NdA: c’è un piccolo particolare che a un buon kinghiano salterebbe subito all’occhio, per cui preciso che due fratelli tossicodipendenti di nome Henry e Eddie Dean compaiono già nella saga “The Dark Tower”, di Stephen King. Sono personaggi che adoro e a loro mi sono quindi ispirata, riservando ad Eddie il ruolo di protagonista. Ho ripreso solo la parentela, i nomi e il loro debole per la polvere – per il resto, carattere e storia in primis, è farina del mio sacco.
Anche se all'inizio questa storia era impostata come una one-shot, ho deciso di dividerla in tre piccoli capitoli per facilitarvi la lettura. Sono la prima ad ammettere che una storia introspettiva, che si focalizza molto sulla descrizione della psicologia dei personaggi, può apparire ridondante e infinita se si concentra in un solo spazio tutta la vicenda. Era da parecchio che volevo scrivere qualcosa del genere e spero di essere pienamente riuscita nell'impresa-- se no altro, sono stata fortunata a trovare un pacchetto adatto a quel che avevo in mente x) Ringrazio in anticipo chi si fermerà a leggere e a lasciare un commento.
Questa originale partecipa al contest a pacchetti "Non Può Piovere Per Sempre", indetto da WhatHasHappened.
Un'ultima cosa, prima di lasciarvi.
Questa storia è dedicata.
E' tutta per lui, per quel volto anonimo, per quel sorriso che mi ha rivolto e che ancora non ho dimenticato.
Dew_
NON PUò CAPITARE A ME
1. L’UOMO CHE VA
Conobbi mio fratello all’età sbagliata. L’affermazione
potrebbe sviare, soprattutto tenendo in conto che Henry era sempre vissuto con
me, ma se aggiungessi quella parola magica, quella per cui un istante può
cambiare e il mondo cominciare a girare per il verso opposto, allora capireste.
La parolina in questione è davvero.
Avevo forse otto o nove anni quando queste tre sillabe
fecero capolino nella mia vita. Cominciavo allora a notare con distaccato eppur
inevitabile interesse le gambe della maestra, ai tempi ancora signorina Taylor,
e a pensare che forse Babbo Natale fosse solo un aborto della Coca-Cola. Sono
cresciuto con la convinzione – e credo che tutti i bambini del pianeta saranno
del mio stesso avviso – che a cause simili corrispondono conseguenze simili;
Santa Claus è rosso e la lattina della bibita sua madre è rossa, e questo
ragionamento non fa una piega. Ebbene, anno dopo anno capii che lo stesso
rapporto vale anche fra le persone. Tre me ed Henry è andata esattamente così.
E cielo, quanto lo conobbi bene. Quanto lo conobbi davvero.
Per quel Natale zia Beth mi aveva regalato una stupefacente
bicicletta blu. La gran novità che rendeva quel regalo assolutamente mozzafiato
era che mancava delle rotelline. Fino ad allora ero stato costretto a convivere
con qualcosa di più simile ad un triciclo che ad una bicicletta, un ibrido
vomitato per pietà o compassione da un’officina anonima della bella New York.
Con il dono di zia Beth, quel quattro ruote se ne andò al Padre Eterno facendo
fruttare a mio padre dieci dollari per il concesso riutilizzo di quel che
restava della rottamazione. Alla fine quei soldi finirono in tasca a me.
L’ibrido, mi consolai, era almeno servito a qualcosa.
