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Autore: l_s    26/01/2008    2 recensioni
una ragazza ridotta ad un fantoccio, una scatola vuota, da un destino crudele che ella stessa ha scelto per sè; forse una debole, che si è arresa invece di continuare a combattere...cambierà idea o continuerà a crogiolarsi nel cupo torpore della sua apatia?
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3

Una lacrima solitaria le rotolò lungo la guancia, per poi abbandonare il suo sostegno e lanciarsi nel vuoto, sostituita da un tremito che si diffuse per tutto il suo esile corpo, trasportandovi sensazioni estranee, e gli occhi sbarrati videro con stupore l’indifferenza tramutarsi in dolore, paura, vergogna, mentre un fiume caldo e inafferrabile si riversava nel suo cadavere.
 Scattò in piedi, spaventata, e fuggì via più veloce che poté, nella vana speranza di lasciarsi tutto indietro, ma sentì una dolorosa fitta ad un piede, e si sedette per terra, osservandone con disgusto la pianta. Ingoiò un paio di volte a vuoto, prima che un senso di nausea le attanagliasse lo stomaco, e tutto intorno a sé iniziasse a girare. Cadde al suolo, sulla schiena e con dolore, mentre ascoltava con sorpresa un respiro affannato, che riconobbe come proprio, rallentare fino a farsi regolare. Si sollevò, questa volta facendo più attenzione, e sentì freddo, tanto che prese ad esaminare le sue braccia nude, e, sempre più stupita e disorientata, si guardò intorno trovando una marea di volti sconosciuti e ostili, e ne ebbe paura. Si sentì terribilmente debole, vulnerabile e...umana. Si sentì a disagio, desiderò poter scappare lontano, dove nessuna di quelle figure crudeli avrebbe potuto trovarla, ma ogni passo le rammentava lo spettacolo raccapricciante dei suoi piedi, di minuto in minuto percepiva l’odore del suo stesso sangue sempre più distinto e ripugnante.
Con difficoltà immane, barcollò verso il lato della strada, là dove pareva che gli sguardi ingordi non potessero raggiungerla, e vi si accasciò, disperata. Sentiva freddo, fame e dolore. Era sperduta in una città ignota ed avversa. Era una bambina. E, come una bambina, iniziò a singhiozzare, lasciando che debolezza e terrore avessero la meglio sul suo corpo fragile.
Rimase in quello stato per quella che le parve un’eternità, finché si sentì sollevare dal suolo e trascinare via, incapace di opporsi. Ma, probabilmente, non ne valeva la pena. Probabilmente non esisteva un posto peggiore di quello da cui era appena stata tratta...
 Quando finalmente riuscì a schiudere i suoi occhi, trovò una familiare penombra a confortarla e riuscì a pensare lucidamente. Avrebbe dovuto trovare una soluzione a ciò ch’era accaduto. Come avevano potuto le poche, miserrime parole d’una canzone infiltrarsi tra le dure fortificazioni che con tanta fatica aveva eretto? Si avviò decisa verso l’armadio, vi frugò dentro, ed infine estrasse dei CD ed un lettore. Per tutta la notte, ascoltò le canzoni che avevano segnato la sua labile vita, fino a che esse non suscitarono più alcuna reazione in lei.
E l’indomani si levò fantoccio. Non udì sua madre che lodava il misterioso salvatore della sera prima, fino a vanificare le sue tenui speranze d’una svolta, non percepì il vento sulla faccia, non sentì freddo né dolore. Si recò nel vicolo buio, lasciò che Mike fosse soddisfatto, sedette per terra nascondendo il viso con i capelli, tornò a casa, dormì. Riprese velocemente la solita, logorante, ma rassicurante abitudine, decisa a non abbandonarla più. Tutto andò secondo i suoi piani, ed ella tornò ad essere l’apatica eroinomane di sempre.
 Mesi, settimane o soltanto giorni dopo, era ancora seduta nel buio del vicolo, stranamente molto affollato, e veniva continuamente infastidita da ragazzine che avevano recentemente scoperto il fascino dell’alcool, quando lo udì.
Una voce calda e profonda pronunciò il suo nome. Non quello con cui la conoscevano lì. Il nome che sua madre aveva voluto che le appartenesse, il nome a cui la sua anima rispondeva. “Ananke”. Ma la voce non la stava chiamando. No di certo. Pronunciava quel nome come se leggesse ad alta voce una parola di cui amava il suono. Lo immaginava, ad occhi chiusi, concentrato sul sapore della parola mentre gli sfiorava le labbra e, dopo che essa le aveva abbandonate, attento a non lasciarsene sfuggire nemmeno l’ultima lontana eco. Suo malgrado, Ananke si voltò verso di lui e si fermò, meno fredda del previsto, ad osservare il modo in cui i ricci castani corteggiavano le guance lisce, solo per disinteressarsene un attimo dopo, calamitati dalle irresistibili spalle larghe, su cui si posavano, discontinui, lasciando intravedere la pelle olivastra del collo. Egli si volse poco dopo a guardarla, e la ragazza prese a scrutarne il volto. La pelle vellutata, scura, su cui si rifletteva la luce del lampione dirimpetto, accompagnava le labbra piene in un sorriso, riscaldato dall’espressione dei profondi occhi neri. Si scoprì due volte a guardarlo, ma neppure quella visione paradisiaca riuscì a distoglierla dalla sua rinnovata risoluzione, che ora più che mai le pareva un capriccio.

   
 
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