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Autore: y3llowsoul    13/07/2013    2 recensioni
Le quattro mura grigie, il vuoto della stanza, l'umidità, il freddo – tutto gli faceva, in modo inquietante, pensare a un carcere. Il fatto che non sapesse che cosa intendevano di fare di lui non migliorava il suo stato e non sapeva neanche che cosa dovesse pensare del fatto che per quanto sembrasse non lo sapevano neanche loro. Sembrava che l'avessero semplicemente spostato lì finché il problema non si fosse risolto da solo. Per esempio tramite Charlie se si fosse deciso a lavorare di nuovo per loro. Oppure se avessero concluso i loro affari. Oppure se Charlie si fosse suicidato.
Charlie collabora a una missione segreta. Don cerca di venire a sapere qualcosa della faccenda, ma quando finalmente ci riesce, non è una ragione per rallegrarsene, e per la famiglia Eppes cominciano periodi brutti.
Genere: Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Eppes, Don Eppes, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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31. Senza speranza


And I see no bravery,
No bravery in your eyes anymore,
Only sadness.
(James Blunt, No Bravery)
 

«Don, che ci fai qui?».

Alan era confuso, quasi sconvolto. Suo figlio maggiore era appena ritornato a casa e, dopo un breve "Ehi, Papà", era scomparso in camera sua. Non aveva detto nient’altro. Nessuna spiegazione, nessuna informazione. Per Alan quell’incertezza era peggiore di qualsiasi altra cosa.

«Che sta succedendo, Donnie? Avete trovato qualcosa? Sapete qualcosa?»

«No» la risposta arrivò brusca mentre Don andava freneticamente avanti e indietro per casa, evidentemente radunando un guazzabuglio di oggetti. «Non abbiamo trovato niente, proprio niente» aggiunse nello stesso tono che mostrava la sua amarezza fin troppo bene.

Tutto questo non dava ad Alan più informazioni, lo rendeva solo un po' più disperato. E allo stesso tempo poco rilassato. «Quindi che cosa ci fai qui?».

La voce di Don veniva dal bagno. «Sto facendo le valigie. Andrò in quella clinica, in Nebraska».

«In Nebraska?! Quando?».

Questa volta la voce venne dalla sua stanza. «Fra mezz'ora».

Okay, questo Alan non se l’aspettava. E il suo istinto paterno gli diceva che con simili eventi imprevisti bisognava usare il doppio della prudenza. Eppure recuperò un po' di speranza.

«Credete che Charlie sia lì?».

La risposta non venne subito. Dopo qualche istante, invece della risposta comparve Don nel soggiorno, con una sacca di ginnastica in spalla. Quando entrò, però, mise la sacca sul pavimento, come se fosse già così carico da essere stanco. Alan ce la faceva appena a sopportare la tensione. «Non lo so», rispose Don finalmente, ma stranamente Alan questa volta non sentì la sua speranza diminuire. Forse perché era certo di cosa suo figlio avrebbe aggiunto: «Ma lo spero».

Alan deglutì; non era ancora sicuro se poteva sentirsi sollevato o meno. Non sapeva come continuare a fare domande e così fu felice che suo figlio, per una volta, non si fece cavare le parole dalla bocca, ma rivelò le informazioni che voleva sapere da sé. «Supponiamo che Charlie sia stato sorvegliato in questa clinica in Nebraska. Abbiamo mandato lì una squadra del RIS locale, ma loro non hanno trovato niente. E adesso vogliamo controllarlo noi stessi».

Alan si sentì confuso. «Credi davvero che troverete qualcosa?»

La risposta di Don venne con una nota dolorosa: «E' la migliore pista che abbiamo».

 

- - -

 

Amita e Larry ce l'avevano fatta a compilare un identikit provvisorio, ma, come si aspettavano, a causa del risultato molto vago, la comparazione dei punti facciali con le banche-dati non era servito a niente. Certo, intendevano ottimizzare l'immagine e sperare che poi sarebbe servito a qualcosa nelle indagini, ma avrebbero potuto metterci del tempo e Don non aveva intenzione di aspettare senza far nulla.

