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Autore: alillina    07/07/2013    2 recensioni
Non siamo semplici bambole in mano a Capitol City. Se lo fossimo, sarebbe tutto più facile. Le bambole non hanno un cuore, non provano amore, rabbia, odio, dolore. Le bambole stanno ferme, lasciandosi scivolare addosso il tempo che passa.
Siamo esseri umani. Ed è proprio questo il problema. Ci scivolano addosso solo le lacrime, lacrime di amore, rabbia, odio, dolore. La nostra stessa umanità ci uccide.
Alle bambole non crolla il mondo addosso se vedono i corpi delle due persone che amo più al mondo che giacciono in una cassa di legno. A me sì.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rue, Thresh
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 3

I'll be waiting

 

La mattina seguente mi svegliai nel letto di Thresh. Aveva insistito per lasciare a me il suo materasso, dormendo sul pavimento. Gentiluomo da strapazzo pensai, non potendo fare a meno di sorridere.
Per quanto potesse essere lunatico, taciturno e ombroso, Thresh era un bravo ragazzo. Mi aveva offerto la cena, standosene in un mutismo autistico per tutta la serata, ma, prima di andare a dormire, ero riuscita, non senza una notevole fatica, a cavargli qualche parola di bocca. Mi aveva spiegato che la casa era della zia, che però era spesso in viaggio per recuperare la carne dal Distretto 10 o per venderla da altre parti: non sono in molti quelli che possono permettersela nel Distretto 11. Mi aveva raccontato che i Pacificatori, tutte le sere, passavano dal suo negozio a sacchergiarlo, prendendo ciò che volevano senza mai pagare. E lui doveva stare a guardare quegli individui che non gli permettevano neanche di lavorare senza muovere un dito.
Era un tipo solitario, senza amici, anche un po' timido, forse. Io, nonostante non avessi mai avuto il tempo di crearmi delle vere e proprie amicizie, amavo stare in compagnia: il lavoro nei campi mi sembrava meno duro se di fianco avevo un confidente con cui chiacchierare.
Mi alzai e controllai il sole, per stabilire l'ora. Dovevano essere circa le sei, e io dovevo essere a scuola alle otto. Avevo tutto il tempo per lavare me e i miei vestiti, scrivere un biglietto di ringraziamento al mio benefattore, lasciargli qualche moneta per la cena e andare a salutare mia sorella.
Per prima cosa scavalcai il corpo di Thresh, che russava sul pavimento con le braccia scomposte e la bocca semiaperta, dalla quale usciva un filo di bava, e mi vestii. Poi presi una bacinella e un po' di sapone dalla cucina e andai a riempirla d'acqua al vicino torrente, uno dei pochi puliti del distretto. A quell'ora non c'era nessuno in giro, così mi sfilai casacca e bermuda e cominciai a stfregarli con il sapone nella bacinella. Quando mi sembrarono senza più macchie, li sciaquai nel fiumiciattolo, e poi mi tuffai. Col sapone rimasto mi strofinai i capelli e il corpo. Una volta uscita, strizzai la mia chioma fradicia e rimasi qualche minuto sulla riva, a farmi asciugare dal sole, che già all'alba era caldissimo. Infine mi rivestii, riempii di nuovo la bacinella e tornai a casa del mio ospite.
Posai il contenitore pieno d'acqua sul ripiano della cucina, nel caso Thresh ne avesse avuto bisogno. Poi rovistai nell'armadio, alla ricerca di un foglio e di una matita. Il ragazzo dormiva ancora. Quando li trovai, scarabocchiai un "Grazie di tutto" e misi il foglio sul letto, con sopra i pochi soldi che avevo in tasca, sperando che bastassero.
Uscii in strada, che si stava lentamente popolando. I contadini cominciavano a incamminarsi, come condannati che si dirigono al patibolo, verso i campi; vecchi mendicanti si trascinavano con gli occhi socchiusi, forse perché non capivano che senso avesse aprirli ancora, per continuare quella misera vita; mamme coi volti segnati dalla fatica trascinavano stancamente i figli a scuola, e quando li lasciavano li stringevano con forza al petto, come se quello fosse l'ultimo abbraccio.
