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Autore: ContessaDeWinter    12/07/2013    4 recensioni
Élisabeth-Louise Vigée-Le Brun, ritrattista di Sua Maestà la Regina di Francia, sa che il mondo che conosceva sta cambiando. Ha paura di affrontarlo perché, in fondo, non ha più certezze né punti di riferimento.
L'ultima speranza è scrivere una lettera, a Maria Antonietta, che possa almeno salvarla dalla melanconia e dai dolorosi ricordi appartenenti ad una vita lontana, ormai devastata dai fuochi della Rivoluzione.
Ma quel foglio di carta, insieme a tutto il dolore e la disperazione di un secolo che muta troppo rapidamente, non giungerà mai tra le mani della Delfina di Francia.
Partecipante al Contest a Turni "La Sfida dei Grandi Autori" indetto da fa92 sul Forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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Nick sul Forum: ContessaDeWinter
Nick su EFP: ContessaDeWinter
Squadra: Bianca
Giudice responsabile: Andrea e Fabio di Fa92
Turno: II
Pacchetto: Pontefice
Titolo Storia: Lettre Perdue
Pairing: //
Raiting: verde
Sezione Originali: Storico
Note dell’Autrice: Questa storia ha richiesto tutte le mie energie, coinvolgendomi totalmente e, in fine, lasciandomi stremata. Non scherzo quando dico che, penso, sia il lavoro a cui io mi sia applicata maggiormente. Non avrei potuto fare altrimenti, in verità, perché questo capitolo della storia francese (della storia universale, ad essere precisi) mi ha sempre ispirato ed emozionato un po’ più degli altri. Ho fatto ricerche infinite, appuntando su pagine e pagine di word informazioni che sarebbero potute tornare utili. Tutto ciò che è citato, in questa storia, è vero o minimamente reinterpretato: dalle ambientazioni, ai personaggi, alla tensione che aleggiava attorno a quel periodo e che, spero, aver saputo trasmettere.
La protagonista è la famosa ritrattista francese di fine ‘700 Élisabeth-Louise Vigée-Le Brun, la quale si occupò di dipingere i più famosi quadri inerenti a Maria Antonietta. Si dice avesse una stretta relazione con quest’ultima, un’amicizia viscerale ed intima. Alcuni tendono anche a rinominarla come saffica. Élisabeth è anche nota per aver scritto Souvenirs,ovvero le proprie memorie: da esse, gli studiosi hanno appreso numerosi particolari inerenti al periodo Rivoluzionario Francese, poiché l’autrice fa riferimento a personaggi storici realmente esistenti e di fondamentale importanza, dal punto di vista storico.
Tra cui, appunto, Maria Antonietta. Vorrei soffermarsi sulla modalità con la quale ho trattato di lei, in modo tale da non causare fraintendimenti. L’immagine della Delfina di Francia è contornata da un’aura oscura e ossequiosa. Perciò ho fatto in modo di non dissacrareil mistero che aleggia attorno a lei poiché, a dire il vero, non ne sarei in grado. Perciò è sì, la coprotagonista, ma non compare mai fisicamente ma solo spiritualmente: la vita di Élisabeth gira attorno a Maria Antonietta.
Altri personaggi che compaiono sono: Madame Du Barry (l’amante di Luigi XV) e il conte Hans Axel Von Fersen (amante di Maria Antonietta, che compare solo nell’ultima scena della storia, distrutto dal dolore per la perdita della sua amata). I destini di entrambi, descritti nel mio componimento, sono veri: la prima perirà per mano dei rivoluzionari, dopo essere tornata da Londra, mentre il secondo vagherà per l’Europa come diplomatico per conto del Re di Svezia.
Gli unici due personaggi inventati da me sono i servitori di Palazzo: François e Alexandré (un omaggio a Riyoko Ikeda, ideatore di Lady Oscar François De Jarjayes e André Grandier).
Le frasi con l’asterisco sono autentiche. Prego di prestar attenzione all’elenco di credits alla fine della storia. Vi auguro buona lettura!
_ContessaDeWinter


PS: Questa storia partecipa al Secondo Turno del Contest "La Sfida dei Grandi Autori" indetto da fa92. Spero vi piaccia!
 
 

Lettre Perdue

 

Palazzo delle Acque [1],
12 Luglio 1789.

