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Autore: Macchia argentata    10/07/2013    15 recensioni
Lo guardò, seduto a quel pianoforte che la padrona amava suonare e gli sembrò fragile come mai l’aveva visto. Abissi scuri si agitavano dietro quelle iridi di un colore talmente sorprendente che non avrebbe trovato un paragone per descriverle. Rimasero interi minuti a osservarsi in un silenzio rotto solo dal cinguettio degli uccelli che proveniva dal giardino.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Generale Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Isabelle Il cielo era di un greve color peltro e la neve aveva imbiancato la grande fontana che si ergeva in mezzo al giardino.
Isabelle si avvolse nello scialle e soffiò sulle dita intirizzite. Si domandò se i pesci sarebbero sopravvissuti per l’intero inverno sotto quel manto ghiacciato. Le erano sempre piaciuti quei guizzi di fiamma che apparivano e scomparivano nell’acqua torbida, verde scuro. Quell’estate sovente aveva lasciato scorrere le dita oltre il bordo di pietra della fontana, dove galleggiavano le ninfee.
Era lì che lui l’aveva vista, la prima volta.
Era una limpida mattina di fine giugno e lui aveva attraversato il cortile a cavallo, la schiena dritta e i fianchi che sobbalzavano lievi al ritmo dell’animale. Isabelle aveva ritratto la mano con un sussulto, impaurita. Lavorava a casa Jarjayes da pochi giorni, non voleva essere giudicata una scansafatiche. Desiderava solo vedere i pesci.  Aveva abbassato il capo, portando le mani dietro la schiena con aria colpevole, e lui l’aveva superata al trotto, gli zoccoli del suo cavallo che sollevavano la polvere del viale attorno alla sua gonna. Solo quando si era creata, tra di loro, una distanza che Isabelle giudicava considerevole, si era azzardata a sollevare il capo. E, incomprensibilmente, l’aveva scorto voltato, intento a osservarla. Era bastato un attimo. Quando aveva sbattuto le palpebre, lui era già sparito oltre la pesante cancellata e lei aveva la gola secca e i palmi sudati.
Sarebbe passato un mese prima che i loro occhi si incrociassero di nuovo.
Erano i primi di agosto e l’infaticabile Marron Glacè le aveva messo in mano un vaso colmo di rose, ordinandole di portarlo nella stanza della padrona. Isabelle si era attardata, nel corridoio, affondando il viso tra i fiori, inalando il loro profumo dolce e fruttato. Le ricordava quello dei lamponi che da bambina si infilava sulla punta delle dita, succhiandoli piano piano.
La stanza della padrona era inondata di luce e le tende si gonfiavano all’interno, sospinte da una brezza leggera, che disperdeva la calura. Isabelle appoggiò il vaso sul tavolo di cristallo e sprecò qualche secondo per ravvivare le corolle. La padrona sarebbe tornata da Versailles quella sera e ogni cosa doveva essere perfetta, perfetta come lei. Non lo notò, non subito. Quando si rese conto di non essere sola nella stanza ebbe un leggero sussulto, ma lui rimase immobile, lo sguardo chino sulla tastiera d’avorio del pianoforte.
Isabelle deglutì, incapace di muoversi. Avrebbe dovuto fingere indifferenza e ritirarsi con discrezione, ma le sue gambe sembravano di gesso. Fu in quel momento che lui sollevò su di lei due occhi rossi, cerchiati di viola. Sembrava sperduto, completamente indifeso. Lei lo guardò, seduto a quel pianoforte che la padrona amava suonare e gli sembrò fragile come mai l’aveva visto. Abissi scuri si agitavano dietro quelle iridi di un colore talmente sorprendente che non avrebbe trovato un paragone per descriverle. Rimasero interi minuti a osservarsi in un silenzio rotto solo dal cinguettio degli uccelli che proveniva dal giardino.
Isabelle si chiese perché. Perché aveva scelto lei, per mostrare un dolore che non poteva esternare ad altri? O forse… forse era semplicemente crollato e lei l’aveva colto di sorpresa, irrompendo nella sua intimità, senza riguardi.
Alla fine lui si sollevò. Sospirò, poi si sistemò la giacca.