In sella alla mia fiammeggiante bicicletta blu passavo di
fronte alle scuole quando avevo visto Henry fermo con alcuni amici nel bel
mezzo del campetto di pallacanestro. Mi ero fermato per guardare meglio;
armeggiava con qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco, vuoi per la
distanza, vuoi per il sole che scendeva, vuoi perché qualunque cosa avesse in
mano, era incredibilmente piccolo. Esistono due regole fondamentali per
qualsiasi secondogenito: “tuo fratello maggiore è il migliore” e “non
impicciarti negli affari di tuo fratello maggiore”. Henry era il migliore, ma
fin troppo spesso ficcavo il naso nelle sue faccende personali, e nemmeno
quella volta feci un’eccezione. Così ero smontato e mi ero infilato nel
campetto di pallacanestro spingendo a mano la mia bicicletta. Uno dei suoi
amici, Richard, credo si chiamasse, mi aveva visto per primo. Aveva dato di
gomito a Henry e gli occhi di Henry si erano alzati e mi avevano trovato. In
quel momento gli avevo visto in faccia l’espressione di chi viene sorpreso con
le mani nel vasetto di miele, ma era stato solo per un istante, perché nel giro
di un secondo aveva sfoderato il suo sorrisetto preferito. Era il sorrisetto di
benvenuto che qualsiasi fratello maggiore rivolge al fratellino quando sa già
che dovrà chiedergli di tenere la bocca chiusa.
“Eddie. Non dovevi già essere a casa?”
“Ci stavo andando e ti ho visto dalla strada.”
Aveva in mano una bustina di polvere. Leggeva un sacco di
romanzi gialli e sapeva che quando il colpevole cerca di nascondere la verità, prima
o poi neanche con il mantello dell’invisibilità riuscirà a farla passare
inosservata.
“Stavi pedalando?”, mi aveva chiesto con un enorme sorriso,
e io avevo annuito. “E sai cosa stavamo facendo noi?”
Silenzio dal fronte opposto. Lo sapevo, ma non avevo aperto
bocca. Così Richard era arrivato in mio soccorso: “Stiamo pedalando anche noi.”
“Con qualcosa di diverso. E sai invece cosa dovrai fare
tu?”
“Dovrò fare silenzio, Henry.”
A quella mia risposta, e ve lo giuro di fronte a Iddio, se
aveste sfogliato un dizionario fino alla parola fierezza, sotto avreste trovato la sua faccia. “Bravo fratellino”,
se ne era uscito, e mi aveva premiato con un pizzicotto sulla guancia.
Bravo fratellino. Ancora
non lo sapevo, ma quelle sue parole avrebbero saltato nel mio cervello come
cavallette impazzite per l’eternità. Il suo ricordo, i suoi gesti, tutto di lui
mi avrebbe cinto d’assedio. Me ne ero rimasto zitto finché i fatti non avevano
parlato per sé, poi Henry se n’era andato – pedalando, come mi sembrava giusto
affermare – e io avevo finito con l’essere il suo aborto. Lui Coca-Cola, io
Babbo Natale. Simili cause, uguali conseguenze.
Bravo fratellino.
Anche vent’anni più tardi, chino su quel tavolo di fronte
alla finestra, le fastidiose cavallette che giocavano nella mia materia grigia
tornavano a farsi sentire. Cominciavano a trasudare eccitate quando prendevo la
cannuccia, fremevano quando l’accostavo alla superficie, le sentivo schizzare
da una parte all’altra del cranio quando la polvere saliva e alla fine
implodevano piacevolmente quando pedalavo. Allora le giornate fuori da quella
finestra si coloravano di tonalità nuove e fantastiche, imparavo a volare e la
pioggia sul vetro non mi dava più fastidio. La bicicletta blu di zia Beth era
divenuto uno scarto in confronto perché non andava così veloce, non mi faceva
sentire così schifosamente soddisfatto. Mi consolavo nella certezza di aver
semplicemente seguito le orme di mio fratello maggiore, con la naturalezza di
chi afferma che al tramonto segue la sera e che non può essere altrimenti.
Oh sì, ero stato un bravo fratellino. Avevo tenuto la bocca
chiusa e Henry se ne andato pedalando su per la via di Nostro Signore o giù per
la gola di zio Lucifero. E anche in quel momento, con le cavallette che
rabbrividivano di estasi nel cervello, conoscere la sua destinazione poco importava; importava invece
che fosse rimasto in sella fino alla fine.
Bravo fratellino,
pensai, e mi chinai ad aspirare.
2.