 
Il salotto di Madame Du Barry non le era mai apparso tanto curato, come in quel tardo pomeriggio d’inizio luglio dell’anno 1789.
I raggi del sole morente filtravano dall’ampia finestra istoriata, volontariamente lasciata aperta per favorire il ricambio d’aria, poggiandosi con leggiadria sul mobilio finemente intarsiato, creando deliziosi giochi chiaroscurali sul pavimento in marmo di Carrara. Élisabeth-Louise Vigée-Le Brun ne godette a pieno, meravigliandosi come raramente era solita fare innanzi a qualcosa. Sorseggiò un poco la fresca limonata dal bicchiere in cristallo, che l’era stata servita poco prima, poggiando lo sguardo sui dipinti appesi alle pareti alte e, successivamente, osservando ammirata il soffitto affrescato con scene grecizzanti dalla tematica pastorale. Tutto era perfettamente calibrato: dalla lunghezza delle pennellate all’intensità dell’ombreggiatura, dalle tonalità di colore usate per impreziosire i lineamenti del viso alle proporzioni tra le figure umane e animali.
Non vi era nulla che eccedesse, nessun elemento che invadesse lo spazio dell’altro. Colui il quale si era occupato di dar vita a quel capolavoro era stato capace di reinterpretare, con stile moderno, una bellezza antica e rassicurante, dai tratti orientali e freschi.
Un rumore la destò dalla contemplazione dell’opera, come un tuono che squarcia il cielo notturno e sereno di Parigi. Distolse lo sguardo, tornando ad osservare la realtà con malcelata freddezza.
«Dovete scusarmi, Madame Vigée. Sono davvero mortificata per avervi fatta attendere tanto. Purtroppo i miei ospiti hanno la spiacevole abitudine di presentarsi al momento inopportuno.»  
La giovane donna, che aveva varcato da poco la camera, indossava un abito semplice ma altrettanto pregiato per via delle stoffe usate: il tessuto importato dall’Italia le sfiorava le gambe lunghe, seguendola ad ogni suo passo, senza mai essere volgare. Il corpetto stretto al suo busto (con accortezza) le fasciava la vita sottile, donando quel tocco di sensualità che Élisabeth le invidiò.
«Madame Du Barry non dovete scusarvi con me. Comprendo i vostri ospiti inattesi, in verità: quest’oggi siete più radiosa del solito e sono certa che, per loro, sarà difficile starvi lontano.»
La donna sorrise con cortesia ed un leggero velo di vanità ad imbruttirle il viso tondo, aristocratico. «Quanti complimenti, Madame, quanti complimenti! Non mi merito affatto tutte queste attenzioni.»
«Insisto, invece, - disse, mentre si alzava in piedi e si avvicinava con cautela alla dama, – o non sarei qui per dipingervi, Mia Signora.»
«Oh, cara, cara ragazza! Voi siete troppe gentile! – cinguettò la donna, prendendola sotto braccio e accingendosi a condurre Élisabeth verso il balconcino poco lontano, che si affacciava sul giardino curato della villa. – Ma suppongo che siate stanca dopo il lungo viaggio da Parigi. Pertanto esigo che l’opera sia iniziata domani: non voglio che vi affatichiate più del necessario.»
«Come desiderate, Madame.»
Élisabeth si perse nuovamente nei propri pensieri, in estasi. Innanzi agli occhi, l’immenso giardino di Villa Du Barry si estendeva come un sogno. Gli abeti alti si allungavano verso il cielo rossastro con le loro chiome ramificate, apparendo terribilmente solitari nella loro bellezza. Il cinguettio continuo dei passerotti erano l’unico sottofondo di quella struggente visione.
Il mondo le apparve lontano anni luce, lì a Palazzo Louveciennes. Non vi erano urla, strepiti, rivolte, rivoluzioni. Tutto era tranquillo, in pace, in armonia. E per un solo attimo, Élisabeth si sentì bene dopo molto tempo.
Il sole tramontò, scomparendo dietro il verdeggiante parco che si estendeva per ettari, in una tra le più fulgide e splendide delle visioni. Lo sguardo di Madame Vigée seguì il suo corso, oltrepassando la fontana in oro posta al centro del giardino, fino a toccare il cielo limpido e infuocato dagli ultimi raggi di luce. La notte parve imporre la propria autorità sul dì, vincendo la battaglia per il predominio della volta celeste.
Entrambe le donne rimasero ferme, immobili, fino a quando non calò definitivamente la sera.
Il giorno terminò in un soffio di vento ed in un battito di ciglia.

