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Autore: Dew_Drop    08/07/2013    1 recensioni
New York. Eddie Bloom, trent’anni, celibe, convinto eroinomane, realizza che il suo passatempo lo porterà sulle orme del fratello morto per overdose. Troverà un insperato aiuto nel parcheggio del fast-food in cui lavora, perché non è mai troppo tardi per decidere di tornare indietro, “[...] o, come direbbe un cuore romantico e nostalgico, di tornare alla vita.”
Dal II capitolo: “Dimenticate l’universo, dimenticate Dio, ciò che c’è dopo la morte e ciò che c’è prima della vita: il Non Può Capitare a Me è la sola, grande domanda dell’uomo.”

[ I classificata al contest "Non Può Piovere Per Sempre"] + [ Premio "miglior protagonista maschile" ]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Non Può Capitare a Me






NdA: c’è un piccolo particolare che a un buon kinghiano salterebbe subito all’occhio, per cui preciso che due fratelli tossicodipendenti di nome Henry e Eddie Dean compaiono già nella saga “The Dark Tower”, di Stephen King. Sono personaggi che adoro e a loro mi sono quindi ispirata, riservando ad Eddie il ruolo di protagonista. Ho ripreso solo la parentela, i nomi e il loro debole per la polvere – per il resto, carattere e storia in primis, è farina del mio sacco.

Anche se all'inizio questa storia era impostata come una one-shot, ho deciso di dividerla in tre piccoli capitoli per facilitarvi la lettura. Sono la prima ad ammettere che una storia introspettiva, che si focalizza molto sulla descrizione della psicologia dei personaggi, può apparire ridondante e infinita se si concentra in un solo spazio tutta la vicenda. Era da parecchio che volevo scrivere qualcosa del genere e spero di essere pienamente riuscita nell'impresa-- se no altro, sono stata fortunata a trovare un pacchetto adatto a quel che avevo in mente x) Ringrazio in anticipo chi si fermerà a leggere e a lasciare un commento.

Questa originale partecipa al contest a pacchetti "Non Può Piovere Per Sempre", indetto da WhatHasHappened.

Un'ultima cosa, prima di lasciarvi.

Questa storia è dedicata.

E' tutta per lui, per quel volto anonimo, per quel sorriso che mi ha rivolto e che ancora non ho dimenticato.

Dew_



* * *


NON PUò CAPITARE A ME

 

1. L’UOMO CHE VA

 

Conobbi mio fratello all’età sbagliata. L’affermazione potrebbe sviare, soprattutto tenendo in conto che Henry era sempre vissuto con me, ma se aggiungessi quella parola magica, quella per cui un istante può cambiare e il mondo cominciare a girare per il verso opposto, allora capireste. La parolina in questione è davvero.

Avevo forse otto o nove anni quando queste tre sillabe fecero capolino nella mia vita. Cominciavo allora a notare con distaccato eppur inevitabile interesse le gambe della maestra, ai tempi ancora signorina Taylor, e a pensare che forse Babbo Natale fosse solo un aborto della Coca-Cola. Sono cresciuto con la convinzione – e credo che tutti i bambini del pianeta saranno del mio stesso avviso – che a cause simili corrispondono conseguenze simili; Santa Claus è rosso e la lattina della bibita sua madre è rossa, e questo ragionamento non fa una piega. Ebbene, anno dopo anno capii che lo stesso rapporto vale anche fra le persone. Tre me ed Henry è andata esattamente così.

E cielo, quanto lo conobbi bene. Quanto lo conobbi davvero.

Per quel Natale zia Beth mi aveva regalato una stupefacente bicicletta blu. La gran novità che rendeva quel regalo assolutamente mozzafiato era che mancava delle rotelline. Fino ad allora ero stato costretto a convivere con qualcosa di più simile ad un triciclo che ad una bicicletta, un ibrido vomitato per pietà o compassione da un’officina anonima della bella New York. Con il dono di zia Beth, quel quattro ruote se ne andò al Padre Eterno facendo fruttare a mio padre dieci dollari per il concesso riutilizzo di quel che restava della rottamazione. Alla fine quei soldi finirono in tasca a me. L’ibrido, mi consolai, era almeno servito a qualcosa.

