CAPITOLO 2
Il sole. Entrava prepotente di
spazio all’interno della stanza.
I raggi si spandevano
lentamente sopra i mobili. Uno, un po’ più temerario, iniziò la conquista del
letto. Dal copriletto salì alle lenzuola e da lì, al cuscino.
Lei strizzò gli occhi,
infastidita da quell’arrivo indesiderato.
Si voltò dall’altra parte.
Socchiuse gli occhi e incrociò quelli di sua madre.
Era lì, sull’uscio e la
guardava. L’aveva sentita rientrare tardi, la sera prima, ed ora la osservava
preoccupata.
Cos’aveva da un po’ di tempo
la sua bambina? Cosa le passava per la testa?
Non aveva mai trovato il
coraggio di chiederglielo e, la figlia, di
dirglielo.
Non si parlavano, non l’aveva
mai fatto.
Richiuse gli occhi. Mise la
testa sotto il cuscino e, protetta da quel fedele alleato
disse
- Oggi non vado a
scuola.
-
Perché?
- Perché non ne ho voglia, non
me la sento.
- Certo, è una settimana che
non te la senti. Cosa scriverai sulla giustifica “Non me la sentivo e non sono
venuta”
- Potrebbe essere un’idea,
grazie. Ora esci.
La madre non uscì. Non voleva
che la figlia saltasse un altro giorno di scuola. Voleva sapere perché non se la
sentiva di andare. Voleva sentirsi partecipe di quel mondo che lei stessa aveva
creato sedici anni prima.
- Spiegami perché non te la
senti, altrimenti ti alzi e vai a scuola.
Una guerra. Una guerra
continua. Una guerra fatta di sguardi, di gesti, di parole crudeli.
Ecco perché non se la sentiva.
Ma come poteva spiegarglielo?
- Non me la sento, non sto
molto bene.
- Non stai molto bene per
andare a scuola, ma per tornare tardi la sera stai benissimo,
vero?
- Ieri
sera....
Era quello il motivo percui
aveva sempre trovato insopportabile sua madre. Si ficcava negli affari di tutti,
pretendeva di sapere tutto, ma non sapeva niente.
- Ieri sera mi sentivo bene,
volevo andare a scuola, ma mentre ero fuori ha cominciato a piovere e ho preso
freddo.
Bomba sganciata, aveva
raccontato una mezza bugia. Una mezza verità.
- Certo. Perché tu non esci
mai col cappotto, non fai mai niente di quello che ti dico.
Quanto aveva ragione. Quanto
sapeva di aver ragione.
Quanto sbagliava ad imporle di
fare tutto quello che le si diceva di fare.
- Oggi tu andrai a
scuola.
Detto questo usci dalla
stanza.
Non aveva ribattuto. Sapeva di
aver torto.
Si alzò. Diede un’occhiata
alla sveglia, mai caricata da quando era su quel comodino, in quella
stanza.
Mise un piede per terra. Toccò
il pavimento gelido e rabbrividì.
Velocemente rimise il piede
sotto le coperte e si coricò nel letto.
Chiuse gli occhi. Non poteva,
non ce la faceva, solo all’idea aveva paura.
Rivederlo. Averlo davanti agli
occhi e non parlargli, non potergli dire tutto e
niente.
Con un balzò veloce scese
definitivamente dal letto.
Doveva farcela, non per lui,
non per sua madre, non per Sara, che ogni giorno le diceva di lasciarlo perdere.
Per nessuno di tutti quelli che conosceva, solo per la persona che conosceva di
meno e di cui aveva più paura: se stessa.
Solo per se stessa si vestì
velocemente, non fece colazione, scese in strada e corse come la sera prima.
Cartella in spalle, jeans e maglietta a maniche lunghe addosso e tristezza nel
cuore.
I gradini di pietra della
scuola si facevano sempre più vicini e il suo letto caldo sempre più
lontano.
Li salì fino all’ultimo, si
mise in piedi davanti all’entrata e fissò a lungo il suo gruppo di
amici.
Lui non c’era. Non era
arrivato puntuale, come poche volte. Forse non sarebbe neanche arrivato. Con
quell’ultimo pensiero in mente entrò nel lungo corridoio della scuola, salì le
scale e varcò la porta della propria classe.