 
~
 
Élisabeth osservò l’abito regalatole da Maria Antonietta, sorridendo tra sé.
Era di un colore tendente al bianco, madreperlaceo, così vivido e lucente da apparire la più pura tra le svariate tonalità di colore esistenti al mondo. La più innocente.
Quella che dava vita a tutte le altre.
Ancora rammentava l’emozione con la quale aveva accettato il dono della Regina, considerandolo il più prezioso degli averi. Non lo aveva mai indossato per paura di rovinarne il fascino. Lo teneva con cura maniacale appeso alla stampella di legno, nell’armadio, facendogli prendere aria almeno una volta al mese, in modo tale da non far comparire tarme indesiderate.
Ma quella sera, per la prima volta dopo anni, sentì la necessità di metterlo. Pareva quasi che il tessuto leggero ed elegante (seta, forse, e pizzo ricamato) la reclamasse a sé. Élisabeth non poté resistere.
Lo sfiorò con cautela.
Lo stile impero che predominava sul modello classico parigino di quel capo d’abbigliamento d’alta sartoria, sublime e semplice, la intrigò come fosse un amante ed i metri e metri di tessuto la fecero innamorare nuovamente.
Chiamò la dama di compagnia, affidatale da Madame Du Barry, chiedendole di prepararle un bagno rilassante e di aiutarla a vestirsi. Lei acconsentì con un lieve inchino e un cenno del capo.
Élisabeth rimase affascinata e lusingata da quel gesto di pura sottomissione. La ascoltò affaccendarsi nella camera attigua a quella da letto, versando l’acqua tiepida nella vasca e cercando i sali profumati al muschio bianco per aromatizzare l’aria. Madame Vigée chiuse gli occhi, espirandone il profumo delizioso e avvolgente.
Nulla più aveva importanza se non il proprio benessere.
Si lasciò nuovamente trasportare dalle sensazioni più contrastanti.
Per tutta la vita aveva frequentato luoghi e ambienti di cui aveva solamente potuto accarezzare la superficie, invalicabile per una non nobile come lei. Aveva agonizzato di poterne far parte, strenuamente, fino a quando non aveva incontrato la delfina di Francia. Tutto era cambiato, come in un meraviglioso dipinto su tela.
La miseria che aveva circondato la sua esistenza, sin da bambina, fu sostituita da una più discreta e mediocre ricchezza, fino a toccare l’apice del benessere. Ed i suoi intenti di rimanere coerente con se stessa, di non lasciarsi trasportare dal lusso e dal perbenismo, si erano dissolti come nuvole di fumo.
La gioia dell’effimero l’aveva conquistata col tempo. Inesorabilmente.
In men che non si dica, si era persa in un peccato sublime e a tratti dolce come il miele, fatto d’indolenza e noia.
Fatto di accidia, verso tutto ciò che non fosse se stessa.
 