«Come ti chiami?»
Isabelle ci mise alcuni secondi a rendersi conto che le aveva appena rivolto la parola.
«Isabelle, signore.»
«Isabelle» ripeté lui, lanciandole un’occhiata penetrante. Le gambe della ragazza tremarono violentemente quando pronunciò il suo nome e ringraziò l’ampia gonna scura, che le mascherava.
 «Isabelle» mormorò di nuovo, con un sussurro. «Puoi portare via quei fiori, lei non tornerà. Non stasera.»
Uscì dalla stanza chiudendosi delicatamente l’uscio alle spalle, come se lei non fosse stata lì.

Isabelle rivolse lo sguardo al cielo. La neve scendeva leggera, come lo zucchero che Marron Glacè spargeva sui dolci. Era una notte diversa da tutte le altre notti. Al piano di sopra avvertiva, confuso, lo scalpiccio di piedi delle domestiche che correvano avanti e indietro. Era lieta di essere stata dispensata dai suoi doveri, quella notte. La vista del sangue le aveva sempre messo molta soggezione. La voce della padrona le arrivava attutita attraverso le pareti. Gridava con tutto il fiato che aveva in gola e il pensiero di Isabelle andò a lui, a quel pomeriggio in cui lo aveva scorto seduto al pianoforte. Quel giorno i suoi occhi le avevano toccato l’anima come nulla era stato in grado di fare da quando aveva memoria per ricordare.
Le urla parvero smorzarsi un po’ e Isabelle lo immaginò lì, fuori da quella stanza, in preda al terrore. Le labbra pallide, le nocche bianche dal troppo stringere i pugni.
La ragazza si avvicinò al letto e si raggomitolò sotto alle coperte, coprendosi le orecchie con il cuscino per non sentire oltre.
Non seppe dire quanto tempo era passato. Si sollevò sui gomiti, confusa. Qualcuno aveva aperto e richiuso la porta della sua stanza, scivolando silenzioso tra le ombre della notte. Solo quando i suoi occhi si abituarono all’oscurità lo scorse, immobile nel buio, e il suo cuore iniziò ad accelerare.
Non aveva paura. Non era sorpresa. Da tempo aveva intuito che sarebbe stato suo compito rimettere insieme i suoi pezzi, quelli che la padrona aveva mandato in frantumi. Si allungò sul materasso fino a sfiorargli piano il dorso della mano. Tremava. Isabelle lasciò scorrere le dita sulla sua pelle, infilandole dentro al polsino della giacca, e prese ad accarezzargli l’interno del polso. Sentiva il suo cuore pulsare ritmico nelle vene. Lo attirò a sé, gentilmente, come avrebbe fatto con un bambino spaurito e lui si lasciò trascinare senza opporre resistenza. Era un animale ferito in cerca di un rifugio caldo e lei avrebbe leccato le sue cicatrici.
Le loro labbra si toccarono al buio e lei si aggrappò alle sue spalle, lasciandogli scivolare la giacca dalle braccia. La sua bocca sapeva di liquore e tabacco e Isabelle ebbe l’impressione di sciogliersi al tocco della sua lingua.
Aveva sedici anni e non aveva mai amato un uomo.
La fece stendere tra i cuscini e le baciò il collo, affondando il viso tra i suoi capelli sciolti come se non volesse riemergere. Lei gli sfilò la camicia dai pantaloni, lasciando scivolare le dita sulla sua schiena dritta come un fuso. Lo toccava con movimenti delicati, come se avesse l’impressione di sciuparlo, o di sciupare quel momento. Lui intanto le aveva abbassato la camicia da notte oltre le scapole, scoprendole i seni. Erano tanto bianchi da perforare quell’oscurità perfetta, che li avvolgeva come una coperta. Lui si concesse un breve istante per guardarla, poi abbassò la bocca sui suoi capezzoli, succhiandoli come avrebbe fatto un neonato.
