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Autore: Reading4    13/07/2013    1 recensioni
Brevemente presentata la vita di Johnny, non una vita emozionante o ricca di colpi di scena, ma comunque una vita degna di essere raccontata.
"Vorrei solo raccontarvi la mia breve vita.
Non è stata una vita emozionante e ricca di colpi di scena, ma credo che ogni vita debba essere raccontata. Altrimenti l’esistenza umana non avrebbe alcun senso."
Genere: Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi.  Non vi spaventate, non è il solito nostalgico discorso di un povero vecchio a cui luccicano gli occhi al solo pensiero dei “bei vecchi tempi”
 
Vorrei solo raccontarvi la mia breve vita.
Non è stata una vita emozionante e ricca di colpi di scena, ma credo che ogni vita debba essere raccontata. Altrimenti l’esistenza umana non avrebbe alcun senso.
 
 
Sabato, 16 Agosto 1969.  
Bethel, New York.
Forse voi lo conoscete in quanto ha ospitato il grande Festival di Woodstock.
Li conobbi mia moglie, e la mia vita cambiò.
 
Ero un ragazzo giovane, prestante, amante della vita e fiducioso nella bontà umana. Spensierato. Felice.
Com’era di moda al tempo, portavo i capelli lunghi fino alle spalle e vestivo di colori psicadelici. E mi drogavo. Dettagli.
 
Il pomeriggio era appena iniziato, il sole picchiava sulle nostre teste, il puzzo di sudore e di fumo dolciastro intasava le narici e riempiva i nostri polmoni stanchi e la musica ci ronzava nelle orecchie, penetrando a fondo fino ad arrivare al cervello. Ma a noi non importava, ci eravamo riuniti per una causa che ci mordeva il cuore, ci teneva mente e anima legati a formare una lunga catena di idealisti: la pace. Tutto era magnifico: la perfezione si poteva leggere nei nostri occhi.
 
Eravamo seduti in un cerchio distratto, fumando a turno una canna ormai consunta. Santana aveva appena iniziato a cantare You Just Don’t Care quando delle dita con le unghie laccate di rosso mi passarono quello che ormai era solo un filtro.
Mi girai e la vidi.
Molly. L’amore della mia vita.
Ci sorridemmo, gli occhi arrossati, la vista appannata, la gola secca.
Iniziammo a parlare,  di pace, di filosofia,di uguaglianza, di diritti. Di noi stessi. Avevo più cose in comune con lei con qualsiasi altra persona avessi mai conosciuto.
Santana finì di cantare e scese dal palco. Venne il turno dei 
Canned Heat e poi dei Mountain.
Quante ore erano passate? Forse era la droga che parlava ma nella mia mente erano trascorsi pochi secondi.
Ricordo ogni singola parola, ogni singola mossa. I suoi lunghi capelli aggrovigliati, i suoi occhi che mi sembravano  -ancora la droga?- brillassero di luce propria, le mani morbide, le labbra sottili.
 
Chiacchierammo e ridemmo e discutemmo e quando venne la chimica mangiammo e pian piano ci innamorammo.
 
Poi salì sul palco lei.
Mentre la mia leggenda, la mia eroina, il mio sogno –Janis Joplin- cantava To love somebody, io stavo baciando la donna che avrebbe regnato nel mio cuore fino al 1974.
Ma questo ve lo racconterò dopo.

Io sono un uomo, non vedi ciò che sono?
Vivo e respiro per te
¹
 
Tutto questo avvenne in un’ora non ben precisata della notte del 16 agosto 1969.
E il 16 agosto 1970, esattamente un anno dopo -ora più ora meno-, insieme uscimmo da una piccola chiesetta a Maynardille, nel Tennessee. Il sole che ci faceva socchiudere gli occhi, il rumore di campane sparato nelle orecchie, i chicchi di riso che a momenti ci facevano cadere.
Eravamo sposati.
 
 
Sabato, 3 Ottobre 1970.
In quel tardo pomeriggio ricevetti la notizia più bella della mia vita.
 
Come tutti i pomeriggi tornavo stanco dal lavoro. Puzzavo, ero sudato, ero sporco, ero stanco.
Tutto ciò che desideravo era una doccia. Una semplice doccia, non è tanto, no?
Mi distesi sul divano logoro, le molle che premevano sulla mia schiena, il forte desiderio di abbracciare mia moglie. Era la quarta volta che cambiavamo città e la vedevo triste, stanca, lontana.
Volevo solo abbracciarla e ripeterle che l’amavo.
 
Che sdolcinato, eh?
 
La porta si aprì e si richiuse, i tacchi sbattevano sul pavimento tirato a lucido.
Quando mi apparve davanti notai che era diversa, il sorriso le illuminava il viso, il vestito le fasciava il corpo rendendola la donna più sensuale e magnifica del mondo. Ok la smetto.
 
Johnny -mi disse- ho una notizia meravigliosa!
Dimmi cara.
Sono incinta!
 
Avete presente questi stupidi cartoni animati, dove il personaggio è così sorpreso che la mandibola cade fino a toccare il pavimento?
Non dovevo aver assunto un’espressione diversa, perché lei subito si mise a ridacchiare.
L’abbracciai come non avevo mai abbracciato nessuno e la baciai e le ripetei che l’amavo e rimanemmo così, stretti in una morsa d’acciaio, dondolando.
 