«Avete sentito, mia cara, di quel giovane?» Chiese Madame Du Barry, sorseggiando un sorso di Sauvignon dal calice in vetro soffiato per poi tornare ad assaggiare la pietanza che, in precedenza, le era stata servita.
La cena stava trascorrendo placida, tra una chiacchierata leggera e momenti di quieto silenzio, tra una portata di pesce e una di carne. I servitori della favorita del Re si erano prodigati nel servire il pasto in una delle più belle sale da pranzo dell’intero Palazzo Louveciennes: il tavolo, lungo e stretto, era stato agghindato da un telo leggero, di raso scuro, mentre i piatti e le posate in argento rilucevano in quell’atmosfera leggiadra ed avvolgente, puramente serale e notturna.
«Di chi parlate, mia signora?» Domandò Élisabeth, con voce soffusa.
Ebbe l’impressione di aver interrotto, con il suo solo quesito, la tranquillità fugace di quel momento perfetto, decorato di sfarzo ed eleganza. Se ne vergognò immensamente.
«Oh, mi sorprende che tale notizia non vi sia giunta! Ormai, costui è molto famoso anche in Francia, per non parlare della sua notorietà in Italia!» Continuò la Du Barry, tessendo le lodi dello sconosciuto.
«E’ un pittore, come me? O si occupa di altro?»
La signora rise di gusto. «Diciamo che si diletta ad essere un artista ma, certamente, non dipinge. Si chiama Mozart.[2]»
«Oh, - sussurrò d’improvviso Élisabeth, – mi è parso di sentirlo nominare dalla Regina, Maria Antonietta, di quando in quando.»
Madame Du Barry sbarrò gli occhi, scomponendosi per pochi attimi e il viso si tinse di una leggera vena astiosa e iraconda.
Élisabeth capì di aver parlato troppo poco ma troppo in fretta, senza riflettere minimamente su ciò che le sue labbra avrebbero pronunciato.
«M- mi dispiace avervi mancato di rispetto, citandola.» Disse, abbassando lo sguardo contrito.
«Non dovete scusarvi, mia cara, - le rispose la donna, un sorriso gelido sulle labbra sanguigne, – non avete fatto nulla di male. In fondo, Voi eravate la ritrattista di Sua Altezza, la Regina: è assolutamente normale che le siate rimasta affezionata.»
Élisabeth non poté far altro se non annuire, remissiva, arrossendo leggermente sulle gote, percependo i palmi delle mani inumidirsi e tremare. Afferrò il calice di cristallo e bevve il liquido rossastro, fortemente alcolico, sentendolo bruciare nella gola e poi giù, nell’esofago.
Per un solo attimo, le parve di essere tornata a Versailles, in una di quelle serate a tema che solevano svolgersi nella Sala di Marte [3]. Rivide, innanzi ai propri occhi appannati dai fumi dell’alcool, le cortigiane danzare in cerchio con i loro abiti pomposi e voluminosi, accompagnate dai mariti e promessi sposi, ufficiali dell’Esercito Francese in alta uniforme e Principi Dignitari con le insigne regali appuntate al petto.
L’estasi della musica riecheggiò nella sua mente, inebriandola di ammirazione e stupore, quasi stesse osservando realmente un dipinto dai mille colori sgargianti, perfettamente intrecciati tra loro a formare un cielo di perfezione. Un cielo puro, candido nella sua eleganza, fuggevole nella sua crudeltà ma, al contempo, ammaliante alla stregua di una rosa rossa.
Il suono dei violini incontrò la rude armonia dei violoncelli e la dolcezza delle note suonate su di un fortepiano [4]:un’unica perfetta melodia, suonata con ancestrale destrezza, profondamente virtuosistica.

 
«È Mozart, Madame Vigée. Vi piace? Lo trovo meraviglioso.»
Una domanda sussurrata all’orecchio di Élisabeth.
Il profumo, indossato dalla Regina quella sera, la scosse nel profondo.
 
Non vi era nulla di sbagliato, in tutto quello.
Nulla di erroneo o deviante.
Riemergendo dal suo sogno ad occhi aperti, Élisabeth guardò fuori da una delle vetrate della sala da pranzo di Villa Du Barry e poté scorgere il turbamento inondare le vie Louveciennes.
Madame Vigée rabbrividì di paura.
I tumulti di Parigi erano giunti fin lì.
Entrambe le donne udirono uno scoppio di cannone squarciare l’atmosfera. Le urla di protesta, che seguirono, immobilizzarono l’aria e la deteriorarono con la loro aggressività.
La maestosità dei ricordi svanì, pietosamente.
 «Ai tempi del re Luigi XV queste cose non sarebbero accadute.»*

 

- - - - - - - -

 

Palazzo delle Acque,
Notte del 13 Luglio 1789.

 
“Ci sono uomini che usano le parole
all’unico scopo di nascondere i loro pensieri.”
 Voltaire **