L’appartamento che avevo in qualche modo rastrellato dai
confusionari annunci del Times godeva
di una posizione che qualsiasi dipendente di fast-food giudicherebbe
strategica: non si vedeva il mare dalla finestra e il riscaldamento lasciava
piuttosto a desiderare, ma di fronte, dall’altra parte della strada, vi erano
un’edicola, un pub e un negozio di utensili. A quei tempi lavoravo mezza
giornata in un piccolo locale all’angolo, dove agli automobilisti bastava
parcheggiare di fronte ad una finestrella per farsi servire il pranzo.
Il take-away ha i suoi vantaggi non solo per i clienti, ma
soprattutto per chi lavora: si scrive l’ordinazione, in caso di attacco di noia
si alza un ricevitore, e il gioco è fatto. Molto spesso dietro di te hanno già
preparato quanto è stato chiesto, quasi un metodo di prevenzione contro
tassisti affamati, ritardatari e incazzati neri, ma quando non è così puoi
concederti uno o due minuti di chiacchierata con il conducente. Ci si guarda
attraverso due cornici, la tua quella dello sportello da cui lavori e la sua
quella del finestrino, ma va bene così.
Lavorai all’angolo per due anni e potevo ritenermi un
veterano del settore per il semplice motivo che di norma il personale di un
fast-food gira peggio di una giostra di Disney World. Può capitare di fermare
la macchina davanti allo sportello del take-away e di trovare sette persone
diverse nel giro di una sola settimana, eppure io rimasi lì per otto stagioni e
per quanto New York sia grande, i miei clienti erano perlopiù abitudinari. Conobbi
così un sacco di gente, il vecchio Parker, quello che mai aveva voglia di
cucinare in casa solo per sé, Jessie, il ragazzo dell’altro isolato che pagava
sempre e solo con soldi altrui – “in prestito”, mi diceva -, Yvette, la nera
che si prendeva le ordinazioni rivolgendomi un “grazie fratello” e un sorriso
straordinariamente bianco.
Ne conobbi davvero molte, con la pecca che rimasero solo
volti oltre il finestrino abbassato di una macchina. Non deve perciò stupire
che l’unico che conobbi in fondo non fu un mio cliente abitudinario, né lo
sarebbe stato. Sedeva contro il muretto del parcheggio del fast-food e ogni
mattina, vedendolo nella sua serafica e sfuggente immobilità, mi chiedevo se la
sera, dopo il mio turno, si alzava per fare almeno una passeggiata. Stavo per
scalare marcia e cominciare a pedalare più veloce quando gli parlai per la
prima volta. Per questo semplice motivo, per il solo fatto di averlo guardato
negli occhi proprio quando cominciavo a prendere in considerazione l’idea di
bucarmi, credo d’aver conosciuto Amos all’età giusta.
E lo conobbi davvero.
3.
«A Mr. Powder non piacerà», mi rese noto Bill, guardandomi
con un sorrisetto eloquente. «Anzi, non gli piacerà per niente.»
«Non è la prima volta, sa che pago anche se in ritardo.»
«Non è questo il punto, Eddie», ricominciò lui. Mi parlava
con un gomito sul finestrino abbassato e si sporgeva verso di me con una
grande, magnanima espressione di convenienza. «Il punto è che Mr. Powder poi
ammazza me. Capisci ora perché non posso darti gratuitamente la roba senza
pensare alla mammina inferme che rimarrà da sola nel caso mi capitasse
qualcosa? Sono o non sono un figlio modello?»
Sei solo un figlio di
cagna, avrei voluto rispondergli, ma lo tenni per me. Riciclai
invece la buona vecchia frase cui qualsiasi eroinomane si affida quando la bastardaggine
del suo corriere raggiunge lo zenit. «Ho dimenticato i soldi a casa, vero, ma
posso darti un anticipo.»