In sella alla mia fiammeggiante bicicletta blu passavo di fronte alle scuole quando avevo visto Henry fermo con alcuni amici nel bel mezzo del campetto di pallacanestro. Mi ero fermato per guardare meglio; armeggiava con qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco, vuoi per la distanza, vuoi per il sole che scendeva, vuoi perché qualunque cosa avesse in mano, era incredibilmente piccolo. Esistono due regole fondamentali per qualsiasi secondogenito: “tuo fratello maggiore è il migliore” e “non impicciarti negli affari di tuo fratello maggiore”. Henry era il migliore, ma fin troppo spesso ficcavo il naso nelle sue faccende personali, e nemmeno quella volta feci un’eccezione. Così ero smontato e mi ero infilato nel campetto di pallacanestro spingendo a mano la mia bicicletta. Uno dei suoi amici, Richard, credo si chiamasse, mi aveva visto per primo. Aveva dato di gomito a Henry e gli occhi di Henry si erano alzati e mi avevano trovato. In quel momento gli avevo visto in faccia l’espressione di chi viene sorpreso con le mani nel vasetto di miele, ma era stato solo per un istante, perché nel giro di un secondo aveva sfoderato il suo sorrisetto preferito. Era il sorrisetto di benvenuto che qualsiasi fratello maggiore rivolge al fratellino quando sa già che dovrà chiedergli di tenere la bocca chiusa.

“Eddie. Non dovevi già essere a casa?”

“Ci stavo andando e ti ho visto dalla strada.”

Aveva in mano una bustina di polvere. Leggeva un sacco di romanzi gialli e sapeva che quando il colpevole cerca di nascondere la verità, prima o poi neanche con il mantello dell’invisibilità riuscirà a farla passare inosservata.

“Stavi pedalando?”, mi aveva chiesto con un enorme sorriso, e io avevo annuito. “E sai cosa stavamo facendo noi?”

Silenzio dal fronte opposto. Lo sapevo, ma non avevo aperto bocca. Così Richard era arrivato in mio soccorso: “Stiamo pedalando anche noi.”

“Con qualcosa di diverso. E sai invece cosa dovrai fare tu?”

“Dovrò fare silenzio, Henry.”

A quella mia risposta, e ve lo giuro di fronte a Iddio, se aveste sfogliato un dizionario fino alla parola fierezza, sotto avreste trovato la sua faccia. “Bravo fratellino”, se ne era uscito, e mi aveva premiato con un pizzicotto sulla guancia.

Bravo fratellino. Ancora non lo sapevo, ma quelle sue parole avrebbero saltato nel mio cervello come cavallette impazzite per l’eternità. Il suo ricordo, i suoi gesti, tutto di lui mi avrebbe cinto d’assedio. Me ne ero rimasto zitto finché i fatti non avevano parlato per sé, poi Henry se n’era andato – pedalando, come mi sembrava giusto affermare – e io avevo finito con l’essere il suo aborto. Lui Coca-Cola, io Babbo Natale. Simili cause, uguali conseguenze.

Bravo fratellino.

Anche vent’anni più tardi, chino su quel tavolo di fronte alla finestra, le fastidiose cavallette che giocavano nella mia materia grigia tornavano a farsi sentire. Cominciavano a trasudare eccitate quando prendevo la cannuccia, fremevano quando l’accostavo alla superficie, le sentivo schizzare da una parte all’altra del cranio quando la polvere saliva e alla fine implodevano piacevolmente quando pedalavo. Allora le giornate fuori da quella finestra si coloravano di tonalità nuove e fantastiche, imparavo a volare e la pioggia sul vetro non mi dava più fastidio. La bicicletta blu di zia Beth era divenuto uno scarto in confronto perché non andava così veloce, non mi faceva sentire così schifosamente soddisfatto. Mi consolavo nella certezza di aver semplicemente seguito le orme di mio fratello maggiore, con la naturalezza di chi afferma che al tramonto segue la sera e che non può essere altrimenti.