 
Élisabeth non riusciva a prendere sonno, quella notte. Il rumore assordante delle rivolte popolari la disturbava profondamente, trasmettendole una sorta d’irrequieta ansia. Tentò di calmarsi, più e più volte, ma non valse a nulla. Provò persino a tratteggiare qualche schizzo su tela (passatempo che, solitamente, la aiutava a distendere i nervi) ma non funzionò.
Perciò, si alzò dal suo giaciglio lentamente, mentre la veste da notte, che si era arrotolata tra le lenzuola profumate di lavanda, si allungò sulle proprie gambe pallide e longilinee, coprendole completamente. Afferrò la candela poggiata sul segreter, poco lontano dal letto, notando il modo in cui la luce flebile della fiammella inondava la camera di un’aura triste e melanconica.
Il rintocco della dodicesima ora segnò la nascita di un nuovo giorno e Élisabeth non poté impedire a se stessa di sperare che quest’ultimo rimanesse identico al precedente. Sentiva, in cuor suo, che tutta quella situazione, a Parigi, non preannunciasse nulla di positivo.
Il mondo stava cambiando troppo velocemente e lei non era ancora pronta ad affrontarlo.
Con passo cadenzato, si avvicinò alla porta finestra della propria stanza da letto, spalancandola: l’aria tiepida della notte la investì in pieno viso, facendola sospirare un poco.
Scrutò la luna, il suo chiarore abbacinante e si lasciò trasportare ancora una volta dai ricordi. Le tornarono in mente le morte stagioni, trascorse sin troppo velocemente, ormai lontane assieme alla felicità di cui erano intrise nella sua mente e non poté evitare di provare una struggente nostalgia.
Per un attimo le mancò il respiro, la gola stretta in una morsa e le lacrime indiscrete le circondarono il viso come una carezza leggera, fatta di rimpianti e un dolore sussurrato al cuore.
Fu in quel momento, stravolta dal tormento e dai pensieri, che una forza invisibile la condusse allo scrittoio, poco lontano dal baldacchino, su cui erano poggiati dei fogli bianchi (sin troppo candidi, al chiarore della candela ancora bruciante), una penna d’oca e dell’inchiostro.
Non riuscì a frenare se stessa, Élisabeth: afferrò la carta linda, intingendo la penna nel calamaio, e iniziò a vergare parole sulla di essa.
Non ci fu bisogno di pensare ulteriormente a cosa dire, in quella lettera, a come esprimersi o quale tono dovesse avere.
Le sue parole sarebbero comunque risuonate menzognere, agli occhi di chi avrebbe letto.

 

Mia Regina,
Mia cara Maria Antonietta,
spero che la vostra permanenza a Versailles stia procedendo
meravigliosamente come di consueto.
Ho avuto modo di sentire che le giornate siano serene, lì. Il sole continua a splendere, nonostante tutto. Auguriamoci che continui così, nei giorni a venire: non vi sarebbe alcun divertimento nell’esplorare i giardini reali accompagnati da una pioggia scrosciante.

 
 
Proseguì così, citando fatti ed eventi irrilevanti, senza mai soffermarsi troppo su nulla. Senza far trasparire i propri sentimenti.
I reali pensieri non erano ammessi, non in quel momento. La fragilità delle apparenze era qualcosa che doveva essere preservata, in tempo di guerra.
Élisabeth tremò all’idea, mentre le lacrime continuarono a solcarle le guance pallide. Inesorabilmente.
Afferrò una tra le pregiate buste da lettere, ordinatamente disposte in uno dei cassetti della scrivania in frassino vecchio, e ripiegò accuratamente il foglio in quattro, inserendoglielo all’interno. Si fermò un attimo, osservando attentamente il lavoro appena compiuto. Poi, con esitazione, sfilò l’anello in zaffiro che portava sempre all’anulare sinistro (un regalo del suo povero padre, morto anni prima di vecchiaia) e lo accompagnò alla missiva. Il colore brillante della pietra (d’un azzurro acceso, tendente al blu oltremare e a quello marino) proiettò bagliori sinistri sulle pareti, spaventandola maggiormente.
Per un attimo, le parve di star commettendo un crimine indicibile. Quel gioiello rappresentava tutto ciò che era stata, la sua discendenza, la sua famiglia. Eppure sentiva, in cuor suo, che non le apparteneva più.
Sarebbe stato di Maria Antonietta, sarebbe stato con lei, fino alla fine, segno tangibile della propria devozione. Del proprio affetto.
La fiamma della candela si spense, d’improvviso, la cera calda colò sul candelabro d’argento e il fumo si protrasse verso l’alto, come un’anima che sale in paradiso.
Un segno, forse?
 La stanza tornò avvolta dai flebili raggi lunari, portatori d’angoscia.
 