Lui mi osservò con espressione meditabonda. Evidentemente
stava ponderando le mie parole. Sapevo quanto Mr. Powder fosse insistente e
avevo ragione di credere che Bill lo sapesse meglio di me. Ero anche dell’idea
che Mr. Powder fosse solo un falso nome, ma quest’affermazione era ancor più
scontata della prima; in fondo, a ben guardare il significato del termine, era
come se il direttore di un fast-food si fosse chiamato Mr. Ketchup. Rimasi ad
aspettare un suo verdetto, con gli occhi che fuggivano ogni due per tre alla
strada semideserta per controllare che nessuno allungasse troppo lo sguardo. Mancava
mezz’ora alla fine del mio turno, la sera stava già scendendo e Mrs. Bissonette
stava pulendo i tavolini nell’altra sala. Era un momento tanto propizio da
equivalere alla Vigilia di Natale.
Alla fine Bill si decise e mi allungò il denaro per la
pizza. Tra i verdoni arrotolati scorsi la bustina. «Il resto», mi incalzò. Presi
quel che mi porgeva e gli passai la pizza con l’anticipo. Lui mi salutò con un
sorrisetto beffardo, portandosi indice e medio alla fronte, prima di ingranare
la marcia ed imboccare la corsia.
Abbiamo un conto in
sospeso, stava a significare quel suo saluto. Era già capitato che
non avessi con me il denaro sufficiente per la dose del giovedì e l’esperienza
mi aveva insegnato che Bill si sarebbe presentato l’indomani con lo stesso
sorriso per prendere il resto. La prudenza mi aveva più volte messo in guardia
circa la possibilità che Mr. Powder, chiunque egli fosse, avrebbe prima o poi
perso la pazienza a causa dei miei ritardi, ma era anche vero che ero uno dei
suoi migliori clienti e che il cliente ha sempre ragione.
Lasciai i soldi nella cassa e tenni la bustina per me. Mrs.
Bissonette mi diede il permesso di congedarmi prima e io non me lo feci
ripetere due volte; ero già entrato in quella fase della carriera di eroinomane
in cui un’astinenza prolungata ti fa venir voglia di grattarti come uno
scimmione, e di certo non volevo ridurmi alla parte davanti alla mia superiore.
Pedalare riduceva il rischio del prurito e quella sera, mentre mi infilavo il
giubbotto prima di uscire, pensai che forse la siringa lo avrebbe ridotto ancor
più. Henry lo aveva certo messo in pratica, perché era morto di overdose e non
c’era stata spiegazione più eloquente dei buchi che gli avevano trovato dietro il
ginocchio.
Io mi limitai solo a pensarlo, ma molto probabilmente avrei
ancora una volta seguito le orme di mio fratello se quell’uomo seduto contro al
muretto del parcheggio non mi avesse fatto cenno di avvicinarmi. Per un momento
lo guardai, con l’espressione instupidita di chi non sa bene che pesci
pigliare, e in tutta risposta ottenni solamente lo stesso gesto, quel suo
invito frenetico a muoversi, diavolo, e a farlo in fretta, perché sì, sto
parlando proprio con te. Non avevo idea di che cosa volesse da me un mendicante
e non ero particolarmente propenso ad accostarmi a lui; non ero nato il giorno
prima e mi erano giunte alle orecchie storie di barboni che rimorchiavano
compassionevoli passanti per poi scipparli e darsela a gambe ad una velocità
insospettabile. Sbarcai però al pensiero che le mie fossero solo paranoie e che
in fondo, finché mi fossi tenuto a distanza di sicurezza, non sarebbe capitato
nulla. Dubitavo nascondesse un’arma, altrimenti l’avrebbe già usata e non se ne
sarebbe stato per due anni a cercare il Nirvana nel parcheggio di un fast-food.
Così mi avvicinai e mi fermai di fronte a lui, annidando il
mento nel bavero. Poteva avere il triplo dei mie anni, ma alla luce dei fatti
mi importava assai poco. Ancora mi chiedevo per quale sacrosanto motivo avevo
accettato di avvicinarmi, io che non vedevo l’ora di tornare a casa e di far
schizzare le impazienti cavallette che già sudavano nel mio cervello.
Adesso si alza, Eddie, mi
mormorò una vocina malvagia, quella di Henry. Adesso si alza, ti rovescia le tasche, si prende la bustina e se la
svigna.
