Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: alwaysbeenweird    25/06/2013    1 recensioni
"Perché hai tentato il suicidio l’altra sera? Perché lo hai fatto? Qui ti aiuteranno, ti aiuteranno a capire, Peter. Forse tua zia ha ragione a dire che sei problematico. Forse lo siamo tutti e due. Ma io non posso proteggerti, né aiutarti. Chiamami pure codardo, ma non ne ho la forza.
Addio, Peter.”
Proprio un gran bel padre aveva!
Aggrappandosi alla ringhiera del letto scese dal materasso con le poche forze che aveva, poggiando le punte dei piedi sul pavimento gelido come la pietra.
Si sentiva spaventato, confuso, la vista gli si stava annebbiando. Continuava a domandarsi perché, perché, perché?
"AH, DANNATO!" fece in tempo a urlare, prima di cadere, storcendosi la caviglia.
"Oh, guarda, Pete, ora hai un motivo in più per stare in ospedale!" sentiva la voce di suo padre prenderlo in giro, mentre lui, tutto meno che divertito, si massaggiava la caviglia, coi capelli corvini che gli ricadevano sulla faccia e che si bagnavano, in un miscuglio di sudore freddo e lacrime."
--- --------------------------------------------
Non ho lasciato solo il piccolo Peter, tranquilli, c'è il suo angelo Jesse dagli occhi azzurri, seppur velati, che lo aiuterà a vivere. E che gli insegnerà ad amare gli altri e se stesso.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 Pete non era un ragazzo problematico.
Aveva sedici anni, parlava poco, ma non era problematico.
Sua zia però continuava a definirlo così. Lo ripeteva da anni.
Pete era invece fermamente convinto che i suoi unici problemi fossero di avere una chitarra acustica verde fosforescente e di non saperla suonare e di possedere un bellissimo libro, ma di non saperlo leggere.
Intendiamoci, non che fosse un analfabeta. Non che non sapesse scrivere.
Però non sapeva leggere. E non parliamo di un semplice leggere, uno sfogliare le pagine superficialmente, senza comprendere il senso di ciò che scorre fra le mani del lettore.
Un leggere vero, profondo, che permette di comprendere cose che ignori fino al momento in cui non le vedi impresse sulla carta e che ti rimangono scritte sulla pelle per tutta la vita.
Ciò lascia a intendere che fosse un po’ strano.
Beh, forse tanto comune non era, ma a Pete poco importava del giudizio della gente.
C’erano molti libri che aveva sfogliato. Alcuni gli avevano anche regalato qualcosa, ma nessuno gli aveva mai lasciato scritto nulla sulla pelle. Nessuno di loro gli aveva mai marchiato l’esistenza per sempre.
C’era un libro che, però, Pete desiderava leggere ardentemente, con tutto se stesso.
Un libro che da anni custodiva come il più grande tesoro e che rimaneva inutilizzato.
Ci aveva provato spesso, spessissimo, a leggerlo, e si era spremuto le meningi fino a farsi salire il sangue alla testa e a diventare tutto rosso, ma non c’era mai riuscito. Prendeva il libro in mano, fissava la copertina.
La accarezzava, come si accarezzano le guance dei bambini. Col dorso della mano.
Poi percorreva con l’indice il volto di Dorian Gray ritratto sul morbido cartoncino.
Sempre con l’indice, ripassava la scritta “Wilde” blu cobalto sopra il disegno del giovane e poi tentava di aprirlo.
E quando ci riusciva (se ci riusciva) non faceva in tempo a leggere mezza parola, che quegli appunti ai lati della pagina, scritti con quella grafia ricurva e ordinata, gli facevano accapponare la pelle e inumidire gli occhi.
“Dubito che ci sia qualcuno capace di crescere senza una madre. Se invece qualcuno avesse questa capacità, allora significherebbe che mio figlio è proprio quel qualcuno”.
Suo padre lo diceva sempre, quasi con orgoglio, a chiunque gli chiedesse come avesse reagito suo figlio alla morte della madre. E lo diceva convinto, con una bottiglia di birra in mano e il suo contenuto nello stomaco.
Pete non si sorprendeva, però. Suo padre non sapeva. Non gliene faceva certo una colpa, d’altronde, se non se n’era accorto. Pete era bravo a nascondere le cose. Cose come il tatuaggio sull’avambraccio che si era fatto fare da un tatuatore incontrato per strada.
Si era fatto scrivere “Sorry, mom” con la scrittura di Paula. Sì, proprio quella che aveva trovato ai lati del libro.