Arrivata davanti a casa mia, fischiai il motivetto a quattro note che usiamo per darci il cambio nei campi, per far capire a Rue che ero io. Poco dopo una furia color cioccolato mi travolse letteralmente. Ci trovammo entrambe a terra, e cominciammo a ridere. Una risata vera e solare si alzò dalle nostre gole, perché nonostante tutto eravamo assieme, ed era l'unica cosa che contava. La abbracciai forte, per paura che una folata di vento potesse portarmela via. -Ho avuto così tanta paura... ma dov'eri finita?- sussurrò, guardandomi negli occhi, preoccupata.
Scrollai le spalle. -Thresh.- risposi solo. Strinse impercettibilmente le labbra e annuì, come se avesse capito tutto.
-Lo conosci bene?- chiesi, sinceramente curiosa.
-No, però mi sembra una brava persona. È così... solo.-
-Non penso sia solo. Credo che semplicemente non gradisca la presenza di esseri umani attorno a lui.-
Ci alzammo e ci scrollammo gli abiti, che si erano riempiti di polvere. -E' ancora presto- disse la ragazzina -Non saranno neanche le sette. Papà è già uscito, possiamo entrare in casa.- Mi si strinse il cuore al pensiero che, nonostante tutto quello che ci aveva fatto e come ci continuava a trattare, la mia sorellina continuasse a chiamare quell'essere papà. Noi non avevamo mai avuto un papà. Forse un padre, che ci aveva messo al mondo e che ci faceva vivere sotto il suo stesso tetto, ma non un papà. Un papà ti porta a giocare in strada, non ti ci butta come se fossi un animale. Un papà, quando torna a casa dopo una giornata di lavoro, ti abbraccia e ti sorride nonostante la stanchezza, non ti tira in testa una bottiglia di vino vuota. Un papà ti vuole bene, nonostante tutto. Un papà non ti odia.
Le strinsi la mano e entrammo in casa.
Blat e Timas giocavano in un angolo con dei pezzi di legno. Il piccolo Bud piangeva tra le braccia di nostra madre, che tentava inutilmente di calmarlo. Quando lei ci vide, si alzò frettolosamente dalla sedia e, senza parlare , mi mise Bud in braccio. Prima che potesse prendere la porta e andare a lavorare, riuscii a scorgere un nuovo livido violaceo sul suo occhio, così simile al mio.
Rimasi per un po' con lo sguardo incatenato alla porta. Mia madre. Mia madre che mi aveva lasciata di nuovo sola. Mia madre, quella donna sfuggente, silenziosa, sottomessa a mio padre come una schiava. Le occhiate indifferenti che mi rivolgeva quando il mostro mi picchiava a sangue e io imploravo il suo aiuto facevano più male di una coltellata.
Era una persona così misera. Si meritava la vita che aveva deciso di condurre, perchè infondo se l'era scelta. Io no.
Mi riscossi dall'autocommiserazione e misi Bud, che si era finalmente calmato, nella culla. Corsi ad abbracciare gli altri due fratellini, che mi gettarono le braccia al collo. -Dan! Dan, sei tornata!- gridò Blat eccitato. Timas, timido come al solito, si limitò a nascondere il viso nell'incavo del mio collo. -Piccoli miei- mormorai, stringendoli ancora più forte. Senza me e Rue, chi si sarebbe preso cura di loro?
Li lasciai andare, e loro tornarono felici a giocare. Presi mia sorella per mano e la trascinai in camera nostra.
Ci sedemmo sul letto, e lei mi chiese: -Cosa succede, Dan?-
-Niente. Ho solo bisogno di musica.- risposi, alzandomi e andando a prendere l' armonica, appoggiata sullo sgabello.
Era il nostro sfogo, la musica. Quando qualcosa andava male, o semplicemente il fardello della vita di tutti i giorni si faceva sentire, a noi bastava cantare o suonare. Era un modo come un altro per evadere, per illuderci, in una canzone, che andava tutto bene.
