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Autore: Cassie chan    14/07/2013    5 recensioni
Draco sussultò, certo di aver solo sentito il vento, e continuò ad interrogare memoria ed udito, fino a quando lei sparì, lasciandolo solo. L’aria tintinnava di un ricordo netto e preciso, infrantosi nel presente silenzioso. Silenzioso, fino a quel momento. Perché Hermione Granger, vittima di una guerra che sembrava averle cancellato la voce, aveva appena parlato di nuovo. E a Draco Malfoy.
Più di un anno fa, mi fu chiesto di partecipare all'all'OTP Tournament - Dramione vs Drarry vs Harmony, I Edizione, indetto dal « Collection of starlight » come scrittrice dramione. Il mio computer distrusse la prima versione della storia, in tempi brevi scrissi Thema probandum. Qualche settimana fa, il mio pc risputa fuori l'inizio della prima versione, questa che ho completato adesso. Avevo un debito verso questa storia e la considero lo specchio al contrario di Thema probandum, per forza di cose in qualche cosa ci assomiglia. Grazie a chiunque la leggerà e mi vorrà far sapere che ne pensa, ci tengo parecchio a questa storia. :D
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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Per giorni non seppe se punirla o ringraziarla.

Provava nelle viscere un formicolio diffuso, come se fosse immerso nelle sabbie mobili, ma con la coscienza incommensurabilmente lieta che niente lo trascinasse verso il basso e che nulla lo tirasse fuori. Restava immerso in quella poltiglia fangosa accompagnandosi al pallido incubo che, se si fosse mosso, sarebbe franato.

Senza volerlo, senza premeditarlo, senza nemmeno averlo annotato, imparò di nuovo a respirare: camminava nei corridoi con il vuoto attorno, con la gente che lo scansava, con i ragazzi che lo additavano.

Ma nessuno lo toccava, l’aria era tersa del nitore della sua sola presenza. E non avrebbe mai concepito che questo adesso fosse possibile, non avrebbe mai concepito di non sentirsi impregnato della nausea di sentirsi continuamente accerchiato. Si sentiva più simile al sé stesso di un tempo, nobile e magniloquentemente distante da tutti; era semplicissimo trasformare nella testa il distacco di tutto il mondo da una condizione imposta ad una ricercata modalità di vita.

Che poi, effettivamente, tutto poi era diverso , quella era un’altra questione, tutta da spartirsi con la piega incerta del suo respiro, che poi qualificò come un vero e proprio formicolio d’ansia.

Ansia al pensiero che doveva fare qualcosa per Hermione Granger.

Punirla, per aver fatto la spia e per essersi impicciata in fatti che non erano i suoi.

Ringraziarla, per aver fatto la spia e per essersi impicciata in fatti che non erano i suoi.

Per una settimana più o meno, godette solo del piacere ferino di poter girare nel castello senza che nessuno lo toccasse: solo, riscopriva il rumore dei suoi passi, la quiete bagnata del sole del primo pomeriggio, il tenue fiato del vento nel Parco, l’oceano cangiante di smeraldo del campo da Quidditch. Si spingeva in posti dove gli era ormai proibito andare, camminava con la consapevolezza spavalda della sicurezza, chiudeva gli occhi con l’abbandono estatico della tranquillità, attorno gli sguardi seri e sfuggenti che erano meraviglioso corollario di tutta quella pace.

Poi il formicolio crebbe, divenne tremore, scossa di terremoto, improvviso scuotimento, apparentemente in concomitanza con la fine del calendario. Man mano che i giorni passavano, decretando l’agonia di quell’orribile anno, la sua ansia cresceva come il borbottio di un temporale lontano.

La fine dell’anno, forse, è anche peggio di Natale: getta ombre lunghe sui tuoi giorni, ti pone di fronte alla resa dei conti, ti costringe inevitabilmente a fare promesse da cambiamenti epocali e fioretti da penitenti.

Poi non cambia niente lo stesso, ma intanto per una notte ti dibatti nell’ansia che tutto sia a posto, che ogni cosa stonata sia sistemata, che ogni fardello sia chiuso e depositato nella pelle vecchia dell’anno passato.

Come una bastardata, la notte di San Silvestro arrivò prima del previsto, la gente radunata in Sala Grande a contare i minuti e a guardare il cielo, probabilmente chiedendosi se l’anno nuovo avrebbe davvero portato l’amnistia dal dolore e dalla rabbia mai del tutto sopite. E Draco che in mezzo alla gente non voleva stare ed adesso poteva concedersi il miracolo della solitudine, guardava le luci di Hogsmeade dalla Torre d’Astronomia, la brezza fredda che soffiava sulle ferite asciutte e richiuse. La terra pareva essa stessa sospesa, in stasi, come una donna dalle labbra dischiuse che aspetta la tenerezza improvvisa di un bacio. Seduto sul davanzale di una finestra, gli occhi acclimatati al buio, avvertiva solo il movimento spasmodico del piede in perenne movimento, preda dell’inquietudine che lo attanagliava.