La professoressa non era
ancora arrivata. Meno male. Prese posto nell’ultimo banco a destra, quello
vicino alla porta e aspettò. Aspettò con ansia che tutti i ragazzi della classe
fossero entrati, per poter tirare un sospiro di sollievo nel non vederlo varcare
quella porta verde.
Erano le otto e cinque quando
la prof. si sedette alla cattedra. Tirò fuori dalla borsa nera e logora il
registro e iniziò l’appello.
- Di Mari
Cristina?
-
Presente
- Donterre
Francesco?
-
Assente.
- Farletti
Giulia?
-
Presente.
- Finalmente abbiamo l’onore
di riaverla tra noi, signorina Farletti.
- Non mi sono sentita molto
bene in questi ultimi giorni.
- Vediamo la
giustifica.
Merda! La giustifica! Quella
benedetta giustifica. L’aveva lasciata sul comodino, accanto alla sveglia, e se
l’era dimenticata.
- Veramente l’ho dimenticata a
casa.
- Bene. Vuole una bella nota
dopo ben quattro giorni di assenza?
- Non la vorrei ma visto che
non ho la giustifica...
- Sarò buona Farletti.
Chiamerò sua madre per accertarmi che lei non mi stia dicendo
sciocchezze.
- Va bene, grazie
professoressa.
La porta si aprì lentamente.
Tutti si voltarono, compresa Giulia, che avrebbe
voluto non arrivasse mai quel momento.
Sara le mise una mano sulla
spalla. Lei sapeva.
Era lì sulla porta che
guardava la classe in cerca di lei. La trovò, incrociò il suo sguardo per un
attimo poi fu distratto dalla voce della prof.
- Signor Panasti, qual buon
vento la porta qui in classe con noi?
Lui non rispose, la stava
ancora fissando, come per chiederle se con quell’”addio” lei aveva inteso
veramente addio.
Lo scansò, gli rispose con
quel gesto. Lei non aveva scherzato, aveva inteso addio, e per
sempre.
Si diresse trafelato e
tristissimo verso il proprio banco. Aveva corso per avere quella risposta e ora
preferiva non averlo fatto.
- Domani voglio un colloquio
con sua madre.
Daniele non la stava
ascoltando. Era in corso, dentro di se, una battaglia di emozioni, uno scoppio
di sensazioni mai provate prima e solo lei, Giulia, lo vedeva.
Lo conosceva fin troppo bene
per non sapere quello che stava provando.
Voleva piangere ma doveva
trattenersi.
- Mi porti immediatamente il
diario, signor Panasti!
Federico, il suo vicino di
banco, nonché miglior amico, aveva intuito che era successo qualcosa, ma, non
capendo, portò il diario alla cattedra al posto di
Daniele.,
Perché? Perché erano dovuti
arrivare fino a quel punto? Perché per capire che le voleva troppo bene per
lasciarla andare era dovuto accadere quello che era
accaduto?
La prof. finì l’appello e
cominciò a spiegare la lezione di storia.
Giulia aprì il libro, ma quando lo richiuse, al suonare della campanella, Sara non potè non notare che la pagine lette erano macchiate di qualche lacrima disubbidiente, testimone di quel dolore.
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Beh...questo capitolo non mi è piaciuto molto quando l'ho riletto, prima di pubblicarlo, ma è necessario per la storia e poi, non è poi così tanto male...spero che vi piaccia e che commentiate.
Passiamo ai ringraziamenti.
Lady vampire: grazie, grazie, grazie...le mie storie sono tristi un po' come le tue...lo sai che ti voglio bene anch'io! Spero che questo capitolo ti piaccia più del primo ^_^ Ciauuuu.
Mikiko: ecco il proseguimento tanto sperato! Sono contenta che la storia ti piaccia e spero che ti continui a piacere!
Miss_miky: anche a me il primo capitolo è piaciuto tantissimo ^_^ e sono felice che sia piaciuto anche a te.
Kia93: ciao Kia, la tua sasà chan, la mia sà, mi ha parlato tanto di te e, come me ne ha parlato, sono fiera del fatto che ti sia piaciuta, perchè, anche se non ti conosco direttamennte, ti stimo. Mi auguro che anche questo capitolo ti piaccia come il primo ^_^ Ciauuuuu!
Baci a tutte le persone che leggeranno il capitolo e che continueranno a seguire la storia
la vostra affezionata
Miss dark
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