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Autore: jappeis    11/07/2013    0 recensioni
In quel momento, in un attimo, credo proprio in quel momento, sotto il cielo invidioso del mio germoglio malato e quegli occhi scuri a guardarmi, decisi che avrei piantato dei fiori a Chernobyl.
Ma c’è dell’altro. Credo perfino, delirando, che Annabel abbia sentito i miei pensieri soffiare questa promessa, perché mi sembra, di nascosto, di averla vista sorridere.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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La notte usavo quindi farle visita, prima che finisse il tempo di ronda e che le luci del giorno facessero capolino, mostrando ai generali la mia noncuranza del regolamento.
E’ severamente vietato far visita ai malati, ai commilitoni, al telefono e ai bagni pubblici durante l’ora di ronda. Finita la suddetta, le uniche due azioni possibili sono andare al bagno e scambiare due battute con gli altri della squadra. Tutto l’impianto è imperniato sull’idea di renderci, rendersi insomma, inumano. Viene eliminato lo spessore emotivo e giorno per giorno inoculata in noi l’idea di passiva accettazione del destino, che esso sia di morte o di vita. A nessuno importa se la notte il sole muore e la mattina risorge o se le stelle sono stronze e non si fanno vedere, a Chernobyl non hai tempo di notare quelle farfalle nere che ogni tanto volano sul campo d’addestramento e quelle rosse e blu e di mille colori che volano con sporadica speranza nel vecchio bosco.
Proprio per questo, di notte, usavo farle visita, così da far sì che lo scorrere del tempo avesse un senso. Loro volevano fotterci togliendoci le scadenze, gli appuntamenti, l’attesa premiata e io li ripagavo con le ore che rubavo alla ronda.
Sapevo che m’attendeva con l’orecchio teso sulla porta e gli occhi socchiusi, che tanto non vedeva, e nonostante il freddo le tagliasse la pelle e le pungesse lieve le ciocche di capelli bruni, sapevo che m’attendeva senza chiudere la finestra. Arrivavo con sempre lo stesso ritardo, sempre che sia possibile parlare di orari in un luogo dove tempo non ce n’è. Restavo ad aspettare qualche minuto al bordo della strada e muovevo la testa senza troppa nevrosi per vedere se qualcuno, per caso, passasse di lì. Nel caso succedesse, improvvisavo una camminata svogliata e il girarsi fra le mani di una siringa , così da superare incolume il saluto di un commilitone. I passi dettati a gran voce dagli scarponi facevamo scricchiolare la ghiaia e quando i miei piedi sfioravano la metà del piccolo camminatoio che va dalla strada alla piccola cascina abbandonata, vedevo la porta in massello schiudersi lenta, con una mano minuta che ne torturava il legno con stretta trepida. La vedevo aggrovigliarsi su quello stipite come fosse carne viva e albero allo stesso tempo, come l’edera vibra sui muri dei castelli e la vedevo farsi più bianca per lo sforzo come se quel solo gesto le togliesse la forza di vivere.
Entrando m’abbracciava il caldo del camino in pail che corteggiava il mio corpo, intimandolo di spogliarsi degli abiti di lavoro. Non posso, mai. Annabel di solito non parla, neppure mi guarda con quei suoi occhi senza pupille, d’un nero che c’è solo a Chernobyl. Per Annabel ci sono solo gorghi neri e forme che s’adombrano ed escono solo per poco, nessuna luce e il suo stesso camino le risulta non familiare. Ho sempre immaginato che vedesse buchi neri e seppur non bene per via della mia maschera, ho visto nei suoi occhi il perduto e il fragore del caos. Quanto rumore e quanto silenzio.
Annabel s’erigeva, tutte le notti, fragile coi piedi nudi poggiati sul marmo (freddo) di quella vecchia casa di campagna. Era piccola, piccola come non mai, credo di poter vedere ancora oggi il suo alzarsi in punta dei piedi per sfiorare con le labbra la mia maschera. Le sue mani si muovevano spesso in maniera febbrile come solo i tabagisti sanno farle danzare e le piaceva scorrerle sul tessuto ruvido della divisa da Soldato della Pace,che conosceva come fosse sua. Credo sapesse quanto amavo toccarle la pelle e percorrere con l’indice tutto il suo corpo, definendo i contorni delle labbra per poi passare fra le sue clavicole e bearmi dello spazio fra i suoi seni e tra le sue gambe lastricate da tagli, come solchi di una quercia secolare; me lo lasciava fare senza porre resistenza alcuna e soleva accompagnare con la sua la mia mano dentro di se, e pur se di nascosto, le rubavo qualche sguardo che lacerava il telo grigio che di solito adombrava i suoi occhi bellissimi. Non credo le importasse di me, in quel momento, o di ciò che sentissi sul mio corpo, si limitava a mostrarmi un accondiscendenza passiva.mi seduceva così tanto, dannazione. Portava usualmente un solo velo di lino, o seta, che la ricopriva dalle spalle ai fianchi, credo di non averlo mai visto nel vero puro di un bianco. Aveva sempre qualche imperfezione, come se lo spaventasse privarsi dei suoi difetti e delle sue sporcature. Era, quel velo, come Annabel. Lo toglieva di rado, la difendeva dal vento e dai gorghi neri che la circondavano e bramavano la sua pelle nuda.
Di solito parlavamo di argomenti vari, purchè non fossero propri del posto stronzo in cui stavamo. Le piaceva la poesia, il suono del violoncello, il sesso. Quando sentivo il suo corpo più vicino ed il mio respirare più forte attraverso la maschera a gas, le prendevo i fianchi e la portavo su di me. La prima volta, fuori passava quel muso d’asino di Franck. Non mi svestii, scostai violento quella mia seconda pelle da lavoro quel tanto che bastava. Le entrai dentro. Vidi dalla finestra 166 imbracciare il fucile e sparare in pieno volto a quel malformato arrogante, poco distante suonava la prima campana di fine ronda e nell’aria c’era odore di morte.
Ricordo che appoggiai la testa sul suo seno. Troneggiava su di noi, campata in aria e di cattivo gusto, la scritta “CHERNOBYL, STAY AWAY FROM HERE” e c’era una luna malaticcia che guardava l’uscio per il giorno successivo con poca speranza.
“Mi ami?” chiese.
Pensai a quanto straziante fosse l’attesa senza lei, quanto agognata fosse la notte, quanto grigio fosse il giorno e quanti colori avesse lei. “Si. Tu?”
Parve un sospiro “No, non so farlo”. La scritta luminosa sembrò ridere di me.
“Li hai mai visti i fiori?”
“No, sono belli?”
“Si, credo”
“Credi sappiano amare?”
In quel momento, in un attimo, credo proprio in quel momento, sotto il cielo invidioso del mio germoglio malato e quegli occhi scuri a guardarmi, decisi che avrei piantato dei fiori a Chernobyl.
Ma c’è dell’altro. Credo perfino, delirando, che Annabel abbia sentito i miei pensieri soffiare questa promessa, perché mi sembra, di nascosto, di averla vista sorridere.
  
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