che sgorga dalla fronte.
Con mano tremante estraggo il visto e il documento di identità e glieli porgo. L’uomo, dopo averli sfogliati, arriccia il naso. Deve essere per via del mio nome.
“Feliciano Vargas?”
“S-sissignore.”
Lo ha pronunciato malissimo, ma non mi offendo.
“Ha il visto d’ingresso, Herr Vargas?”
“C-certo. Il passaporto e il visto sono sotto la carta d’identità.”
Lui apre il passaporto, facendolo vedere anche al suo compare, e i due si scambiano un cenno di assenso.
L’uomo che mi ha ispezionato mastica qualche parola in tedesco cattivo dentro alla radiolina. La risposta – un suono confuso e insabbiato – arriva in un battibaleno da quell’aggeggio, ma non ho afferrato niente del discorso.
“E cosa ci fa un turista come lei in questa zona di Berlino?” Mi chiede, poi.
“Veramente... non sono un turista. Io devo... devo far visita ad un parente ricoverato in questo ospedale.”
I due si guardano con aria scandalizzata.
“Visita?” Sbraita l’altra guardia, che ha finalmente abbassato l’arma.
“Questa è una zona ad alto rischio e pericolo, solo il personale autorizzato vi può accedere.”
“Ma... ma, veramente a me era stato detto che una volta all’anno si poteva entrare per far visita ai pazienti. Ecco, guardi...”
Estraggo un altro foglio su cui sono scritti articoli e leggi a me del tutto incomprensibili. È un documento vecchio, battuto a macchina, con qualche sbavatura d’inchiostro ai lati. Ma mi è stato detto che, se mi fossi presentato con quegli scarabocchi, allora sarei potuto entrare.
I due guardano quelle scritte con la mia stessa perplessità.
“La prego.” Imploro quasi piagnucolando.
Probabilmente devo avere un’aria pietosa, perché i due si ammorbidiscono. Uno di loro aggrotta la fronte.
“Se vuole, possiamo parlare direttamente con i dottori del Welt, o con la guardia interna. Non sapevamo nulla di questo giorno di visita, ma forse loro potranno aiutarvi, sono sicuramente più aggiornati di noi a riguardo.”
Sta addirittura parlando più lentamente, scandendo bene ogni singola parola.
Il mio viso s’illumina.
“Grazie, grazie! È davvero molto importante per me.”
“Attenda.”
Riprende in mano la radiolina ed ordina qualcosa che non capisco, sempre con quel tono duro come un pugno di ferro.
Dopo neanche due minuti, la gigantesca porta dell’ospedale bianco, a qualche centinaia di metri dall’enorme cancello, si apre e ne esce quella che sembrerebbe un’altra guardia. L’uomo, infatti, è tutto vestito di bianco. Il suono dei suoi passi si mescola al tintinnio del mazzo di chiavi che ha appeso alla cintura, affianco al fodero della pistola che avvolge l’arma. Nemmeno i suoi capelli d’argento riescono a brillare sotto quel cielo uggioso.
La strada sterrata che permette l’accesso all’ospedale è parecchio lunga e lui ci impiega parecchio per percorrerla, nonostante cammini a passo spedito, come un soldato. Quando finalmente giunge alla fine, si ferma con aria spavalda dietro il cancello che lo separa dai colleghi. Evidentemente non sono ancora sicuri di potermi far entrare, per questo non lo aprono.
Mi perfora subito con due occhi rossi come il fuoco, per poi squadrarmi con un sorriso sarcastico stampato sulla faccia.
“È lui?”
“Sì, insiste per voler entrare. Da quel che ho capito vorrebbe far visita ad un parente. Gli ho spiegato che la situazione non lo permette, ma...”
“Visita?!” Esclama l’uomo.
Sposta quegli occhi diabolici – o, almeno, così mi sembrano – sulla guardia che ha in mano i miei documenti.
“Ma qui nessuno riceve visite. Non è che ha sbagliato ospedale?”
“Non credo, mi ha dato questo foglio.”
L’uomo glielo passa attraverso le sbarre. La guardia vestita di bianco scorre le righe del documento, tanto prezioso per me, e inarca le sopracciglia facendosi sempre più dubbioso ad ogni parola che legge.
“Forse dovrei parlarne con mio frate... cioè, con il dottor Beilschmidt.”
“Ho il permesso di lasciarlo passare, comandante?”
“Sì, lo scorterò io dentro al Welt.”
Solleva lo sguardo dalla carta e poi me la restituisce, regalandomi un ghigno che mi fa gelare il sangue nelle vene.
“Non ha l’aria pericolosa.”
L’altro uomo di sorveglianza esterna annuisce, poi lancia un urlo secco alla torretta di guardia e, dopo che il tizio appollaiato in cima ha sollevato un pollice verso l’alto, il cancello si apre con un cigolio sinistro. La guardia bianca si fa da parte e volge il palmo della mano verso la clinica.
“Prego.” Ringhia, con tono per niente amichevole.
Mentre cammino sulla stradina sterrata il cuore mi si alleggerisce e riesco persino a sorridere. Certo, questo edificio mette davvero paura, non dà l’idea di un ospedale accogliente, ma ora non do molta importanza a questo particolare.
La struttura principale è bassa, deve avere un piano solo, ma è molto lunga. Chissà, forse avrà anche dei sotterranei.
La guardia, non appena arriviamo alla porta d’ingresso, inizia ad inserire diverse chiavi nelle serrature di forme e dimensioni diverse. Le gira una dopo l’altra con maestria, facendole scattare come molle. Io faccio un passo all’indietro, sollevando il naso al cielo, per farmi un’idea di quanto sia alta quella porta. Nel farlo, noto la vernice lattea delle mura, marchiata proprio sopra le nostre teste con una grande lettera H che ricopre tutta la facciata dell’edificio, dalla cima della porta fino al tetto.
Ricontrollo le cartelle cliniche che ho sotto il braccio.
Ospedale psichiatrico “Welt”, Berlino. Sezione H.
Non c’è dubbio. Il posto è questo.
Finalmente la gigantesca porta blindata si apre con un movimento lento e pesante. La guardia mi fa cenno di seguirlo.
“Venga con me, e non si allontani.”
Io obbedisco docilmente.
 
La parete del corridoio, come il soffitto e il pavimento, è spalmata di un’accecante vernice bianca, che crea un effetto quasi allucinogeno, riflettendo la luce sparata dalle violente lampade al neon, che scorrono come piante rampicanti sul soffitto. Dovunque svoltiamo, poi, è sempre possibile consultare un orologio a muro.
Superiamo un paio di porte chiuse, senza vetri, solo di legno, ma su tutte quante sono inchiodate delle targhette di ottone su cui sono scalfiti dei nomi lunghi e impronunciabili per me.
Finalmente ci fermiamo e la guardia bussa con insistenza sull’uscio di uno di quei tanti uffici. È esattamente uguale agli altri.
Almeno, questo è quello che penso.
Con un altro sforzo disumano, per uno come me, provo a leggere quel nome così complicato.
Doktor L. Beilschmidt.
La testa inizia a girarmi.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_