Oh sì, ero stato un bravo fratellino. Avevo tenuto la bocca chiusa e Henry se ne andato pedalando su per la via di Nostro Signore o giù per la gola di zio Lucifero. E anche in quel momento, con le cavallette che rabbrividivano di estasi nel cervello, conoscere la sua  destinazione poco importava; importava invece che fosse rimasto in sella fino alla fine.

Bravo fratellino, pensai, e mi chinai ad aspirare.

 

2.

 

L’appartamento che avevo in qualche modo rastrellato dai confusionari annunci del Times godeva di una posizione che qualsiasi dipendente di fast-food giudicherebbe strategica: non si vedeva il mare dalla finestra e il riscaldamento lasciava piuttosto a desiderare, ma di fronte, dall’altra parte della strada, vi erano un’edicola, un pub e un negozio di utensili. A quei tempi lavoravo mezza giornata in un piccolo locale all’angolo, dove agli automobilisti bastava parcheggiare di fronte ad una finestrella per farsi servire il pranzo.

Il take-away ha i suoi vantaggi non solo per i clienti, ma soprattutto per chi lavora: si scrive l’ordinazione, in caso di attacco di noia si alza un ricevitore, e il gioco è fatto. Molto spesso dietro di te hanno già preparato quanto è stato chiesto, quasi un metodo di prevenzione contro tassisti affamati, ritardatari e incazzati neri, ma quando non è così puoi concederti uno o due minuti di chiacchierata con il conducente. Ci si guarda attraverso due cornici, la tua quella dello sportello da cui lavori e la sua quella del finestrino, ma va bene così.

Lavorai all’angolo per due anni e potevo ritenermi un veterano del settore per il semplice motivo che di norma il personale di un fast-food gira peggio di una giostra di Disney World. Può capitare di fermare la macchina davanti allo sportello del take-away e di trovare sette persone diverse nel giro di una sola settimana, eppure io rimasi lì per otto stagioni e per quanto New York sia grande, i miei clienti erano perlopiù abitudinari. Conobbi così un sacco di gente, il vecchio Parker, quello che mai aveva voglia di cucinare in casa solo per sé, Jessie, il ragazzo dell’altro isolato che pagava sempre e solo con soldi altrui – “in prestito”, mi diceva -, Yvette, la nera che si prendeva le ordinazioni rivolgendomi un “grazie fratello” e un sorriso straordinariamente bianco.

Ne conobbi davvero molte, con la pecca che rimasero solo volti oltre il finestrino abbassato di una macchina. Non deve perciò stupire che l’unico che conobbi in fondo non fu un mio cliente abitudinario, né lo sarebbe stato. Sedeva contro il muretto del parcheggio del fast-food e ogni mattina, vedendolo nella sua serafica e sfuggente immobilità, mi chiedevo se la sera, dopo il mio turno, si alzava per fare almeno una passeggiata. Stavo per scalare marcia e cominciare a pedalare più veloce quando gli parlai per la prima volta. Per questo semplice motivo, per il solo fatto di averlo guardato negli occhi proprio quando cominciavo a prendere in considerazione l’idea di bucarmi, credo d’aver conosciuto Amos all’età giusta.

E lo conobbi davvero.

 

3.

 

«A Mr. Powder non piacerà», mi rese noto Bill, guardandomi con un sorrisetto eloquente. «Anzi, non gli piacerà per niente

«Non è la prima volta, sa che pago anche se in ritardo.»

«Non è questo il punto, Eddie», ricominciò lui. Mi parlava con un gomito sul finestrino abbassato e si sporgeva verso di me con una grande, magnanima espressione di convenienza. «Il punto è che Mr. Powder poi ammazza me. Capisci ora perché non posso darti gratuitamente la roba senza pensare alla mammina inferme che rimarrà da sola nel caso mi capitasse qualcosa? Sono o non sono un figlio modello?»

Sei solo un figlio di cagna, avrei voluto rispondergli, ma lo tenni per me. Riciclai invece la buona vecchia frase cui qualsiasi eroinomane si affida quando la bastardaggine del suo corriere raggiunge lo zenit. «Ho dimenticato i soldi a casa, vero, ma posso darti un anticipo.»

