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Autore: Mary CM 93    10/07/2013    2 recensioni
La storia di una ragazza, Angelique, dei suoi drammi famigliari, dei suoi amori e dissapori...di una ragazza bellissima, che vive giorno per giorno, un piccolo dramma dentro di sè...che tenterà di evadere da una realtà che l'ha sempre schiacciata...
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Quella sera feci un enorme sbaglio, che cambiò la mia intera vita, avrei dovuto restare sulla spiaggia fino all’alba a scoprire me stessa. Quel rumore della cintura che si slacciava, che cadeva sull’asfalto freddo della strada, il buio, il muro sporco, il suo odore fastidioso e l’alito nauseabondo che mi invadeva, quelle sue parole unte che sibilavano nelle mie orecchie. Stordita, confusa, costretta, trascinata e piegata, ma i ricordi non svaniscono, rimbombando nell’urlo muto di chi soffre. Quella pelle sudata e quel sapore orrendo mi penetravano e fu un colpo sicuro, colpi ovunque, il silenzio. Poi uno sparo nel cielo nero, perché avevo ancora un po’ di forza mentre sanguinavo da dentro. Corsi, così com’ero stata spezzata e distrutta, così come mi ero difesa. Corsi vero destra, verso casa di Jean, senza pensarci, veloce. Tutto di me era rimasto in quel vicolo, la mia mente, la mia paura, il mio coraggio, nonostante tutto. E arrivai, la vidi e mi diede un senso di sicurezza, sapevo dove mi trovavo finalmente, l’unico posto che mi avrebbe protetta in quel momento.
 
Suonai non so quante volte, insistentemente, urlai, piansi e Jean mi aprì preoccupato. Ma, una volta aperta la porta, mi mancarono completamente le forze. “Dov’è…il bagno?”-gli domandi flebilmente.
“In fondo a sinistra, ma sei venuta qui per…”- ma non terminò la frase vedendo che mi trascinavo nel semibuio del corridoio verso il bagno senza dire una parole.
Mi seguì. La luce della luna illuminava a sprazzi le piastrelle colorate della stanza, tanto da permettermi di vedere dove fosse lei.
L’unica cosa che desideravo in quell’istante, l’unica che avrebbe potuto far dimenticare per un istante al mio corpo lo strazio che aveva subito, che avrebbe sciacquato via le lacrime, lo sporco, il dolore.
Aprì l’acqua, poco importava che fosse bollente o gelida, la mia pelle non avrebbe saputo distinguere, voleva solo essere pulita da quelle urla, da quel terrore che l’avevano percorsa.
Le gocce scorrevano veloci su di me, accovacciata contro il muro, muta, complice con la mia memoria di quel segreto.
E poi Jean, forse non aveva capito, ma mi venne vicino e mi tolse i vestiti fradici. Mi fece una carezza e girò la manopola sul rosso, poi chiuse la tenda della doccia ed uscì dal bagno.
Non so dire quanto durò quello scrosciare di calore misto a lacrime, ma poi Jean tornò con degli asciugamani ed una tazza bollente. Mi alzò e mi asciugò, mi diede una delle sue tute da ginnastica, poi mi condusse su per delle scale e mi fece accomodare sul suo letto, mi porse la tazza di the.
Mi accarezzava senza pormi domande. Mi accoccolai tra le sue braccia, ricoperta da baci soffici e premurosi e calore umano.
 
La mattina seguente, quando Jean mi condusse in cucina, tutto appariva diverso dalla sera precedente: casa sua era piccola, ma allo stesso tempo particolarmente accogliente, arredata in modo etnico ed eccentrico, colori caldi e profumi di tranquillità predominavano. Tutto era in perfetta armonia ed equilibrio, sembrava d’essersi immersi in un’altra realtà, sicuramente più piacevole di quella quotidiana.
“Ho fame, davvero molta fame…io non so se sono pronta a raccontare quel che mi è successo, ancora no.”- furono le mie prime parole.
“I miei non ci saranno per un po’ di giorni…forse una settimana”- disse -“puoi restare qui quanto vuoi, non devi spiegarmi nulla”.
Per l’ora di pranzo tutto era sistemato ed ormai mi trovavo completamente a mio agio, molto più che a casa mia.
Capii che avrei dovuto rispondere alle insistenti telefonate di Pauline, alla quale non avevo più dato mie notizie. Mi feci portare da Jean fino alla macchina che era rimasta nel vicolo la sera prima. Arrivai a casa, Pauline stava mangiando sola, con l’aria assente e preoccupata, ma quando mi vide arrivare la sua espressione mutò in dissenso.
“Pauline ti prego, prima di arrabbiarti…ho bisogno di te, di parlare con te, e nessun altro”.
Iniziai a piangere, lei si alzò di scatto dalla sedia e mi abbracciò, fu un abbraccio sincero, perché, per quanto me ne lamentassi, era davvero l’unica persona che avevo accanto, Jean aveva ragione. Nell’abbraccio, guardando nel vuoto, colsi l’occasione per tirare fuori quelle pesantissime parole, forse perché non avrei dovuto fissarla negli occhi, non avrei davvero potuto reggere senza crollare completamente: “Ieri notte sono stata violentata”- Pauline fece per staccarsi di colpo, ma la trattenni, volevo che continuasse a stringermi, non volevo vedere la sua espressione, non volevo neppure immaginarla- “E’ stato un poliziotto, mentre tornavo mi ha fermata, ho pensato che stessi guidando troppo velocemente, così ho accostato, mi ha fatta scendere dall’auto e…non c’era nessuno, era tardi…e io, ma poi…poi ce l’ho fatta, ho sfilato la pistola dai pantaloni e gli ho sparato…gli ho sparato ad una gamba e sono scappata.”

Piangemmo in silenzio entrambe, abbracciate. Grazie Pauline, di tutto.
  
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