~
 
Élisabeth non riuscì ad attendere che il mattino giungesse.
Svegliò François (la donna che si era presa cura di lei e delle sue stanze, in quei giorni trascorsi a Palazzo Du Barry) alle prime luci dell’alba.
Non poteva aspettare.
Un’ansia crescente le palpitava in petto da ore, come il rullo dei tamburi prima di un’impiccagione.
Il mondo pareva essersi rimpicciolito, in maniera quasi asfissiante, attorno a lei, togliendole il respiro e qualsiasi via di fuga. Perché sarebbe volentieri scappata, da quel luogo, così angusto e senza speranze. Non vi era salvezza, in cuor suo, o destino alcuno verso cui protrarsi.
Forse era la paura, a parlare per lei, ma Élisabeth non poté far altro che tremare un poco di più, quando vide i focolai rivoluzionari alle porte del Palazzo delle Acque. L’aria fredda del mattino penetrò la veste da notte che ancora indossava, ridestandola dal torpore e dallo sconcerto.
Strinse la lettera al petto, con maggior enfasi, e puntò lo sguardo verso la governante che, nel mentre, parlava in maniera concitata con uno degli stallieri. Vide quest’ultimo accarezzare la criniera di un meraviglioso esemplare di purosangue, dal manto nero pece e dagli occhi dorati che brillavano nella luce soffusa del primo giorno, intento a masticare della paglia verdognola. Ne osservò la bellezza elegante, la linea dei muscoli contratti degli arti inferiori e la coda lunga, fluente.
«Mia Signora, - iniziò a parlare il servitore, destandola dalla contemplazione, - farò del mio meglio per consegnarla, ma...»
« No! Non dire niente!» Esclamò Élisabeth, avvicinandosi di qualche passo. Le mani tremanti si allungarono verso l’uomo e la busta scivolò da esse con straziante lentezza. «T’imploro: devi consegnarla alla Regina. Nessun altro. Non mi fiderei di nessun altro, se non di lei. Devi andare a Versailles e c- consegnargliela, i- io...»
La frase si perse, tra le lacrime. Si sentì annegare nel pianto, un poco di più, quando François si accostò per stringerle amorevolmente le spalle con una coperta di flanella leggera.
«Vai, Alexandré, fai buon viaggio.»
L’uomo annuì, semplicemente, montando a cavallo e avviandosi fino al cancello d’entrata del Palazzo.
Il rumore degli zoccoli sul ciottolato parve rimbombarle nella mente, andando ad unirsi al frastuono provocato dal terrore che le invadeva il petto: tamburi prima di un’impiccagione.
Il sole sorse, all’orizzonte, quel 14 Luglio 1789.
 

- - - - - - - -

 

Palazzo delle Acque,
17 Ottobre 1793.