Sapeva che la sua squadra non era completamente d'accordo con la sua decisione. Eppure non potevano negare che attualmente non avevano altra pista che quella clinica. E inoltre era il loro capo. Dovevano accettare alla sua decisione, che fossero d’accordo o meno.

Sapeva che c’era la possibilità che seguendo quella pista non avrebbe fatto altro che perdere tempo, tempo di cui Charlie probabilmente aveva un bisogno disperato. Ma si proibì di pensarci. Non voleva perdere la speranza, la speranza che avrebbero finalmente fatto un passo avanti, che si sarebbero avvicinati a Charlie almeno un po'... In ogni caso avrebbero avuto più possibilità di raccogliere i dati necessari nella clinica senza seguire la lunghissima procedura burocratica della direzione. E forse in quei documenti avrebbero trovato indicazioni che Charlie era stato davvero sorvegliato anche lì. E forse così avrebbero trovato qualche nome e le persone che l'avevano sequestrato...

Il cuore di Don batteva violentemente mentre manteneva la sua speranza con forza.

 

- - -

 

Charlie trasalì quando fu svegliato da un forte rumore alla porta della sua cella. Socchiuse gli occhi. Era già di nuovo tempo per l’interrogatorio? Poteva quasi immaginarlo. Si sentiva come se si fosse appena appisolato e la stanchezza ne era un chiaro sintomo. Però forse aveva già perso completamente il senso di tempo?

«Su, si alzi! Si volti, le mani dietro la schiena!»

Charlie riuscì appena a mettersi in piedi, per quanto era esausto. Ma la voce aspra dell'uomo alla porta era abbastanza intimidatoria perché si desse velocemente una mossa ed eseguisse i suoi ordini.

«Venga!».

Charlie incespicò quando lo tirarono con loro. Era talmente stanco... Aveva creduto che l’avrebbero lasciato un po' in pace, si era preparato ad alcune ore di relativo riposo.

Di nuovo veniva condotto in una sala d’interrogatorio, di nuovo c'era Rosenthal di fronte a lui, di nuovo pronto a valutarlo, di nuovo con quel sorriso freddo. Questa volta però Charlie pensò di poter scorgere una nuova sfumatura nelle sue fattezze, un nuovo attributo di malignità.

Lo fanno apposta!, gli passò per la testa, e ad un tratto era sveglio, allarmato. Non l'aveva immaginato: questa volta era passato molto meno tempo fra gli interrogatori. Era davvero così: i terroristi avevano cambiato ritmo.

Ma perché? Charlie aveva un sospetto distinto: dovevano sapere che un tale sbalzo nella routine spossava il loro prigioniero, lo confondeva, lo faceva sentire incerto, gli faceva perdere l'equilibrio. Dovevano sperare che in questo modo avrebbero potuto fargli cambiare idea.

Ma si sbagliano, pensò Charlie con caparbietà e allo stesso tempo tentò di reprimere la sensazione di aver pensato a qualcosa di troppo grande. Come poteva sapere che avrebbe potuto far resistenza ai loro giochi mentali? Come poteva sapere che cosa gli avrebbero fatto, come questa tortura l'avrebbe cambiato? Soprattutto perché l’avevano spezzato già una volta...

Charlie prese a correre. Era un reazione di panico, completamente irrazionale. Ma non aveva più potuto sopportarlo, per nemmeno un attimo. Semplicemente non ce l'aveva fatta.

L'immagine di suo fratello morto era sempre davanti a lui e faceva riempire i suoi occhi di lacrime che offuscavano pericolosamente la vista. Ma doveva andar via, doveva fuggire, via dalla sua prigione, via dai suoi persecutori, via dall'immagine...

Sentiva i passi dei suoi avversari dietro di sé. Sapeva che sarebbe stato vano, sapeva che non poteva fuggire da lì, eppure aveva dovuto provarci.

'Dai, corri. Non darti per vinto.'

La nausea aumentò a una misura appena sopportabile quando si chiese se le parole erano venute da sé stesso o dal suo fratellone. Don... Perché, perché era morto? Perché...

