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Autore: ToraRyuBox    13/07/2013    0 recensioni
cosa passa per la mente di un insonne? cosa si può provare essendo privi di tranquillità anche nell'unico luogo in cui si può pensare solo a se stessi?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 11 Luglio 2013 04:27
Sono qui, nel mio letto. La finestra aperta lascia che i rumori del vicinato entrino e mi distolgano dal turbinio di pensieri che da più di tre ore non mi permette di addormentarmi.
Amo il rumore. Dai clacson delle auto che sfrecciano sulla strada principale del mio piccolo paese, alla musica, che ininterrottamente accompagna le mie giornate; dalla televisione, che, prima di mettermi a letto, mi tiene quel poco di compagnia che sentire qualche sconosciuto parlare di argomenti poco interessanti può fornire, alla voce dei passanti, che dalla mia stanza posso sentire parlare spensierate. Ritengo di essere assuefatto dal rumore. Come un drogato cerca costantemente di ottenere una dose per poter placare la sua astinenza ed avere una parvenza di soddisfazione, e come un fumatore accende la sua sigaretta per potersi rilassare, godendo della sua dipendenza, io vivo in fuga dal silenzio.
Ciò che mi fa paura non è il silenzio in sé o la mancanza di compagnia.
Ciò che temo più di tutto è me stesso. I miei pensieri. Il mio più grande difetto è sempre stato essere troppo riflessivo; pormi troppe domande e non abbandonare mai i miei problemi, stando continuamente a rifletterci su.
Sono mesi che ho problemi a dormire. Notti in bianco ne passo una o due alla settimana, ma ciò che mi distrugge non è la mancanza di sonno, dato che stranamente non la sento anche dormendo un’ora a notte, è il dover fingere di non avere problemi; fingere di non essere preoccupato e di essere felice. Ho sempre avuto una personalità che cerca di non farmi pesare sugli altri e, per quanto possibile, di non creare problemi; tuttavia questo ha delle conseguenze. La maschera che indosso ogni giorno di fronte alle persone a me più care prima o poi devo toglierla e il vaso di Pandora che contiene le mie emozioni e i miei problemi devo aprirlo. Odio farlo e il rumore mi permette di distrarmi, non pensando a ciò che mi opprime, ma di notte tutto cambia.
La finestra della mia stanza ora è aperta. La luce del lampione dall’altro lato della strada, grazie alle tende mosse dal vento e alle inferiate, crea sul muro di fronte a me un gioco di ombre che mi intrattiene per qualche minuto.
Silenzio.
Appena mi accorgo della mancanza di rumori i miei pensieri vagano. Penso a ciò che per tutta la giornata è rimasto rinchiuso, segregato nella parte più remota della mia memoria, ma in attesa di essere liberato. Le mie emozioni variano velocemente. Passo dalla rabbia alla tristezza; l’insoddisfazione per ciò che sono e ciò che ho nella mai vita genera reazioni contrastanti. Prendo il cuscino e, come a volermi liberare di ciò che mi tortura, lo lancio contro la parete per vederlo cadere a terra in un tonfo lieve. Mi succede ogni notte. Ogni notte ho un momento in cui il mio unico desiderio è quello di sfogare la mai rabbia, liberarmi dei sentimenti, esprimere ciò che sono e ciò che sento. Mi siedo, appoggiandomi allo schienale del divano-letto.
Odio la notte. Il silenzio e la buia solitudine della mai stanza mi obbligano a riflettere. Mi accorgo della mia impotenza, di come sia inutile ogni sforzo che faccio di sembrare forte di fronte a colei a cui darei tutto senza pretendere di ricevere nulla.
Questa notte è diversa. L’ho capito. È una di quelle notti in cui non riuscirò ad avere neanche la solita ora di sonno. Lascio che la mia testa vada all’indietro toccando il freddo muro retrostante lo schienale. Il mio respiro, regolare, profondo, gradualmente cambia. Diventa prima un sospiro e poi un singhiozzo. Appoggio la testa sulle ginocchia, strette tra i miei avambracci, e sento le lacrime scendere dai miei occhi per percorrere qualche centimetro del mio viso e cadere sulle mie gambe. Rimango in questa posizione per qualche minuto, finché non sento il mio respiro tornare al suo normale ritmo.
Piangere non mi è mai dispiaciuto. Ho sempre trovato che fosse il mio unico vero modo per sfogarmi. Non danneggio nessuno e riesco comunque a dimostrare a me stesso che sono ancora io, che quella maschera che porto non è la mia vera faccia, che in fondo posso ancora esprimermi nell’intimità della mai stanza.
Mi alzo. L’orologio del soggiorno segna le cinque. Con passo lento percorro le piastrelle, fredde sotto la pianta dei miei piedi nudi, e mi dirigo in bagno. Accendo la luce e mi guardo allo specchio. Posso vedere i miei occhi, arrossati, e il verde delle mie iridi insolitamente brillante; le mie guance rigate dalle lacrime appena versate; le mie labbra, leggermente tremanti ma serrate in un’espressione decisa. Rimango per un tempo insolitamente lungo a fissare quella persona. Non la vedo spesso. I minuti scorrono, ma i nostri occhi restano immobili, fissi gli uni negli altri, in un silenzioso ma esaustivo confronto, come fratelli che si ritrovano dopo un lungo tempo. Ad un tratto decido di abbassare lo sguardo e aprendo l’acqua del lavandino mi sciacquo la faccia. La freschezza dell’acqua lava via le lacrime, e con loro la persona di qualche secondo prima. Riguardandomi allo specchio noto che la mia espressione è già differente. È quella che quotidianamente porto con me, sebbene non sia la mia maschera, e che mi consente di non vedere me stesso, di non riportare alla luce i pensieri così duri da confrontare. Tornando in camera sento i primi uccelli cantare e guardando fuori dalla finestra trovo il cielo di un indaco particolare, tipico dell’imminente arrivo della mattina. Con un sospiro mi rimetto sotto le coperte e la attendo, pronto a rinchiudere quella persona dello specchio assieme ai miei pensieri e a rimettere la mia fedele maschera.

  
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