 
Il mondo non terminò, d’improvviso. Rimase in bilico per ore, attendendo la propria caduta nel baratro fatto di menzogne, falsità e rabbia. Il fuoco non lo invase subito ma, pian piano, risalì dal centro del globo fino a giungere in cima, contornando l’emisfero tutto.
Élisabeth assistette alla devastazione, come fosse una tra le molteplici spettatrici dell’Opéra National de Paris. Vide gli attori affaccendarsi attorno ai focolai, con spade, archi, frecce e bastoni di legno, nascondendosi dietro una tenda in modo da non essere vista.
Benché non vi fosse più pericolo alcuno, la donna continuava ad avere il terrore di uscire dal Palazzo di Madame Du Barry. Di costei non aveva più notizie da molto tempo, ormai. Rifletté sulla possibilità che fosse morta, per mano dei rivoluzionari o della ghigliottina, tremando al pensiero.
Non anche lei. [5]
Élisabeth scosse il capo, stringendo le braccia al petto per proteggersi dal dolore, profondamente radicato nel petto.
«Mia Signora, - disse François, entrando nella sala da pranzo con una bevanda calda tra le mani, - vi ho portato un tea, per la vostra gola.»
«Ti ringrazio.» Le rispose, cortesemente, sorridendo appena. «Notizie da Parigi?»
La governante si fermò. «No, Mia Signora. Ma è appena arrivato un Alto Ufficiale dell’Esercito Svedese e l’ho fatto accomodare di sotto. Sta aspettando che possiate riceverlo.»
Élisabeth annuì e, dopo aver sorseggiato l’infuso bollente, si alzò in piedi, facendo segno all’altra donna di seguirla nelle stanze attigue.
Si preparò con cura, indossando l’abito madreperlaceo di Maria Antonietta e l’anello di zaffiro. Lo osservò per alcuni attimi, rimembrando le parole dello stalliere che, di ritorno da Parigi in quel lontano 14 Luglio 1789, le aveva comunicato il fallimento del suo viaggio e la mancata consegna della lettera per la Regina. Rammentò con dovizia di particolari, la disperazione e la tristezza che avevano caratterizzato il tono di voce dell’uomo quando, lentamente, le aveva annunciato la Caduta della Bastiglia.
Élisabeth non aveva pianto, non aveva reagito in alcun modo se non quello di afferrare la busta, che il servitore le aveva reso poco prima, sfilare il gioiello contenuto al suo interno e stracciare quel messaggio in piccoli brandelli di carta che svolazzarono nell’aria calma della sera come uccelli morenti, per poi ricadere nell’acqua alta della fontana del Palazzo.
«Madame, volete che acconci i capelli?»
«No, grazie. Fai pure accomodare l’Ufficiale nel balcone dell’ala sud. Fai servire ciò che lui desidera e riferisci pure che sto arrivando.» Concluse la donna, osservando la serva annuire ed uscire.
Le era rimasta fedele, per tutti quegli anni e, ancora una volta, si chiese il perché di tale scelta. Potevano essere liberi (dalla loro condizione di servi, sottoposti, schiavi forse), lei e Alexandré, ma nonostante ciò non si erano allontanati dal Palazzo delle Acque.
Élisabeth trasse un respiro profondo, scacciando quei pensieri dalla testa. Strinse le mani piccole sul corpetto del vestito, inspirando i ricordi come fossero appena avvenuti. Poi uscì dalle proprie camere e si diresse verso il luogo dell’incontro.
 
Non ci fu bisogno di presentazioni inutili.
Élisabeth sapeva perfettamente chi le stesse davanti, con il portamento fiero da Ufficiale e l’eleganza che solo un nobile svedese avrebbe potuto mostrare.
«Sono contento di rivedervi, Madame Vigée. Dovete credermi.»
«Il sollievo è ricambiato, soprattutto di questi tempi, Conte Von Fersen.» Rispose, accostandosi al giovane uomo.
Non parlarono molto, in effetti. Per lo più, rimasero in religioso silenzio, osservando il paesaggio che si stagliava innanzi a loro con melanconia. Il sole sarebbe tramontato presto, dietro gli abeti alti del Palazzo di Louveciennes, splendidamente illuminato da una fioca luce, quasi irrisoria e sbiadita. Aveva perso quella bellezza fulgida, che Élisabeth aveva potuto apprezzare il primo giorno lì, per lasciare posto a una più tenue.
«Vi chiederete il perché io sia qui.»
«Non credo ve ne sia il bisogno, Fersen. Ve lo leggo negli occhi, arrossati di pianto.»
Il Tenente annuì, abbassando il capo, stringendole una spalla in segno di conforto.
Ma nulla avrebbe potuto confortarla.
«Quando è successo?»
«Ieri, a mezzodì. Nella Piazza Principale.» Rispose. «Non ho potuto fare niente per impedirlo.» La voce del militare s’incrinò, giunta al limite della sopportazione.
Élisabeth non si volse verso di lui ma poté percepire chiaramente le lacrime rigargli il viso.
«Partirò domattina, non so dove andrò.»
«Questa casa sarà sempre felice di accogliervi, Conte, benché non sia di mia proprietà. Ma credo che Madame Du Barry non potrà opporsi a tale decisione: è partita mesi fa, concedendomi l’onore di rimanere qui per tutto il tempo necessario. Non ho avuto il coraggio di lasciare questo posto.» Sussurrò, abbassando lo sguardo verso le proprie mani intrecciate.
«Madame Du Barry è morta dopo essere tornata da Londra. Avrebbe voluto rivedere queste mura, questo Palazzo. Ma non ha potuto. So che ha tentato disperatamente di resistere alla ghigliottina ma il boia non ha avuto pietà, per lei.»
«Il boia non può sottrarsi alla sua natura. Non ha esitato a decapitare Maria Antonietta, come avrebbe potuto farlo con Madame Du Barry?»
La domanda non trovò risposta alcuna. Aleggiò nell’aria, per alcuni secondi, dissolvendosi un istante dopo. In effetti, non necessitava per nulla di una risposta.
Élisabeth guardò il sole tramontare, per l’ennesima volta, con il cuore pesante e la consapevolezza di quanto fugace fosse la felicità: aveva potuto assaporarla, lievemente, agognarla per troppo a lungo e implorarla di far ritorno. Ciò non era successo.
Perché il mondo era cambiato e la serenità che lo aveva caratterizzato era sfumata via, in pochi minuti.
Élisabeth poté chiaramente osservare i contorni del proprio mondo sfilacciarsi, disgregarsi e cadere come fosse un calice di cristallo, troppo fragile perché resista all’attrito col suolo.
Si sentì persa e sola.
Tacque, sentendo accanto a sé la presenza rassicurante di quel vecchio amico, scrutando la nascita di una nuova epoca, che prendeva vita da radici impregnate di sangue.
Nessuno avrebbe mai dimenticato.