Charlie cadde sulle ginocchia. Non ce la faceva più. Semplicemente non poteva. Non aveva più forza. Aveva tentato di dirsi che Don avrebbe voluto che avesse fatto di tutto per liberarsi, che non si fosse dato per vinto. Ma Don non c'era più. E il tentativo di Charlie non aveva mai avuto altra possibilità che fallire. Dunque dov'era il senso?

I suoi persecutori quasi inciamparono su di lui. Non resistette. Poteva solo pensare a Don, a come l'avevano ucciso, che l'avevano...

Charlie piangeva, ma se ne accorgeva appena. Voleva semplicemente che tutto finisse, che tutto terminasse, che lo lasciassero in pace...

Le loro parole raggiungevano solo il suo subconscio. «Ti piacerebbe, eh? Ma non puoi fuggire, mio caro. E anche se riuscissi a scappare da questo posto, non potresti comunque fuggire da noi. Non ricordi la nostra piccola misura precauzionale?»

Con una presa ferma afferrò il polso sinistro di Charlie e lo tenne davanti agli occhi irrorati di lacrime del suo prigioniero. Charlie poteva distinguere una ferita quasi guarita, un taglio sulla pelle, eseguito con precisione chirurgica. Sì, gli avevano inciso il polso contro la sua volontà. L'avevano anestetizzato, ma quando si era svegliato, con le mani legate ai braccioli di una scomoda sedia, aveva potuto capire che cos'era successo, soprattutto perché l'avevano minacciato: un microchip. Gli avevano impiantato un microchip. Ed anche se ce l’avesse fatta a fuggire, avrebbero ancora potuto localizzarlo.

Gli avevano tolto tutto. L'avevano privato della sua libertà, la sua dignità, di suo fratello e infine della sua speranza. Gli avevano tolto tutto ciò a cui si era aggrappato e l'avevano lasciato a se stesso. E lui non aveva più di forza. Sì, i loro giochi mentali l'avevano spinto alla disperazione cosicché aveva sferrato quest'ultimo tentativo di fuggire, ma non aveva avuto speranza di riuscirci. Ce l'avevano fatta a demoralizzarlo completamente. E sebbene ci avesse pensato tanto – non riusciva a trovare nemmeno una ragione per mantenersi in vita.

Charlie aveva freddo. La sensazione veniva dal suo interno e per un attimo ebbe la sensazione assurda che il microchip nel suo polso fosse l'origine di quel freddo. E forse lo era. Ricordava: durante la sua prigionia in autunno gli avevano impiantato il microchip, cosa che in fondo era stata superflua perché nel periodo seguente l'avevano tenuto sotto un controllo talmente rigoroso che non aveva nemmeno potuto cercare di rimuovere il meccanismo di localizzazione. E infine non gli era più interessato, per niente. Nulla più gli importava. Don non c'era più e non vedeva alcuna possibilità di fuggire dai suoi rapitori. E collaborare non era neanche un'opzione. Così, la sua volontà di vivere, che comunque era stata quasi pari a zero, si era minimizzata sempre di più finché non era più rimasto niente. Aveva smesso di mangiare, di bere, e di vivere. Vegetava. E questo doveva esser stato il suo ticket per la libertà.

Erano diventati nervosi. Il loro prigioniero, che una volta aveva elaborato delle risorse promettenti, era andato vicino alla morte; avevano dovuto agire in fretta. Si erano liberati di lui, ma a giudicare dalle apparenze, avevano continuato a tenerlo d'occhio. Alle loro risorse. Al loro punto debole.

Adesso, avevano agirato il pericolo all’origine: lui. L'avevano catturato di nuovo. E Charlie ne era stufo. Era stufo di lottare, degli interrogatori, di essere da solo. Voleva che tutto avesse fine. Era talmente stanco...

«Chi sono i suoi complici?»

«Non ho dei complici» mormorò Charlie, ancora pensando più al suo ricordo che al presente ugualmente sgradevole.

«Dunque ha commesso gli attentati da solo?»

«Sì... No, non ho...» Charlie era confuso. Non riusciva più a concentrarsi. Aveva mal di testa. Voleva dormire, era talmente stanco... «Non ho commesso gli attentati. Sono innocente».

