Ciao!
Questa storia l’ho scritta in estate, è sul
telefilm “R.I.S. Delitti imperfetti” e parla dei
miei due personaggi preferiti,
Fabio (che purtroppo non fa più parte della squadra, sigh
sigh) e Giorgia.
Alcune scene sono riprese da qualche puntata, altre sono inventate da
me. La
storia è basata sulla canzone “Tu cosa
sogni?” di Laura Pausini, le cui strofe
non sono riportate in ordine.
Missioni
“Non
ci credo sai
è quasi un anno ormai
lo dici sempre e poi
noi non ci vediamo
mai…”
- Forse
dovrei essere io a chiamarti così, non credi? Bentornato,
Fabio. –
E’ fatto
così, Fabio. Con la sua faccia seria e compita, riesce
sempre a far ridere chi
lo conosce. Ad altri risulta meno simpatico.
Chissà
perché, anche se lo conosco già, non mi strappa
nemmeno un sorriso.
Stretta di
mano a Riccardo, meglio detto Capitano Venturi, all’ex
collega Davide Testi,
Vincenzo de Biase e Francesca, poi arriva di fronte a me.
- Tenente
Levi… - Cerca di fare il simpatico senza neanche sorridere.
- Chiamami
pure Giorgia. Bentornato. – E’ già tanto
che riesca a dire quell’ultima parola.
Gli stringo la mano come a un nuovo collega qualunque. Riccardo non
perde mai
le sue vesti da Bravo Capitano.
- Beh,
fatti i saluti, direi che puoi cominciare. Ti ricordi
dov’è il tuo vecchio
ufficio, no? –
Quanto lo
invidio. Vorrei avere anch’io quegli occhi impenetrabili e
quella voce
distaccata, soprattutto in momenti come questo.
Fabio
passa avanti per mettersi al lavoro, e nel farlo mi lancia
un’occhiata
indecifrabile.
E sono
sicura che non è un caso.
Fabio,
Fabio, Fabio… Il tuo nome monopolizza i miei pensieri da
quando mi sei comparso
davanti… Proprio adesso dovevi tornare? Ma no, non
è questo il problema.
Saresti potuto tornare un mese fa, tra due o dieci anni, e mi avresti
comunque
colpito come una folata di vento che confonde i miei sentimenti e li fa
volare
in tutte le direzioni.
“Tenente
Levi”… Mi hai salutata con le stesse parole con
cui mi sono presentata, più di
un anno fa, quando sono entrata a far parte della vostra squadra, nel
RIS di
Parma.
E cosa hai fatto, dài?
Sei solo come me?
Ma questa sera cosa
fai?
Se sei libero vorrei…”
Ti
ricordi?
Avevamo
una missione.
Allora c’era
una persona da fermare, l’Uomo delle Bombe. E io mi ero unita
a voi proprio
perché lui aveva ucciso la vostra collega, Anna Giordano.
Ricordo ancora le
vostre facce quando Riccardo mi presentò a voi.
- Lei è
Giorgia Levi, criminologa e psicologa, specializzata
nell’identificazione di
serial killer. Ci sarà di molto aiuto nelle indagini.
– Diceva così perché lui
mi conosceva già, ma voi non la pensavate allo stesso modo.
Perlomeno, non
all’inizio.
Per voi
c’era solo Anna, Anna che era stata uccisa, Anna vittima
innocente e usata solo
per colpire Riccardo Venturi, Anna che si faceva voler bene da tutti,
Anna che
non c’era più. E nessuno l’avrebbe
sostituita. Ma io non lo pretendevo, non
volevo prendere il posto di nessuno.
Ricordo la
tua espressione spenta quando toccò a te stringermi la mano.
Tu ad Anna avevi
sempre voluto un bene speciale, ed eri stato l’ultimo ad
abbracciarla prima che
si avviasse inconsapevolmente verso la sua fine, verso quella fontana
in cui
era stata nascosto l’ordigno riservato a lei.
Quanto
abbiamo combattuto per quel maledetto Uomo delle Bombe.
E lo odio.
Non solo
perché è un pazzo assassino, ma perché
è per colpa sua se adesso sei qui. Se
non fosse stato scarcerato per un motivo a noi ignoto e non potesse
agire
indisturbato, tu non saresti arrivato qui dal RIS di Messina, e io
sarei seduta
alla mia scrivania, davanti al mio computer, a cercare tranquillamente
di capire
chi ha rapito una bambina o chi ha ucciso una prostituta.
- Giorgia!
– La voce di Riccardo, per quanto incolore, mi fa sobbalzare.
– Che fai ancora
qua? Tu puoi continuare a lavorare al tuo caso. Se avremo bisogno di te
ti
avviseremo. –
- Sì,
certo. Vado. –
Come non
detto. Posso farlo. Ma non con la tranquillità che vorrei.
E te lo chiedo perché
io sogno ancora di te.
Passano i giorni
Ed io mi chiedo perché
Ritorni dentro di me.”