E invece tornò ad incrociare le braccia e sul suo volto
bruno vidi qualcosa simile all’avvertimento. «Se ne accorgeranno», mi disse
solamente.
Aggrottai la fronte. «Chi? Cosa? Non ho tempo da perdere
con te.»
«Del tuo amico.»
Allora capii. Capii che il mendicante del muretto aveva
notato il mio pericoloso ma irresistibile passatempo. Quella realizzazione mi
pizzicò maligna il fianco e mi vibrò gelida nel sangue. Bill non era così
stupido da presentarsi ogni giovedì e ogni domenica con la stessa macchina;
doveva averne forse quattro o cinque, modelli e colori imparagonabili, tutte
quante messe a disposizione da Mr. Powder. Il barbone del Nirvana aveva il
fiuto di un cane
(antidroga)
da tartufo. Rimasi a guardarlo per qualche secondo, con la
lingua incollata al palato, per poi uscirmene con un: «Lo sai vero che se parli
fai una brutta fine?» Non potevo concedermi il lusso di aggiungere quella
frasetta magica che nei film sembra far tanto effetto su scomodi testimoni, ma
la dissi lo stesso. «Conosco gente che sa come cucire la bocca a quelli come te.»
Il mendicante mosse le gambe sotto alla coperta ruvida e i
suoi occhi rimasero invulnerabili. «Non ho detto che parlerò. Ho detto che se
ne accorgeranno.»
«E io ho detto che devi tenera la bocca chiusa.»
Mi osservò senza aggiungere nulla e allora capii anche
un’altra cosa: il silenzio è l’arma più convincente di chi sa di essere in
vantaggio, e in quel momento, se si parlava di vantaggio, era come se in gola sentissi
già pizzicare la sabbia che mi aveva fatto mangiare. Scendere a patti con un
barbone; oh, ma quanto siamo caduti in basso.
Colsi quel che mi stava sottintendendo e gli lanciai una
monetina, che lucida e chiara tintinnò nell’umidità della sera newyorkese prima
di fermarsi come un occhio sull’asfalto. Si respirava odore di pioggia. «Ne
avrai altre in cambio della garanzia del tuo silenzio.»
«Però puoi ancora tornare indietro», mi ricordò il
mendicante, senza raccogliere il denaro. «Forse hai solo bisogno di qualcuno
che parli per te.»
«Io non ho proprio bisogno di niente.»
Solo di pedalare, amico
mio, di pedalare su per la via di Nostro Signore o giù per la gola di zio
Lucifero, oh oh!
Dopo quel filosofico quanto inutile tentativo, il barbone
allungò la mano e si prese la monetina. Sembrava ancora perplesso e un poco
affranto, ma non ci diedi peso. «Tornerà domenica.»
Non era una domanda, ma gli risposi ugualmente. «Hai
l’occhio lungo.»
«Sai, non c’è molto di interessante da guardare, in
quest’angolo di New York», si giustificò, e provò un sorriso. Quel suo gesto mi
rovesciò lo stomaco come un guanto di lattice; per un istante, nel riverbero
delle vetrine e dell’insegna al neon del fast-food, il suo mi era parso il
sorriso di un morto.
«Questo non ti dà il permesso di farti gli affari miei.»
«Vero anche questo.»
«Io sono Eddie.»
«Amos.»
«Amos? Che razza di nome è?»
«Uno dei tanti.»
Scrollai le spalle, guardai verso la strada. Per un momento
avevo avuto la sensazione che le cavallette si fossero intorpidite, ma d’un
tratto ripresero a vibrare eccitate reclamando la dose del giovedì. «Devo
andare.»
Amos mi fece un cenno, appoggiò il mento al petto e se ne tornò a cercare il Nirvana nel suo silenzio di pietra. Forse nella sua testa passavano motivetti blues d’altri tempi o le grida di una pianola scassata o Iddio sa cos’altro possa passare nella mente di un afroamericano in eterna contemplazione di se stesso. Mi buttai semplicemente la questione alle spalle e lo superai prendendo per il marciapiede.
* * *