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Autore: alwaysbeenweird    08/07/2013    1 recensioni
"Perché hai tentato il suicidio l’altra sera? Perché lo hai fatto? Qui ti aiuteranno, ti aiuteranno a capire, Peter. Forse tua zia ha ragione a dire che sei problematico. Forse lo siamo tutti e due. Ma io non posso proteggerti, né aiutarti. Chiamami pure codardo, ma non ne ho la forza.
Addio, Peter.”
Proprio un gran bel padre aveva!
Aggrappandosi alla ringhiera del letto scese dal materasso con le poche forze che aveva, poggiando le punte dei piedi sul pavimento gelido come la pietra.
Si sentiva spaventato, confuso, la vista gli si stava annebbiando. Continuava a domandarsi perché, perché, perché?
"AH, DANNATO!" fece in tempo a urlare, prima di cadere, storcendosi la caviglia.
"Oh, guarda, Pete, ora hai un motivo in più per stare in ospedale!" sentiva la voce di suo padre prenderlo in giro, mentre lui, tutto meno che divertito, si massaggiava la caviglia, coi capelli corvini che gli ricadevano sulla faccia e che si bagnavano, in un miscuglio di sudore freddo e lacrime."
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Non ho lasciato solo il piccolo Peter, tranquilli, c'è il suo angelo Jesse dagli occhi azzurri, seppur velati, che lo aiuterà a vivere. E che gli insegnerà ad amare gli altri e se stesso.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Era stato trasferito. Inizialmente era in un normalissimo ospedale, e quasi si pentiva di essersi lamentato di stare lì, poiché ora la situazione era di gran lunga peggiorata. Si trovava in un vero e proprio manicomio, con le sbarre alle finestre e i letti ai quali era possibile legare coloro che diventavano incontrollabili. Che poi era strano, quel manicomio. Perché non poteva mettersi i suoi vestiti? Perché dovevano dargliene di “nuovi” -per così dire, dato che puzzavano di muffa e ricordavano lo stile degli anni 40-? Non era già una tortura abbastanza pesante quella di dover stare chiuso là dentro tutto il giorno a far nulla? Perché obbligarlo anche a vestirsi come un ragazzino del periodo nazi-fascista? 
Si grattò le gambe, dannati calzini di lana lunghi fino alle ginocchia! pensò. 
Era tutto così strano in quel posto. Aveva visto diverse crisi da parte di alcuni pazienti da quando era arrivato. Il suo compagno di stanza, Michael, era uno schizofrenico che si faceva chiamare il mentitore professionista, poiché non solo era pazzo, ma dopo aver visto il film "Ragazze Interrotte" si era addirittura convinto di essere un bugiardo cronico. Ah, d'altronde, come se non bastasse quella, di convinzione, si era definito perfino psicopatico carismatico, ritenendosi irresistibile. , aveva pensato Pete, irresistibile per ogni tipo di sfiga esistente. A quanto gli avevano raccontato i medici e le infermiere, i sintomi del suo "difetto", se così lo si vuol chiamare, si erano fatti vivi da moltissimo tempo.
Sin da piccolo era sempre stato strano e non aveva mai brillato per intelligenza. Eccelleva solo nella scrittura, data la sua assurda e incontrollabile fantasia. 
Sin da quando era solo un bambino raccontava storie di mondi lontani, di persone che non sarebbero mai potute esistere nemmeno a crearle apposta. E tutto ciò andava bene, finché lo scriveva su carta e si limitava a quello. I suoi genitori e i suoi insegnanti avevano iniziato a lamentarsi con lui quando aveva iniziato a mettere se stesso al centro della storia spacciando le avventure che immaginava per vissute da lui. Non per nulla si classificava psicopatico carismatico.
 
"Li-li-liar, liar you'll pay for your sins. 
So tell me how does it feel? How does it feel to be like you? I think your mouth should be quiet, 'cause it never tells the truth!"
"Ti piace proprio cantare, eh, Mike?" gli aveva chiesto un po' infastidito dopo l'ennesima volta che ripeteva quella strofa. 
"Tu credi pagherò per i miei peccati?" aveva detto lui.
Pete non aveva compreso il senso di quella domanda. 
Perché chiedere una cosa del genere? A lui, poi.