Quando le divaricò le ginocchia Isabelle tremò. Temeva il dolore ma aveva fiducia in lui. Si spinse in lei con un urgenza divenuta insostenibile e la ragazza si lasciò scappare un singulto. Qualcosa si era strappato in lei e una lacrima solcò la sua guancia, bagnandole le labbra. Iniziò a muoversi dentro di lei, i fianchi che si alzavano e abbassavano, seguendo un ritmo istintivo, e Isabelle si ritrovò ad assecondare i suoi movimenti, perché desiderava dargli quello che voleva. Quello che aveva sempre voluto. L’ossessione che avvelenava le sue giornate e rendeva irrequiete le sue notti.
L’orgasmo fu violento e Isabelle strinse le gambe attorno al suo corpo, per impedirgli di scivolare fuori da lei. Avrebbe voluto tenerlo lì, per sempre. Avrebbe voluto colmare il vuoto di certi suoi sguardi. Quando la guardava il freddo di quegli occhi si stemperava in qualcosa di più dolce, Isabelle ne era certa.
Gli accarezzò la fronte imperlata di sudore e gli scostò i capelli. Fu allora che la sentii. Una lacrima era caduta dal viso di lui a quello di lei. Si sporse verso di lui e gli baciò gli angoli degli occhi, bevendo quelle gocce di pianto amaro. Lui crollò su di lei, singhiozzando sommessamente e Isabelle lo cullò piano, con dolcezza.
«E’ una femmina» sussurrò lui, come se fosse una sconfitta, l’ennesima. «Un’altra femmina.»
«Lo so…» mormorò lei.
«Dio ce l’ha con me.»
«Non è così…»
«Allora perché si ostina a negarmi un’erede? Marguerite, lei… non vuole più avere figli. Ha detto che questo è l’ultimo, non ne metterà altri al mondo. Ed è un’altra femmina.» Picchiò la mano stretta a pugno contro il cuscino e si staccò da lei con aria frustrata.
Isabelle rimase in silenzio, mentre lui si rivestiva. Si infilò le scarpe e si sollevò dal letto. Lei si abbracciò le gambe con le braccia. Avrebbe voluto dirgli che lo amava. Che amava il suo portamento fiero, il suo spirito nobile e la segreta fragilità nascosta dietro al suo sguardo altezzoso, spesso severo. Ma non disse nulla. Sapeva che non sarebbe tornato da lei, perché era un marito devoto e un uomo che credeva nell’onore. Perché era un soldato e la disciplina era in lui.
Quella notte, la notte di Natale in cui era nata la sua ultima figlia, si era lasciato andare per la prima e unica volta nella sua vita. Non sarebbe più successo.
Si avviò alla porta, mettendo la mano sulla maniglia, ma prima di abbassarla sembrò tentennare. Si voltò verso di lei, il viso macchiato dal blu della notte.
«Pronuncia il mio nome» disse solo, come un’ultima preghiera prima di lasciare quel tempio che l’aveva accolto, stemperando la sua disperazione.
«François Augustin…» sussurrò Isabelle.
Lui tornò verso di lei e le posò un ultimo bacio sulle labbra, quasi a volervi imprigionare il proprio nome per sempre. Un risarcimento per quell’innocenza perduta, che non sarebbe più tornata.
Quella stessa notte, mentre Isabelle riponeva in una borsa i suoi pochi averi, François Augustin prese una decisione terribile, che l’avrebbe interamente assorbito per i successivi trent’anni.
Nove mesi dopo Isabelle diede alla luce un maschio sano e forte, a cui diede lo stesso nome di suo padre.



Era da tanto che non passavo di qua, e di motivi ce ne sono parecchi, ma non voglio annoiarvi.

Questa breve shot mi frullava in mente da tanto, ma per un motivo e quell’altro non riuscivo mai a scriverla. L’ho fatto in questa calda sera di luglio, e spero vi piaccia. Potrebbe anche essere l’incipit per una storia più lunga, ma non voglio sbilanciarmi perché non so proprio se avrò il tempo o l’ispirazione per scriverla.
Chi legge le mie storie sa che voglio bene al Generalissimo. Qui mi sono divertita a immaginarlo molto più umano di come siamo abituati a vederlo solitamente. Meno militare e più uomo confuso e tormentato. Le vostre opinioni saranno, come sempre, importantissime^^

  
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