Era cominciato tutto la sera di un freddo dicembre di qualche anno prima. Mi ero attardata a casa del Sindaco, dove ero impiegata come domestica. Era l'anno più duro da quando ho memoria: un'ondata di maltempo aveva distrutto i raccolti settembrini delle mele, quindi non avevamo potuto lavorare, e niente raccolto significa niente paga. Grazie a Dio ero riuscita a trovare un lavoro: molte altre famiglie di mia conoscenza erano finite ad accattonare per strada.
Stavo tornando a casa, avvolta in vestiti troppo leggeri per quel freddo pungente, decisamente insolito dalle nostre parti. La strada era deserta, ad eccezione di un unico vecchio mendicante, avvolto tristemente nei suoi cenci. Gli passai davanti, guardandolo con compassione. Non potevo dargli niente: il mio stipendio era quasi tutto ciò che possedeva la mia famiglia, e bastava appena appena a sfamarci. Se mi fossi fermata da ogni singolo poveraccio a dare l'elemosina, sarei finita io sulla strada.
Mi sentii chiamare da una voce flebile e rauca. -Ragazza...- Mi girai: era il vecchio mendicante.
-Mi dispiace, ma non ho niente da darti.- borbottai. Mi maledissi subito dopo per quanto era suonata fredda e seccata quella frase.
-Non ho bisogno di soldi, ragazza mia... ho solo bisogno di qualcuno che mi stia vicino. Ho bisogno di calore umano.- sussurrò.
Mi venne da piangere. Ero una persona così insensibile e vuota. Non mi era neanche passato di mente che quell'uomo distrutto avesse un'altro tipo di fame. Non quella fisica, ma quella di amore.
Mi avvicinai e lo guardai negli occhi.
Vidi un vecchio. Non vecchio solo fuori, un vecchio anche dentro. Un'anima sciupata, distrutta, lacerata. Un vecchio senza speranza o ambizioni. Un essere che si trascina in un limbo confuso, fatto di miseria e solitudine. Una persona che si limita a esistere, ma che non vive.
Non era solo vecchio. Era anche morto. Morto dentro, morto nel profondo, marcio come un frutto caduto ormai da tempo dall'albero. Quell'uomo non esisteva neanche: sopravviveva. Era come una sagoma di cartone, che celava solo il vuoto.
In quel momento capii. Li aveva fregati tutti. Se ne era andato prima dal suo corpo, senza dire niente, in punta di piedi. Il suo spirito non era più in quel misero involucro, era già uscito con destinazione ignota. La gente poteva pure vederlo come un fallito, ma lui se ne era già andato da un pezzo. Li aveva fregati tutti.
A conferma della mia idea, sorrise. Il sorriso velato di un morto. Mormorò: -Li ho fregati tutti.-
Sorrisi anche io, inginocchiandomi a pochi centimetri da lui, e bisbigliai di rimando: -Sì, li hai fregati tutti.-
Da una tasca del liso mantello che indossava, tirò fuori un'armonica. -Questo... questo è ciò che mi ha permesso di fregarli tutti. Fanne buon uso, ragazza.- Presi l'oggetto che mi porgeva e lo ringraziai.
L'uomo si rannicchiò su se stesso e chiuse stancamente gli occhi. Gli strinsi la mano, e rimasi lì finchè i colpi di tosse che scuotevano il suo corpo debole non cessarono, finchè i muscoli contratti del viso non si rilassarono, finchè l'ultima nuvoletta del suo ultimo respiro venne esalata. Rimasi lì finchè l'ultimo sorriso di trionfo si dipinse sulle sue labbra stanche. Rimasi lì finchè non arrivò la morte a fargli compagnia.
Tornata a casa, ripulii l'amonica e io e Rue imparammo a usarla. Imparammo anche noi a fregarli tutti.
Rue prese lo strumento che le porgevo, e cominciò a suonare. Aveva sempre avuto un talento per la musica: inventava lei stessa le canzoni che suonavamo, e le bastava ascoltare una volta un motivetto per riprodurlo perfettamente.
Il pezzo che stava eseguendo era una canzone tipica del nostro Distretto, ed era la prima che avevamo imparato. Chiusi gli occhi e cominciai a cantare.