 
  Il pendolo batté la mezzanotte e un quarto. [6]
 



 
Credits:

[1]: Il Palazzo delle Acque, o anche Castello di Louveciennes, fu ristrutturato nel 1769 per volere di Luigi XV , che lo offrì alla sua nuova favorita, Madame du Barry che chiamò Ange-Jacques Gabriel, primo architetto del re, per far ingrandire e decorare il fabbricato.

[2]:Mozart. Cioè. Per una pianista come la sottoscritta, benché io non abbia le qualità per essere definita tale, anche solo citare Mozart è un piacere. Quindi, sì: Mozart!

[3]:La Sala di Marte è una delle numerose Sale presenti a Versailles, in cui solevano tenersi balli in maschera e feste a tema, dal 1678 fino alla fine del regno di Luigi XIV.

[4]:Il fortepiano è il successore del clavicembalo ed predecessore del nostro pianoforte. 

[5]:Non anche lei.” Non ho mai parlato chiaramente della nobiltà francese in maniera ampia ed esaustiva, in questa storia. Perciò con questa frase ho tentato di rendere giustizia a tutti gli altri e al Re, il quale morì il 21 gennaio 1793 in Piazza della Rivoluzione, l'attuale Place de la Concorde. Il giorno della decapitazione, dopo essere stato tenuto prigioniero nella Torre del Tempio, venne portato alla ghigliottina in carrozza, vestito di bianco con in mano il libro dei Salmi. La condanna fu eseguita dal boia Charles Henri Sanson. Morì come cittadino Luigi Capeto e le sue ultime parole furono:

« Signori, sono innocente di tutto ciò di cui vengo incolpato. Auguro che il mio sangue possa consolidare la felicità dei francesi. »

[6]:La mattina del 16 ottobre Maria Antonietta, alla quale era stato vietato di vestirsi di nero, indossò un abito bianco: nessuno ricordava che un tempo il bianco era il colore del lutto per le regine di Francia.Successivamente Henri Sanson, il boia, dopo averle tagliato i capelli fino alla nuca, le legò le mani dietro la schiena. L'ex-regina fu portata fuori dalla prigione e fatta salire sulla carretta dei condannati a morte. Seduta impettita, le mani legate dietro la schiena, i capelli tagliati rozzamente e uno sguardo immobile e iniettato di sangue: così Jacques-Louis David, a quei tempi giacobino e in seguito pittore di corte di Napoleone, ritrasse la regina in uno schizzo.
Arrivata in Place de la Revolution salì rapidamente i gradini del patibolo; involontariamente pestò un piede del boia, al quale disse: «Pardon, Monsieur. Non l'ho fatto apposta». Alle 12.15 la lama cadeva sul suo collo. Il boia prese la testa sanguinante e la mostrò al popolo parigino che gridò «Viva la Repubblica!».
Questi sono i fatti storici, inerenti all’ultimo risveglio da viva di Maria Antonietta (che aveva passato la notte precedente in compagnia del Conte di Fersen, amante della Regina).
Nella mia storia, ho voluto riprendere l’ora (ovvero le 12:15) della morte della Delfina, benché io abbia dovuto adattarlo al fuso orario notturno in cui si svolge il dialogo tra Madame Vigée e Fersen.
 
  
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