Forse era stupido. Forse non avrebbe dovuto.. ma si sentiva pienamente, completamente, assolutamente responsabile della morte della madre. Se suo padre credeva fosse difficile crescere senza una madre non poteva certo immaginare quanto lo fosse invece convivere col senso di colpa di averla uccisa solo nascendo.
Perché era così che era morta. Lui era uscito fuori, aveva aperto gli occhi al mondo, e al contempo lei, senza fare in tempo nemmeno a vederlo, si era spenta. Aveva chiuso le palpebre e se n’era andata.
E Pete, il suo primo abbraccio non l’aveva certo ricevuto da sua madre. Era stato messo tra le fredde braccia di un’ostetrica che poi l’aveva rinchiuso in un’incubatrice, che di solito riscalda il piccolo, ma che a Pete, sin da subito, aveva congelato l’anima. Perché non posso continuare a stare dentro quella pancia per sempre?, si era chiesto. Chiuso in quella pellicola che era la placenta, senza nessun rumore a parte quello della voce della mamma, soffusa e dolce, che lo colpiva qualche volta. Magari per cantargli una ninna nanna, o, all’occorrenza, per ricordargli che gli voleva tanto bene, come diceva lei.
E questo era un motivo in più per sentirsi in colpa. Gli voleva bene e lui l’aveva uccisa.
Come puoi uccidere qualcuno che ti ama? Come puoi uccidere qualcuno che ti ha donato la vita?
Non riusciva a convincersi di non averlo fatto apposta, di non averne colpa. Credeva che dentro di sé ci fosse qualcosa di cattivo, qualcosa che si nascondeva, che era stato taciuto al mondo da parte di qualcuno di più grande.
Ed era sicuro di covare quel qualcosa dentro sé, convinto che prima o poi, il mostro sarebbe uscito fuori e lui avrebbe fatto del male a qualcun altro.
Erano fantasie alquanto improbabili, sarebbe stato difficile crederci per chiunque altro.
Ed era proprio per questo, per questa mentalità, per queste contorte convinzioni che nascondeva nel profondo, che Pete era taciturno, chiuso in se stesso poiché sicuro che meno avesse parlato con gli altri, più facile sarebbe stato non far uscire il mostro.
Richiuse il libro, con l’impeto di lanciarlo in un angolo della stanza, coprirsi le orecchie e mettere a tacere la voce che sentiva dentro e che gli urlava “assassino” e ancora “l’hai uccisa tu”,“tu sai qual è il prezzo da pagare” , ma non lo fece. Se lo strinse al petto e chiuse gli occhi, comprimendoli così forte da farli quasi scoppiare. Iniziò poi a dondolare, avanti e indietro, come a cullarsi da solo. Sentiva il polso sinistro pulsare, dolorante, grondante di sangue. E quello del sangue che scorreva era un altro rumore che si aggiungeva, nella sua mente, caotico e fastidioso. Infine i nervi cedettero, non ce la fece più.
Cadde come un palloncino sgonfio sul parquet, esausto, privo di conoscenza.
Si risvegliò nel bianco candido di una camera d’ospedale. Gli ospedali non dovrebbero essere accoglienti? Beh, quello non lo era di certo. Che fossero tutti dei pazzi maniaci dell’igiene lì dentro? Guardi, non per criticare, ma la stanza puzza d’alcool e disinfettante e per quanto un posto del genere debba essere mantenuto pulito, non credo che alle persone che, come me, si risvegliano qui senza comprendere cosa stia succedendo, faccia piacere sentirsi entrare quest’odore nelle narici e salire fino al cervello, aveva pensato di dire all’infermiera che era arrivata a cambiargli la flebo, ma poi si era limitato a guardarla con fare interrogativo, senza aprire bocca. Quella tizia aveva la delicatezza di un triceratopo. Sicuri che questa sia tagliata per fare l’infermiera? si era fermato a pensare fingendo indifferenza: gli aveva sfilato e rinfilato l’ago nel braccio come se il ragazzo non potesse sentire che glielo stava bucando violentemente.
Quando la sciatta infermiera se ne fu andata tentò di sfilarsi l’ago, forse perfino con meno delicatezza di quanta ne aveva usata la donna vestita di verde. Si lasciò quindi sfuggire una smorfia di dolore accompagnata da un “e ma che cazzo!” alla vista del sangue che era riuscito a farsi uscire dal braccio nonostante il buco per la flebo fosse stato piccolo al punto da non vedersi nemmeno!