Quando avrebbero finito? Quando l'avrebbero finalmente lasciato in pace?

Charlie si sentì male quando si accorse che sapeva la risposta: mai.

 

- - -

 

Don aveva un peso sul petto e la sua bocca non era più di una linea sottile quando si alzò dal letto. Il RIS che era stato lì prima aveva ragione: non c'era più niente, nessuna microspia, nessuna telecamera nascosta, niente. Nemmeno un'indicazione che Charlie era mai stato lì. Avevano pulito la camera a fondo, anche se non era stata più usata dalla dimissione di Charlie.

Nel frattempo avevano perquisito la sua camera due volte (se contava anche il RIS esterno, tre) e il fatto che semplicemente non c'era niente da trovare non sarebbe cambiato. Prima del loro secondo tentativo, avevano anche lanciato uno sguardo al soggiorno, sulla terrazza e in altre stanze comuni della clinica. Niente.

«Voglio parlare con gli addetti alle pulizie» disse Don, ma la sua voce così abituata ad ordinare tremò. Cosa avrebbe fatto se anche quello fosse risultato un vicolo cieco? Se stavano solo perdendo tempo?

«Per questo devo guardare negli atti» rispose il capo della clinica. Era una cinquantenne risoluta, energica, ma non scortese. Aveva acconsentito a collaborare con le agenzie controllando il caso del suo ex-paziente scomparso benché non potesse immaginare che cosa mai l'FBI avrebbe potuto trovare.

La donna delle pulizie in questione era nella clinica, ma alle domande della squadra se si fosse accorta di qualcosa pulendo la camera di Charlie, poté solo rispondere con un "no". Un altro vicolo cieco.

Don però non era intenzionato a rinunciare. In un modo o un altro, i sequestratori di Charlie dovevano aver saputo che aveva lasciato la clinica ed era tornato a casa – almeno se, come credevano, il rapimento di Charlie aveva a che fare con il suo incarico in autunno. E in questo non dovevano sbagliarsi, semplicemente non dovevano...

«Abbiamo bisogno delle cartelle personali di tutti i suoi collaboratori, Signora Heydrich».

E con questa richiesta era giunto il momento in cui il capo della clinica non era più pronta a collaborare. «Con quale giustificazione?» chiese prontamente.

«Abbiamo il forte sospetto che la vittima di rapimento sia stata sorvegliata qui e se non è successo con mezzi tecnici, forse allora si sono serviti di uno dei suoi collaboratori».

«Lo credete voi».

«Per favore, Signora Heydrich» intervenne Megan. Sapeva che con i pochi indizi che avevano avrebbero fatto fatica ad ottenere un mandato di perquisizione, ma sapeva altrettanto bene che Don non si avrebbe dato per vinto. E benché fosse difficile ammetterlo, non avevano abbastanza tracce per continuare. «Tratteremo i documenti con discrezione. Se i suoi collaboratori non risulteranno implicati, non avranno nulla da temere».

La Signora Heydrich non sembrava ancora convinta. «Questo lo dite ora» obiettò. «E la settimana prossima tutti i fascicoli saranno accessibili ad ogni agenzia senza problemi». Esitò e poi sembrò prendere una decisione. «Datemi un ordine giudiziario e io vi darò tutto».

«Il problema, Signora Heydrich, è questo» prese parola Colby, «per quando lo otterremo potrebbe essere troppo tardi. Al momento, Charles Eppes è considerato scomparso da cinque giorni. Ogni minuto potrebbe salvargli la vita».

Si poteva vedere che la Signora Heydrich stava lottando con se stessa. Come capo, non aveva molto contatto con i pazienti, ma quelli che risiedevano lì, li conosceva almeno di nome. E anche se non c'erano casi di routine, il caso di Michael era stato particolarmente fuori dagli schemi. Prima le circostanze misteriose circa il modo in cui era arrivato da loro, poi le circostanze altrettanto misteriose su come li aveva lasciati... E adesso, era scomparso di nuovo. Era difficile da comprendere. E lei, come capo della clinica di cui era stato paziente poco prima di scomparire, non aveva una certa responsabilità? Soprattutto perché era possibile che uno dei suoi collaboratori sapesse qualcosa. Lei era ben lungi dal mettere la mano sul fuoco per ogni di loro; semplicemente aveva poco conoscenza del personale. E tra di loro c'erano anche quelli che lavoravano solo occasionalmente lì, aiutanti – come poteva essere certa che non avessero qualcosa a che fare con la scomparsa del giovane uomo?