Premo un
tasto e il computer torna a vivere.
A me non è
bastato premere un tasto. Eppure a te è bastato stringermi
la mano per farmi
andare in subbuglio lo stomaco.
Ti
ricordi?
Quando
lavoravamo insieme a un caso, tu stavi seduto a trafficare con il
computer, con
tutti quei programmi che mi hai insegnato a usare bene, e io stavo in
piedi
dietro di te, con una mano appoggiata sulla tua spalla.
Io me lo
ricordo, sì.
Tu facevi
finta di niente, io ti massaggiavo la schiena, mi dicevi di smetterla
anche se
ridevi sotto i baffi, poi vincevo sempre io.
Vorrei
vincere questa dannata forza che mi tiene incollata alla sedia e mi
impedisce
di venire da te, prenderti da parte e dirti quello che
dovrei… quello che
vorrei.
Ti
ricordi?
Quella
volta che, nello spogliatoio del RIS, mi sono nascosta dietro un
armadio e mi
sono messa a guardarti mentre ti cambiavi, facevi scivolare una
maglietta sulla
tua pelle diafana e la mettevi da parte per indossarne una pulita, dopo
un’estenuante
giornata di lavoro. Sono rimasta lì per minuti lunghi
un’eternità, ad
osservarti, a percorrere con lo sguardo le tue braccia forti e pallide
come i
miei desideri. No, questo non puoi ricordarlo. Non ti ho mai confessato
per
quanto tempo rimasi lì a guardarti. So solo che a un certo
punto devi avermi
vista nel riflesso di uno specchio mentre cercavo di svignarmela senza
farmi
notare.
- Ti
diverti particolarmente a spiare i colleghi negli spogliatoi o
è un onore
riservato a me? –
Posta da
qualcun altro, questa domanda sarebbe risultata antipatica e saccente,
ma tu
non hai mai usato quel genere di tono con me.
Avrei
potuto alzare le spalle e andarmene, invece ho fatto qualche passo
verso di te
e ho ribattuto con un sorrisetto:
- Solo
quelli molto carini. –
a ridere così
e all’improvviso, sai
io so che ancora ti
vorrei
dentro me.”
La nostra
intesa speciale è cominciata da lì. A dire il
vero, era da un bel po’ che
covavo qualcosa. Da quel pomeriggio pazzo in cui io, tu e Davide
cercammo di
ricostruire la dinamica di un duplice omicidio in un albergo.
Prima
Davide aveva passato dieci minuti buoni a distruggere una camera,
mentre in un
angolo della stanza tu tenevi in mano un cronometro e io mi chiedevo se
per
caso non mi avessero trasferito a un RIS di matti. Inutile spiegare al
direttore che quell’esperimento ci serviva per capire quanto
tempo aveva
impiegato l’assassino a mettere a soqquadro la camera di una
delle due vittime.
Ma Davide si era divertito così tanto che pagò i
danni senza una protesta, anzi
lasciò pure una mancia.
Poi
nell’ascensore, per ricostruire la dinamica,
perché la disgrazia si era
consumata lì. Davide mi disse di appoggiarmi alla parete e
di metterti le
braccia al collo. Le vittime si trovavano in quella posizione, poco
prima di
essere uccise. Tu eri abituato a quelle sceneggiate, io feci una faccia
perplessa. Ma nel momento in cui eseguii l’ordine di Davide e
sentii il tuo
respiro caldo sul mio collo, nel freddo di quell’albergo, il
mio cuore fece un
salto all’indietro e capii subito che quello sarebbe stato
solo l’inizio.
Ti
ricordi?
Io sì.
E quella
volta che avevate creduto di aver finalmente stanato l’Uomo
delle Bombe, poco
dopo la morte di Anna? Mi prendesti per una paranoica perché
io continuavo a
dire che quello non poteva essere il colpevole. E poi la ferita per la
morte
della vostra collega e amica era ancora aperta e sanguinante. Eravate
accecati
dalla rabbia, dalla voglia matta di rinchiudere dietro le sbarre
quell’assassino.
- Fabio,
almeno tu ascoltami! Nessuno mi dà retta! –
- E ci
credo! Non capisco cosa ti possa far credere che ci siamo sbagliati!
–
- Non ti
ricordi cosa diceva il profilo che abbiamo tracciato per
l’Uomo delle Bombe?
Una persona impulsiva, rabbiosa, una miccia che può
esplodere alla minima
incitazione. L’uomo che avete arrestato è un
debole, un sottomesso. Non lo
vedi? Praticamente non reagisce! –
La mia
laurea in psicologia non bastava a convincerti.
- Giorgia,
abbiamo impronte, messaggi e persino foto! O è lui, o
è lui! –
Poi saltò
fuori che il presunto colpevole aveva un gemello di cui ignorava
l’esistenza,
ed era lui il vero una bomber.
Roba da
film. Ma finalmente ero riuscita a conquistare un po’ della
vostra fiducia.