Tentò di alzarsi, ancora imprecando, quando si rese conto di non riuscire a tirare su la testa da quanto il suo corpo si sentiva stanco e pesante.
“Dannazione!” poi si fermò un attimo. Perché tutta questa agitazione? Era sempre così calmo e pacato, invece da quando si era risvegliato aveva preso a imprecare contro qualsiasi cosa gli passasse davanti, aveva persino tentato – e dico “tentato” perché non aveva la forza di far nemmeno quello- di lanciare un tovagliolo di carta contro una mosca. Che poi perché prendersela con una mosca? E perché lanciarle un tovagliolo di carta?
Col pollice e il medio si massaggiò le tempie sbattendo le palpebre più volte.
“Dio, ma che ci faccio qui?” continuava a chiedersi a bassa voce.
Ma niente, non gli veniva in mente nessun motivo valido, non sapeva nemmeno come ci fosse finito in quel posto.
O forse sì? L’ultima cosa che ricordava erano le voci, ma quelle erano costanti, c’erano più o meno sempre, non sarebbero state un valido motivo per ritrovarsi in quell’odioso ospedale.
Che poi, probabilmente, odiava gli ospedali così tanto perché era lì che era iniziata la sua vita ed era lì che aveva compiuto il suo primo omicidio. Non che ve ne fossero stati altri, anche se nel cuore di Pete, c’era sempre la paura costante di fare del male a qualcuno, ma non riusciva a levarsi di mente, nemmeno in un momento come quello, quello che aveva compiuto alla nascita.
Si guardò il polso. Quello sinistro.
Sì, a quello destro era un po’ più complicato infliggere i tagli.
Notò senza troppo stupore che gli avevano tolto i polsini. E che si vedevano i segni della lametta ancora freschi. DANNAZIONE!
Dico, va bene questo camice da pazzo furioso che mi hanno messo addosso, ma almeno le mie cose potevano lasciarmele.. non so, sul comodino!  si ritrovò a pensare mentre tastava la superficie del comodino con la mano. Niente, liscio come il marmo, pieno di polvere e oleoso, ma niente di suo. Poi, per sbaglio, al passaggio della sua mano cadde qualcosa. Si tirò su facendo resistenza alla pesantezza del suo corpo e si appoggiò sui palmi delle mani.
Ma che diavolo..?
Un biglietto. Si piegò per raccoglierlo, sempre debolmente.
E che cavolo. Sembro imbottito di sedativi. Mi sento tutto rincretinito.
Raccolse non senza sforzo il biglietto poi, buttando un sospiro di sollievo, si lasciò cadere stanco sul materasso. Aprì il biglietto dicendosi almeno questo dovrei essere in grado di leggerlo!

Scusa, Peter. Scusami davvero, ma non ce la faccio più. Qui ti aiuteranno meglio di come potrei mai fare io. Ho sempre pensato di non essere tagliato per fare il padre. E i tuoi polsi me l’hanno dimostrato quando, ieri sera, dopo che sei svenuto e ho chiamato l’ambulanza, ti ho levato i polsini per sentire il tuo battito cardiaco. Avevi il braccio sporco di sangue. Come hai potuto infliggerti simili sofferenze? E come ho potuto, io, non accorgermene? Perché c’erano anche altri tagli, più o meno profondi, ormai vecchi, cicatrizzati, che io non avevo mai notato. Perché hai tentato il suicidio l’altra sera? Perché lo hai fatto? Qui ti aiuteranno, ti aiuteranno a capire, Peter. Forse tua zia ha ragione a dire che sei problematico. Forse lo siamo tutti e due. Ma io non posso proteggerti, né aiutarti. Chiamami pure codardo, ma non ne ho la forza.
Addio, Peter.”

Proprio un gran bel padre aveva!
Aggrappandosi alla ringhiera del letto scese dal materasso con le poche forze che aveva, poggiando le punte dei piedi sul pavimento gelido come la pietra.
Si sentiva spaventato, confuso, la vista gli si stava annebbiando. Continuava a domandarsi perché, perché, perché?
"AH, DANNATO!" fece in tempo a urlare, prima di cadere, storcendosi la caviglia.
"Oh, guarda, Pete, ora hai un motivo in più per stare in ospedale!" sentiva la voce di suo padre prenderlo in giro, mentre lui, tutto meno che divertito, si massaggiava la caviglia, coi capelli corvini che gli ricadevano sulla faccia e che si bagnavano, in un miscuglio di sudore freddo e lacrime.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: alwaysbeenweird