Il giorno dopo l’amara notizia: la donna che aveva cantato mentre il nostro amore sbocciava come una rosa al mattino, se n’era andata. Fu trovata morta nella stanza di un motel di Hollywood. Overdose.
 

In suo onore decidemmo che, se fosse stata femmina, l’avremmo chiamata Janis. Altrimenti optammo per Dylan. Bei nomi vero?
 

Mercoledì,  23 Dicembre 1970.
Arrivò una lettera a casa. Cinque giorni dopo partii per il campo di addestramento. Un anno dopo ero di partenza per il Vietnam.
Non vidi la mia prole nascere. Non seppi se era maschio o femmina.
 
 
E così iniziò il io anno di permanenza nel dolce, accogliente, caldo Vietnam.
Le lettere non arrivarono al nostro plotone.
Ogni giorno mi svegliavo e ogni notte mi addormentavo con la paura di non scoprire mai il sesso della mia progenie.
 
Ogni giorno, non passava secondo che io non pensassi a casa, ai miei amati Stati Uniti.
Quando sparavo le luminose immagini di quel giorno di pace mi rimbalzavano davanti agli occhi, le parole “Give peace a chance” mi riempivano le orecchie, arrivavano alla mente ormai consumata, rimbalzavano per le pareti del cranio.
Ogni sparo era un proiettile che mi arrivava dritto al cuore, mi sentivo di andare contro natura, di violare la legge dell’universo, di essere un mostro che uccide i suoi simili.
E tutte quelle parole di uguaglianza, tutti quei discorsi, mi tormentavano la notte.
 
Quando vedevo un uomo morto, quando assistevo allo spegnersi di un compagno, quando conoscevo un Charlie, insomma, quando l’orrore si presentava ai miei occhi, tentando di infiltrarsi nel mio cervello, di prosciugarmi il sangue, di portarmi via le ultime tracce di sanità mentale, pensavo a lei, a Molly.
Era il mio angolo di pace.
 
Quando vedevo l’ultima scintilla di vita spegnersi negli occhi di qualche mio amico, mi rifugiavo nel mio angolo felice, con Molly che mi passava lo spinello sorridendo,  con Molly che mi diceva  -Ti amo e non ti lascerò mai-, o con Molly che mi diceva di essere incinta.
Credo che quella donna mi abbia salvato la vita.
 
Il mio anno obbligatorio finì, esattamente giovedì 23 Dicembre 1971, poco prima che le truppe americane si ritirassero dal suolo orientale.
 
I successivi sette mesi li passai in una clinica.
Sì, me ne vergogno.
Sì, mia moglie non aveva idea di che fine avevo fatto e, probabilmente,  soffriva come un cane.
Sì, non avevo ancora scoperto il sesso della mia prole.
Non giudicatemi. Quello che ho visto e che ho fatto servirà a tormentarmi per il resto della mia inutile vita.
 
La clinica comprendeva tutto: dai feriti fisicamente ai feriti mentalmente. Quelli che non avevano retto insomma.
Io ero uno di quelli.
Gl’incubi mi tormentavano la notte. Mi svegliavo urlando, sudato, graffiandomi il petto, a volte strappandomi i capelli.
In guerra li avevo tagliati, ma stavano pian piano ricrescendo. Come una volta.
 
Di giorno vedevo dei soldati senza una gamba o tutte e due o senza braccia. E se solo sentivo il ronzio di una zanzara impazzivo, la mente tornava a quella foresta, a quell’umidità, a quel terrore fatto persona.
 
Non so esattamente che cosa mi salvò dall’andarmene del tutto.
Un giorno iniziai ad immaginare come poteva essere la mia piccola creatura, a chi poteva assomigliare e poco a poco gl’incubi sparirono, le paure si volatilizzarono.
Ero pronto per tornare.
 
 
Giovedì, 27 Giugno 1974.
Tremavo. Camminavo avanti e indietro in un parchetto poco lontano da casa mia. Da quel punto potevo vederla, ma non potevo essere visto. Camminavo e camminavo e camminavo e camminavo e le ore passarono.
Poi mi decisi.
Bussai alla porta. Pochi secondi dopo la porta si aprì.
Mia moglie. Rimase immobile per non so quanto tempo. Poi mi abbracciò.
Chiusi gli occhi e rimanemmo li per delle ore. Mi sussurrava nell’orecchio -Ti amo- e gli ultimi residui di pazzia se ne andarono per sempre.
Poi mollammo la presa e ci demmo un lungo bacio. Che durò degli anni. Il mondo poteva ardere delle fiamme dell’inferno ma noi non ci saremmo mossi.
Poi ci staccammo. La fissai negli occhi.
Mi sorrise. E, ragazzi, vi assicuro: quello era il più bel sorriso che avessi mai visto.
Poi lei si scansò un attimo, guardando il corridoio.
Seguii il suo sguardo.
 
Il mio cuore iniziò a bruciare, la mia mente era in tilt, la mia gola secca e il mio stomaco vuoto.
Potete immaginarlo?
Per la seconda volta in vita mia, mi innamorai.
 
Io sono un uomo, non vedi ciò che sono?
Vivo e respiro per te
¹
 
La piccola Janis si era impossessata del mio cuore.
 
 
FINE





¹ To love somebody, Janis Joplin

  
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