Lui mi osservò con espressione meditabonda. Evidentemente stava ponderando le mie parole. Sapevo quanto Mr. Powder fosse insistente e avevo ragione di credere che Bill lo sapesse meglio di me. Ero anche dell’idea che Mr. Powder fosse solo un falso nome, ma quest’affermazione era ancor più scontata della prima; in fondo, a ben guardare il significato del termine, era come se il direttore di un fast-food si fosse chiamato Mr. Ketchup. Rimasi ad aspettare un suo verdetto, con gli occhi che fuggivano ogni due per tre alla strada semideserta per controllare che nessuno allungasse troppo lo sguardo. Mancava mezz’ora alla fine del mio turno, la sera stava già scendendo e Mrs. Bissonette stava pulendo i tavolini nell’altra sala. Era un momento tanto propizio da equivalere alla Vigilia di Natale.

Alla fine Bill si decise e mi allungò il denaro per la pizza. Tra i verdoni arrotolati scorsi la bustina. «Il resto», mi incalzò. Presi quel che mi porgeva e gli passai la pizza con l’anticipo. Lui mi salutò con un sorrisetto beffardo, portandosi indice e medio alla fronte, prima di ingranare la marcia ed imboccare la corsia.

Abbiamo un conto in sospeso, stava a significare quel suo saluto. Era già capitato che non avessi con me il denaro sufficiente per la dose del giovedì e l’esperienza mi aveva insegnato che Bill si sarebbe presentato l’indomani con lo stesso sorriso per prendere il resto. La prudenza mi aveva più volte messo in guardia circa la possibilità che Mr. Powder, chiunque egli fosse, avrebbe prima o poi perso la pazienza a causa dei miei ritardi, ma era anche vero che ero uno dei suoi migliori clienti e che il cliente ha sempre ragione.

Lasciai i soldi nella cassa e tenni la bustina per me. Mrs. Bissonette mi diede il permesso di congedarmi prima e io non me lo feci ripetere due volte; ero già entrato in quella fase della carriera di eroinomane in cui un’astinenza prolungata ti fa venir voglia di grattarti come uno scimmione, e di certo non volevo ridurmi alla parte davanti alla mia superiore. Pedalare riduceva il rischio del prurito e quella sera, mentre mi infilavo il giubbotto prima di uscire, pensai che forse la siringa lo avrebbe ridotto ancor più. Henry lo aveva certo messo in pratica, perché era morto di overdose e non c’era stata spiegazione più eloquente dei buchi che gli avevano trovato dietro il ginocchio.

Io mi limitai solo a pensarlo, ma molto probabilmente avrei ancora una volta seguito le orme di mio fratello se quell’uomo seduto contro al muretto del parcheggio non mi avesse fatto cenno di avvicinarmi. Per un momento lo guardai, con l’espressione instupidita di chi non sa bene che pesci pigliare, e in tutta risposta ottenni solamente lo stesso gesto, quel suo invito frenetico a muoversi, diavolo, e a farlo in fretta, perché sì, sto parlando proprio con te. Non avevo idea di che cosa volesse da me un mendicante e non ero particolarmente propenso ad accostarmi a lui; non ero nato il giorno prima e mi erano giunte alle orecchie storie di barboni che rimorchiavano compassionevoli passanti per poi scipparli e darsela a gambe ad una velocità insospettabile. Sbarcai però al pensiero che le mie fossero solo paranoie e che in fondo, finché mi fossi tenuto a distanza di sicurezza, non sarebbe capitato nulla. Dubitavo nascondesse un’arma, altrimenti l’avrebbe già usata e non se ne sarebbe stato per due anni a cercare il Nirvana nel parcheggio di un fast-food.

Così mi avvicinai e mi fermai di fronte a lui, annidando il mento nel bavero. Poteva avere il triplo dei mie anni, ma alla luce dei fatti mi importava assai poco. Ancora mi chiedevo per quale sacrosanto motivo avevo accettato di avvicinarmi, io che non vedevo l’ora di tornare a casa e di far schizzare le impazienti cavallette che già sudavano nel mio cervello.