"Liar you'll pay for your  sins! La canzone dice così! Io pagherò perché sono un bugiardo. La mia bocca dovrebbe star zitta: non dico mai la verità. Credi che finirò all'Inferno? Credi che rimarrò qui per sempre? Oh, forse son già all'Inferno! Qui, qui dove tutti pensano che io sia solo un folle. Anche tu lo pensi, vero? SI'! PAGHERO' PER I MIEI PECCATI! Anzi, lo sto già facendo! Sto scontando la mia pena qua dentro, dannato mentitore quale sono me lo merito!" 
Pete non sapeva che dire. Era spaventato dalle urla di Michael però.. coglieva la lucidità in quelle parole, nei suoi occhi. Non sembrava il solito pazzo al quale tutti erano abituati là dentro. Sembrava rendersi conto della sua posizione. Di quello che gli capitava. Del suo "difetto".
"I-io.. ecco.." continuava a non sapere come reagire. Aveva visto una lacrima avventurarsi fuori dall'occhio sinistro del compagno di stanza. Non sopportava vedere le persone piangere, e se lui avesse iniziato Pete si sarebbe paralizzato, incerto sul da farsi, continuando a balbettare. 
Intanto Michael si era sdraiato a terra, in posizione fetale, e aveva cominciato a lamentarsi emettendo strani gemiti, dondolandosi senza un ritmo preciso. Pete non capiva cosa stesse cercando di dire, sapeva solo che c'era stato qualcosa di strano nella reazione che il ragazzo aveva avuto. Come un momento di vuoto totale, di pentimento, di lucidità. Ma pentirsi di cosa, poi? Quella di Mike era una vera e propria sindrome, una malattia, non poteva certo sfuggirle o ignorarla.
"Il dannato bugiardo cronico, il dannato bugiardo cronico..." le sue parole si facevano più chiare e Peter iniziava a comprenderle.
"Smettila.." si sentiva la testa scoppiare. Il suo dondolio scostante, i suoi gemiti, i sussurri che pian piano passavano a urla, per poi tornare indietro sui loro stessi passi. 
"HO DETTO SMETTILA, CAZZO!"
Pete si era preso la testa tra le mani, se la sentiva scoppiare, aveva iniziato a sudare freddo e le vene del collo gli pulsavano, risaltando in modo spaventoso.
Eppure non riusciva ad uscire dalla stanza.
Gli sarebbe sembrato di abbandonarlo, facendolo.
Sentendo i rumori che entrambi emettevano, a poco arrivarono gli infermieri, che senza troppo interessamento misero in piedi Michael e guardandosi negli occhi si dissero "l'ennesima crisi". 
Peter si era calmato, un'infermiera gli aveva passato un fazzoletto sulla fronte bagnata e gli aveva preso le mani nelle sue.
Va tutto bene, aveva detto. 
Ma che cazzate volevano fargli credere in quel posto? Il suo compagno di stanza schizofrenico aveva appena avuto un attacco di isteria e loro pensavano che con un semplice "va tutto bene" si sarebbe calmato?
"Cristo, non ne posso più.." disse strofinandosi gli occhi che minacciavano lacrime.
Si lasciò andare sul letto, non riusciva più a reggersi in piedi. 
Forse ha ragione, forse siamo tutti qui per essere puniti si era ritrovato a pensare.
Io ho ucciso mia madre però, la mia colpa è ben più grave della menzogna. Perché io e Mike veniamo puniti allo stesso modo?
Poi, senza fare in tempo a darsi una risposta probabilmente inesistente, si addormentò profondamente, con gli occhi rossi e gonfi per le lacrime trattenute che iniziarono a sgorgare nel sonno.
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Aveva fame.
Era da molto che questa sensazione non lo assaliva, da molto che non sentiva il bisogno di mettere qualcosa nello stomaco.
Beh, forse tagliarsi lo distraeva al punto da non fargli provare cose come quella. O semplicemente non voleva mangiare perché avrebbe preferito morire piuttosto che ingerire una di quelle schifezze precotte "preparate" da suo padre.
Ora non c'erano né suo padre né la lametta, quindi anche le scuse per non ingerire nulla erano state annullate. 
Percorse il corridoio dell'ospedale ignorando gli infermieri che gli lanciavano strane occhiate e trascinando i piedi intrappolati nei mocassini. 