Deglutì. «Va bene. Ma tratterete gli atti con discrezione!»

«Ovviamente».

 

- - -

 

Charlie si sentiva avvilito. Voleva solo dormire, preferibilmente nel suo letto, ma si sarebbe accontentato anche del materasso sottile nella sua cella. Gli bastava poter fuggire nel sonno e nella solitudine. Perché i suoi incubi in quel momento gli sembravano migliori di quella situazione. Almeno poteva svegliarsi dagli incubi.

Lì, invece, non poteva nemmeno addormentarsi. Non sapeva per quanto tempo lo stavano già tenendo sveglio, ma non potevano essere più di tre o quattro giorni, anche se gli sembrava un'eternità. Gli interrogatori cambiavano, ma gli interrogativi rimanevano sempre gli stessi, ancora e ancora... “Confessa che è un terrorista?”, “Quanti attentati ha già commesso?”, “Chi sono i suoi complici?”, “Ci dia i loro nomi!”, “Come si chiamano i suoi...”.

Charlie si era appena appisolato quando un colpo lo fece sussultare. Levò la testa per alcuni centimetri e sotto le palpebre gravi distinse vagamente una mano piatta sul tavolo, ma non poteva nemmeno vedere a quale terrorista della CIA toccava di interrogarlo in quel momento.

«Come si chiamano i suoi complici? Risponda!».

«Non lo so» mormorò Charlie, debole. Era stanco, incredibilmente stanco...

«Non menta!»

Charlie trasalì, ma le sue palpebre rimasero ferme, tranne che per una fessura piccolissima. Erano talmente pesanti e lui era semplicemente così stanco...

«Ci da i loro nomi!»

«Non so niente...»

Contro la sua volontà, gli salirono le lacrime: premevano sui suoi occhi e al di fuori, per scivolare lungo le sue guance. Non voleva piangere, davvero non voleva, ma era talmente stanco...

«I nomi!»

Le lacrime scesero più veloci. Perché avrebbe dovuto impedirlo? Non ce l'avrebbe fatta comunque. Era talmente stanco...

«Dobbiamo farle del male, professore? Lo vuole? Dobbiamo farle male?»

«Non so niente...»

Potevano colpirlo. Potevano fare di lui qualunque cosa volevano. Lui voleva solo dormire, dormire, voleva calma...

«Possiamo devastarla se non ci aiuterà!»

Potevano, potevano fare qualunque cosa volevano. Non era importante. Niente non era più importante. A Charlie sembrava tutto uguale.

Come da lontano, sentì la sua testa abbassarsi sul petto. Nello stesso momento sentì la paura di venir spaventato da un rumore forte o di venir trascinato in piedi o di venir sgridato con delle grida. Ma non successe niente e diventò un po' più calmo. Era stanco, talmente stanco...

Praticamente nel suo subconscio, sentì un click piano, ma non ci badò. E poi una voce, una voce che, in confronto alle altre, era talmente dolce che Charlie era quasi sicuro che fosse già scivolato nel regno dei sogni.

«Ecco, professore. Sembra esser stanco, molto stanco. E noi abbiamo ben voglia di lasciarla dormire. Ma anche noi vogliamo dormire in pace. E potremo farlo solo quando lei ci avrà assicurato il suo aiuto».

Charlie aveva appena ascoltato. Non gli importava comunque.

«Voglio che adesso lei risponda alla mia domanda obbligatoria: farà i calcoli che le sottoporremo? Dica "sì" se acconsente».

Charlie non sapeva molto bene che cosa stava facendo, non sapeva di che cosa si trattava, voleva semplicemente dormire, tentare di dare un colpo al cerchio e uno alla botte perché lo lasciassero semplicemente in pace.

«Sì».

  
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