 
A volte capita bambin mio,

Non devi disperar,

Se c'è davvero questo Dio

Le cose a posto dovranno andar.

Ma aldilà del ponte,

Ma aldilà de ponte,

Tutto è più verde,

Tutto è più forte.

Qui la fame inonda le menti,

Là d'oro sono i pavimenti.

Qui il cibo

comincia già a mancar,

là non si fa altro

che abbuffar.

Ma aldilà del ponte,

Ma aldilà del ponte,

Tutto è più verde,

Tutto è più forte.

Mi dispiace, bambin mio

So che aldilà del ponte

vorresti andar

Ma questa è daltronde

La casa che Dio ci ha affidato,

e noi non la possiam lasciar

Ma aldilà del ponte,

Ma aldilà del ponte,

Tutto è più verde

Tutto è più forte.

 

Era una canzoncina breve e idiota, ma era una bella melodia e tutto sommato risultava piacevole.
-Canti benissimo, Dan.- mormorò Rue, posando l'armonica sullo sgabello.
-Mai quanto te- risposi sorridendo. -Hai voglia di accompagnarmi a scuola?- chiesi, alzandomi e dirigendomi verso la porta.
Lei annuì e mi passò la sacca di iuta nella quale tenevo i vecchi libri che ci venivano dati da Capitol per studiare a casa (anche se nessuno aveva il tempo di farlo) e la mia preziosissima penna, comprata per pochi spiccioli al mercato nero.
Baciai sulla fronte i miei fratellini: Bud dormiva beatamente, mentre Blat e Timas continuavano imperterriti a giocare.
Ci incamminammo verso la scuola, situata nel centro del Distretto, quindi lontana dal nostro quartiere.
Una volta arrivata, salutai Rue ed entrai nell'edificio.
Si poteva descrivere con una sola parola: grigio.
Ogni singolo oggetto era di una triste sfumatura di quel colore. Le pareti scrostate, i pavimenti, le divise degli insegnanti, lo sguardo vuoto dei ragazzi.
Tutto era grigio, tranne il colore della pelle sia degli alunni che degli insegnanti, delle più varie gradazioni di marrone.
Infatti, quelli che adavano nella scuola pubblica erano esclusivamente i "negri", come ci chiamavano con disgusto i Pacificatori. I pochi "bianchi", come amavano definirsi loro, presenti nel Distretto erano i Pacificatori, il Sindaco e qualche ricco commerciante, i quali chiamavano insegnanti privati per l'istruzione dei propri figli.
Raggiunsi la mia classe e mi preparai a quelle cinque interminabili ore di tortura. Mi lasciai cadere sulla sedia e sbattei sotto il banco la borsa, incurante delle occhiate che mi rivolgevano i miei compagni di classe.
Ero conosciuta come la ribelle, a causa dei miei, come dire, pungenti interventi in classe ma anche fuori contro Capitol City, gli Hunger Games e compagnia bella. Le frustate di ieri non erano che l'ultimo episodio della mia carriera da sovversiva.
Attorno a me si era creata un'aurea di rispetto misto a timore, che scoppiava come una bolla di sapone appena mi mettevo a chiacchierare amichevolmente con qualche conoscente.
In fondo, ero una ragazza semplice e solare, e non facevo paura a una mosca. Probabilmente questo era l'unico motivo per cui non ero ancora stata fucilata in piazza.
Passai le cinque ore successive immarsa in un caldo torpore annoiato, come sempre a scuola. Quando l'idilliaco trillare della campanella giunse alle mie orecchie, scattai prontamente dal mio banco e mi lanciai verso la porta.
Stavo tranquillamente uscendo dall'edificio, quando sentii i passi di qualcuno affiancarsi ai miei. Alzai lo sguardo: era Thresh.
-Ti accompagno a casa.- mi comunicò.
-Ma non abiti dall'altra parte del Distretto?- chiesi.
Scrollò le spalle. -Non ho niente di meglio da fare, Bluebottle.-
-Da quando mi chiami per cognome?-
-Ti si addice molto il tuo cognome, sai? Moscone. Direi che è perfetto.-
-Grazie eh- esclamai tirandogli un fiacco pugno sulla spalla. -E comunque Bluebottle può anche essere inteso come fiordaliso.-
-Dente di leone di nome e Fiordaliso di cognome? Nah. Troppo lezioso. Moscone è decisamente meglio.-
Passammo il resto del tragitto in silenzio. Ma non uno di quei silenzi tesi o imbarazzati, nei quali ti spremi le meningi per trovare qualcosa da dire. Era un silenzio leggero, piacevole, che conteneva tutte le chiacchiere inutili che potevamo dirci. Quando mi salutò sulla soglia di casa con un semplice cenno del capo, io gli sorrisi, certa che sarebbe diventato il mio migliore amico.
Questa scena si ripetè per tutti i giorni successivi. Non potevo dire di non esserne felice.

 

 

 

 

 

 

As long as I’m living, I’ll be waiting
As long as I’m breathing, I’ll be there
Whenever you call me, I’ll be waiting
Whenever you need me, I’ll be there

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE

Scusate, scusate, scusate.

Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho pubblicato? Secoli? Millenni? Ere geologiche?

Non ho nessuna scusa, a parte il fatto che l'ispirazione era scappata di casa e ho dovuto rincorrerla per tutta la città.

Questo capitolo non mi piace, ma vabbè.

La canzone alla quale è ispirato (Lenny Kravitz, bellissima) è più che altro i pensieri di Thresh, che ovviamente è sempre stato attratto (attratto, non innamorato) da Dan la ribelle.

Ringrazio tutti i seguaci/recensori/preferitori.

Dal prossimo capitolo comincerà l'azione, giuro.

Spero continuerete a seguire questa storiella, anche perchè in estate gli aggiornamenti dovrebbero essere regolari.

Ah, quasi dimenticavo: la canzoncina che canta Dan è un pezzo di una ballata in dialetto ligure tradotta che mi cantava mia nonna (sono di Imperia).

Un abbraccio virtuale

-Camy

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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