Raggiunse le scale a chiocciola - la mensa si trovava al piano di sotto - e lanciò un occhiata a uno spazio vuoto nel muro, dove lui, se fosse stato l'ingegnere, avrebbe sicuramente fatto costruire un ascensore. Peccato solo che non fosse l'ingegnere e che forse non era stata una cattiva idea non mettere l'ascensore, se si teneva conto del fatto che era in un ospedale psichiatrico e i malati non erano certo affidabili e autonomi. Insomma, non erano in grado di prendere l'ascensore. Però lui odiava le scale. Guardò i gradini e poggiò la mano destra sul corrimano. Freddo, pensò.
Ho le scarpe scivolose.. e se cadessi giù per le scale? Eccolo che ricominciava con le paranoie, le solite seghe mentali. 
Si fece coraggio, si disse di smetterla con queste stupide convinzioni, con questa fissa delle scale, sopratutto. 
Prese un gran respiro, si riempì i polmoni d'aria, poi, guardando le scale vuote sotto di sé, iniziò a scendere i gradini. 
Uno, due, tre, quattro...
Per fare le scale teneva il tempo, scandendolo precisamente.
Un gradino al secondo.
Undici.. aveva quasi finito la prima rampa.
Venti... ora aveva completato la seconda.
TRENTASEI! quando arrivò all'ultimo gradino disse il numero ad alta voce, e l'infermiera che stava entrando in cucina si girò a guardarlo, rivolgendogli un sorriso compassionevole. 
Ecco un'altra che mi crede matto! 
Ancora eccitato per essere riuscito a fare le scale senza vomitare o farsi prendere dal panico, si diresse verso la porta della mensa, incrostata di senape e unta con olio d'oliva.
Che dolci questi pazzi che si preoccupano per i cardini della porta disse con voce derisoria nella sua mente.
Quando stava per varcare la soglia, non senza un fare schizzinoso, sentì dei rumori provenire dalla stanza dove era entrata l'infermiera dal sorriso compassionevole. Persone che ridevano. Credeva, almeno.
Sì, e ridevano sguaiatamente. Non ricordava di aver mai riso a quel modo. Si chiese chi potessero essere. I pazienti non potevano entrare in cucina, questo era certo. Il personale, forse?
Poi vide la porta aprirsi e un pugno di farina gli arrivò in faccia, imbiancandogliela. Si era avvicinato troppo alla porta, accidenti a lui. 
I cuochi e l'infermiera guardarono Pete rimanere immobile e sbuffare per farsi uscire la farina dalla bocca, poi si avvicinò un ragazzo, completamente ricoperto di farina, solo gli occhi azzurri risaltavano in quel manto di polvere bianco candido. 
Il ragazzo cercava tastoni di trovare qualcosa, o qualcuno davanti a sé. Quando trovò la sua spalla fece scorrere la mano fin sul suo volto, arrivando alle sue labbra sporche di farina. 
Peter era paralizzato. Non capiva cosa stesse succedendo.
Vide poi gli altri ragazzi accanto al personale dell'ospedale, che si reggevano ai mobili della cucina e guardavano il vuoto. 
Chi lo stava toccando era forse... cieco
"Scusami tanto!" disse il ragazzo quando capì di aver beccato in faccia proprio Pete. 
Come aveva fatto a non accorgersi subito che era cieco?
E perché non gli aveva dato il minimo fastidio il suo toccargli il volto?
Solitamente si sarebbe infuriato, e di norma si sarebbe accorto del suo barcollare, del protendere le mani in avanti per trovare il suo corpo. 
"Mi hanno detto che era entrato un altro ragazzo troppo tardi! Non volevo, davvero perdonami!" continuava a scusarsi. E Pete rimaneva immobile. 
Si avvicinò l'infermiera, che prese il ragazzo cieco per le spalle. 
"Tranquillo, Jess! Pete non è un tipo che se la prende." mentre lo diceva, però, guardava Peter come a minacciarlo, i suoi occhi dicevano non farti prendere una crisi e non ti azzardare a toccarlo, o ti ammazzo e se ne rendeva conto perché era un po' lo sguardo che si rivolgeva a tutti i malati lì dentro. 
Pete si riscosse, ancora comunque sconvolto. 