- E così
alla fine avevi ragione tu. –
- Non
dirlo con quel tono. Non faccio questo lavoro per niente. –
Scuotesti
la testa, sorridesti e finì lì.
Ti
ricordi? Io… eccome, se me lo ricordo.
ma i sogni grandi, lo
sai
in noi non muoiono
mai,
come le nuvole
ritornano prima o
poi.”
Ti ricordi
che i primi tempi erano stati difficili? Tu eri impegnato in una causa
delicata
che riguardava tuo padre, ed eri deciso a fare tutto da solo. Non
volevi
l’aiuto di nessuno. Men che meno il mio. Ero arrivata da
poco, figuriamoci se
mi avessi parlato di una cosa talmente importante.
Il
Capitano Venturi non si era nemmeno accorto del tuo impegno in quel
caso, preso
com’era dall’Uomo delle Bombe, il suo incubo. Anzi,
spesso ti dava addosso perché
non ti vedeva più concentrato e diligente nelle indagini,
come ti voleva lui.
E tu sei
sempre stato sensibile, ma così irascibile… Forse
proprio perché sei troppo
sensibile. E allora un giorno non ce l’hai fatta
più e gli hai sbattuta in
faccia quello che pensavi di lui.
Che non
guardava mai in faccia i suoi colleghi, perché era talmente
chiuso nel suo
mondo da accorgersi a malapena che anche voi avete una vita. Infatti,
quando
gli arrivò la notizia del caso di tuo padre, rimase
allibito. Perché non aveva
capito.
Io,
allora, tutte queste cose non le sapevo, perché ci parlavamo
poco e niente. Ma
adesso… chi se le scorda?
Quindi gli
dicesti tutto e ti liberasti, almeno in parte, di un peso. Riccardo non
reagì,
come al suo solito. Ma tu avevi ricevuto da poco un’offerta
di trasferimento al
RIS di Messina. Non ti interessava il fatto che saresti diventato
Capitano,
volevi solo andartene.
E
accettasti.
Ma si sa,
per queste cose ci vuole tempo. E ne passò abbastanza
perché io e te
imparassimo a conoscerci, a volerci bene, e poi ad amarci.
Me ne
parlasti troppo tardi perché qualcosa potesse cambiare.
Ormai la tua firma era
lì, avevi detto sì e non potevi rimangiartelo.
Avrei
voluto sentirmelo dire io, quel sì, quando ti chiesi di
rimanere con me.
Ti
ricordi?
- Giorgia!
–
I fogli e
la penna mi scappano di mano e si sparpagliano sul pavimento.
- Sì?! –
- Ma che
fai? Sono venti minuti che ti chiamiamo. –
Fabio, sei
il solito esagerato, vorrei dirti. Ma sorrido. E il sorriso mi viene
spontaneo.
- Dammi
ancora un minuto. Arrivo subito. –
Scuoti la
testa, sorridi e chiudi la porta, fiducioso.
Dovrei
sentirmi colpevole per aver impiegato così il mio tempo. E
perché? L’ho
impiegato bene, no? Dopotutto per il mio caso c’è
sempre tempo. Il morto ormai
c’è stato.
Percorro
con lo sguardo le righe che ho impresso su questi fogli di carta.
Cos’è? Una
lettera? Un pezzo di diario? Un viaggio nel passato?
Non lo so.
Ma sono certa di una cosa: quando avremo finito di lavorare, ti
darò questi
fogli con la mia firma in fondo. Ma ho fatto talmente tanta confusione
che devo
per forza mettere un titolo che racchiuda il contenuto di questa specie
di
poema!
Potrei
intitolarlo “Ti ricordi?”, perché te
l’ho chiesto così tante volte, tra le
righe!
E invece
no. So cosa scrivere.
Scarabocchio
una sola parola in cima alla prima pagina.
Missioni.
Sei
tornato qui per una missione importante, no?
Ma adesso
io ne ho un’altra da portare a termine, e non sarà
così complicato come credevo.
Devo dirti
a voce tutto quello che ho scritto qui. Magari riassumendo un
po’, perché ho
scritto veramente tanto.
Devo
riuscire a guardarti negli occhi e dirti che ti amo ancora.
E devo
ammettere a me stessa che Parma e Messina non sono poi così
lontane.
Quest’ultima
è una questione d’orgoglio.
E forse è
la più difficile proprio per questo, perché in
fondo non ci vuole niente a
dirti quelle due parole che ho ripetuto così tante volte.
almeno un sogno negli
occhi tuoi.
Tu cosa sogni?
Mi sogni ancora nei
sogni tuoi?
Vuoi raccontarmi che
sogni fai?
Passano i giorni,
sogno che ci sei
e torni nei sogni.
Tu nei miei sogni ci
sei, lo sai.
E torni nei sogni.
Vorrei incontrarti nei
miei.
Tu cosa sogni?
Mi sogni ancora nei
sogni tuoi?
Tu nei miei sogni ci
sei, lo sai.”
(L.
Pausini, “Tu cosa
sogni?”)