Adesso si alza, Eddie, mi mormorò una vocina malvagia, quella di Henry. Adesso si alza, ti rovescia le tasche, si prende la bustina e se la svigna.

E invece tornò ad incrociare le braccia e sul suo volto bruno vidi qualcosa simile all’avvertimento. «Se ne accorgeranno», mi disse solamente.

Aggrottai la fronte. «Chi? Cosa? Non ho tempo da perdere con te.»

«Del tuo amico.»

Allora capii. Capii che il mendicante del muretto aveva notato il mio pericoloso ma irresistibile passatempo. Quella realizzazione mi pizzicò maligna il fianco e mi vibrò gelida nel sangue. Bill non era così stupido da presentarsi ogni giovedì e ogni domenica con la stessa macchina; doveva averne forse quattro o cinque, modelli e colori imparagonabili, tutte quante messe a disposizione da Mr. Powder. Il barbone del Nirvana aveva il fiuto di un cane

(antidroga)

da tartufo. Rimasi a guardarlo per qualche secondo, con la lingua incollata al palato, per poi uscirmene con un: «Lo sai vero che se parli fai una brutta fine?» Non potevo concedermi il lusso di aggiungere quella frasetta magica che nei film sembra far tanto effetto su scomodi testimoni, ma la dissi lo stesso. «Conosco gente che sa come cucire la bocca a quelli come te.»

Il mendicante mosse le gambe sotto alla coperta ruvida e i suoi occhi rimasero invulnerabili. «Non ho detto che parlerò. Ho detto che se ne accorgeranno.»

«E io ho detto che devi tenera la bocca chiusa.»

Mi osservò senza aggiungere nulla e allora capii anche un’altra cosa: il silenzio è l’arma più convincente di chi sa di essere in vantaggio, e in quel momento, se si parlava di vantaggio, era come se in gola sentissi già pizzicare la sabbia che mi aveva fatto mangiare. Scendere a patti con un barbone; oh, ma quanto siamo caduti in basso.

Colsi quel che mi stava sottintendendo e gli lanciai una monetina, che lucida e chiara tintinnò nell’umidità della sera newyorkese prima di fermarsi come un occhio sull’asfalto. Si respirava odore di pioggia. «Ne avrai altre in cambio della garanzia del tuo silenzio.»

«Però puoi ancora tornare indietro», mi ricordò il mendicante, senza raccogliere il denaro. «Forse hai solo bisogno di qualcuno che parli per te.»

«Io non ho proprio bisogno di niente.»

Solo di pedalare, amico mio, di pedalare su per la via di Nostro Signore o giù per la gola di zio Lucifero, oh oh!

Dopo quel filosofico quanto inutile tentativo, il barbone allungò la mano e si prese la monetina. Sembrava ancora perplesso e un poco affranto, ma non ci diedi peso. «Tornerà domenica.»

Non era una domanda, ma gli risposi ugualmente. «Hai l’occhio lungo.»

«Sai, non c’è molto di interessante da guardare, in quest’angolo di New York», si giustificò, e provò un sorriso. Quel suo gesto mi rovesciò lo stomaco come un guanto di lattice; per un istante, nel riverbero delle vetrine e dell’insegna al neon del fast-food, il suo mi era parso il sorriso di un morto.

«Questo non ti dà il permesso di farti gli affari miei.»

«Vero anche questo.»

«Io sono Eddie.»

«Amos.»

«Amos? Che razza di nome è?»

«Uno dei tanti.»

Scrollai le spalle, guardai verso la strada. Per un momento avevo avuto la sensazione che le cavallette si fossero intorpidite, ma d’un tratto ripresero a vibrare eccitate reclamando la dose del giovedì. «Devo andare.»

Amos mi fece un cenno, appoggiò il mento al petto e se ne tornò a cercare il Nirvana nel suo silenzio di pietra. Forse nella sua testa passavano motivetti blues d’altri tempi o le grida di una pianola scassata o Iddio sa cos’altro possa passare nella mente di un afroamericano in eterna contemplazione di se stesso. Mi buttai semplicemente la questione alle spalle e lo superai prendendo per il marciapiede.

* * *


   
 
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