Sentì di nuovo quella mano sul suo corpo, sul braccio sinistro, che scendeva e arrivava al polso, per poi stringere la sua.
"Scusa ancora!" disse di nuovo quello che doveva essere Jess. 
Poi un uomo tozzo e alto con un cappello da cuoco lo prese per le spalle, come aveva già fatto l'infermiera, conducendolo al centro della stanza con gli altri ragazzi ciechi. 
Poi due donne (una era quella dal sorriso compassionevole) lo presero per le braccia e lo portarono fuori.
Peter continuava a non staccare gli occhi da Jesse, che gli appariva una visione, un angelo. 
"Non ti azzardare a toccare Jesse. Ora oltre che i pazzi ci troviamo anche i gay qui dentro! Paula, fai qualcosa, dannazione!" l'infermiera si rivolgeva alla cuoca. 
Lui continuava a non capire. Perché gli davano addosso a quel modo? Che aveva fatto di male?
"E SMETTILA DI MANGIARTELO CON GLI OCCHI!" beh, in effetti era quello che Pete stava facendo. Non aveva smesso di guardarlo un attimo, nemmeno quando erano usciti, dato che le porte della cucina 
avevano a loro volta delle piccole finestrelle di vetro e lui poteva vederlo benissimo.
"Sembra un angelo." si lasciò sfuggire. Anche perché l'aveva pensato dal primo momento che l'aveva visto. 
"Sei solo un frocio di merda. Quel ragazzo è puro, sano, se non si contano i suoi occhi, pulito, bellissimo. Non ti azzardare a toccarlo o ti farò fuori con le mie mani" disse l'infermiera. Sembrava davvero volerlo uccidere. 
Poi si allontanò, lasciando Peter solo con la cuoca. Lui le rivolse uno sguardo privo d'emozione, per lo meno nei suoi confronti. 
"Tranquillo, non è sempre così. Solo quando qualcuno tenta di avvicinarsi a Jess."
Pete percepiva le sue parole flebili e lontane.
Continuava a pensare a quegli occhi azzurri, completamente privati della vista, e ai riccioli biondi ricoperti di farina.
Un angelo. 
"E' bellissimo." si azzardò a dire. 
"Lo so." fu la risposta della donna che, dolcemente (per quanto possa essere dolce il tocco di una donna di più di novanta chili), gli posò una mano sulla spalla, accarezzandogli poi la schiena.
Bellissimo, ripeté Pete nella sua testa, più e più volte; mentre pranzava, nel tempo durante il quale era abituato a sedersi davanti alla televisione senza guardare seriamente nulla, e durante tutta la notte.
Era davvero bellissimo. 












Molto piacere a tutte!! 
O tutti.. o.. chiunque voi siate.. accetto anche ibridi, transessuali e ragazzi che sparano laser magnetici dalle ascelle, sapete? 
Fatto sta, so che spesso questi angoli autrice/autore sono strazianti e nessuno ha voglia di leggerli (non per nulla io li metto alla fine o non li metto mai, eheh), però questa volta sentivo davvero il bisogno di scriverne uno, insomma, vorrei instaurare un certo rapporto con i lettori perché sì, lo ammetto, mi sento tremendamente sola qui *si dimena, rotola e piange*.
Di solito scrivo per me e non mi importa di ciò che la gente dice, però qui su Efp è un po' diverso e ci tengo a sapere se a voi ciò che scrivo piace, interessa... non so, suscita qualche emozione!.. (?) 
Per me questa storia ha un valore molto importante, come tutto ciò che scrivo del resto, perché si avventura in un contesto che mi tocca molto (non personalmente, tranquilli eh, non sono né cieca, né autolesionista psicopatica abbandonata in un manicomio da mio padre) perché amo le situazioni fragili, amo le persone difficili da trattare ma che se curate con amore possono molto. 
Quindi, che dire, se vi piace, per favore, recensite e.. muovetemi qualsiasi critica se credete ne abbia bisogno, non mi offendo assolutamente, anzi ci tengo!
Ah, dimenticavo, mi chiamo Alessia, 
mi firmo Abnormal. 
Se ci siete fatevi sentire, mi fareste davvero felicissima! Io sono qua.

Abnormal
   
 
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