Il piede si gelò solo quando la porta dell’Aula si aprì di scatto, sbattendo contro il muro ed echeggiando nel silenzio sordo della notte appesa. Si voltò su sé stesso ed annegò nel buio misericordioso della notte senza luna il sorriso sbieco che gli era saltato fuori all’improvviso nel vederla. Affannata, trafelata, con il fiatone, chiamata da un biglietto tra il minaccioso e l’implorante che aveva scribacchiato con nervosismo qualche secondo prima.

Il vento gli sbuffò in faccia l’odore della vaniglia e del cedro, mentre Hermione Granger gli veniva incontro piano, le sopracciglia aggrottate, le braccia conserte e gli occhi vigili. Aveva un maglione bianco ed una gonna scozzese, le gote erano rosse come se avesse corso come un’ossessa ed aveva le mani strette a pugno lungo i fianchi. Ancora, Draco dovette reprimere quel sorriso storto.

Poi, improvvisamente, al protrarsi del silenzio, quello stesso sorriso si sedò sul suo volto, mentre assumeva un cipiglio severo. Digrignò i denti come un animale in gabbia, Hermione Granger se ne stava lì, immobile, ferma, a respirare a fatica, a guardarlo senza capire, a ritagliarlo nella tenebra pur di vederlo. Ma non parlava, se ne stava con le parole in gola e la curiosità stretta a sé come un ostaggio molesto.

Repentinamente, fuoco liquido negli arti, seppe che fare.

Doveva punirla, altro che ringraziarla, altro che tutto il resto.

Fu un attimo, in cui ebbe la meglio l’annebbiamento foriero di ragione che lo coglieva spesso, quando si trattava di lei. Prese la bacchetta, pronunciò un banale incantesimo di appello e richiamò dal campo di Quidditch poco distante una scopa che aveva visto abbandonata ma funzionante, qualche ora prima.

Hermione la vide arrivare fluttuando ad occhi sbarrati, senza capire, senza fare domande, senza muoversi ancora. Guardò la sua schiena con le labbra serrate, eppure non si mosse, eppure nulla di lei si spostò da quella posizione. Non emise un fiato nemmeno quando Draco la prese per un polso, trascinandola vicina a lui, sobbalzò e basta. I piedi, però, volarono verso di lui, non opponendo la benché minima resistenza, fu come se lei stessa spiccasse il volo poggiandosi sulle punte. Draco non si accorse, però, di questo, nemmeno del suono metallico del braccialetto di Hermione Granger con le iniziali di Weasley che si sganciava e cadeva al suolo. Con rabbia, la caricò senza sforzo davanti a lui sulla scopa che partì sfrecciando, attraversando la finestra.

Il contraccolpo con l’aria fredda dell’esterno fu tale che Draco stesso rabbrividì, ma Hermione invece non tremava per il freddo. Era terrorizzata, livida, spaventata, mentre la scopa prendeva quota ed il mondo diventava piccolissimo sotto di loro. Eppure rimaneva in silenzio, sgomenta, paralizzata, facendosi indietro con la schiena fino ad incontrare il torace di Draco. La notte era fredda, ghiacciata, ma serena, quieta, incomparabilmente pulita: il cielo tinteggiava di nero ed argento la valle ed il castello, rendendo gemme fulgide le luci dei paesini montani e trasformando in manto lucido la superficie piatta del lago. Draco, collerico, innervosito, assolutamente furente, prese ancora velocità, puntando verso l’alto la punta della scopa che reagì quasi impennandosi: Hermione chiuse gli occhi, strinse le mani bianche attorno al manico, piegò il collo e voltò il capo, poggiando la guancia bagnata di piccole lacrime di paura sulla clavicola del ragazzo.

Draco si fermò all’improvviso, suscitando in lei un ulteriore sobbalzo. Nel buio, nel freddo del vento, Hermione sollevò il viso verso di lui, trovando ad attenderla gli occhi grigi della luna assente del ragazzo. Nascosta nel suo collo, i piedi che galleggiavano, il mondo polverizzatosi in basso, si aggrappò alla calamita del suo sguardo come se fosse la sola gravità in grado di ancorarla ancora. Impercettibilmente, piano, gli occhi sempre in quelli di lei, le mani di Draco, senza che lo avesse minimamente preventivato, si mossero sul manico della scopa rinsaldando la presa. Le sue braccia si chiusero maggiormente attorno ai fianchi di Hermione, che sospirò, chiuse gli occhi e poggiò la guancia di nuovo sul suo petto, tremando.

“Urla…” le ingiunse Draco, la voce dura e stentorea come quella di un generale. Hermione aprì di scatto gli occhi, lo guardò più terrorizzata di quando era partito bruscamente facendole rivoltare lo stomaco.

“Hai paura…” le sussurrò ancora, lo sguardo fisso sulle sue labbra ancora chiuse “Sei terrorizzata… e io non sono tuo amico, Granger, potrei lasciarti cadere da un momento all’altro… e quindi grida, urla, strepita, agitati… urla, dannazione…”. Hermione tremò nelle spalle, gli occhi inghiottiti nel bianco, negò con il capo, si ingobbì e strinse più forte la presa sulla scopa. Qualcosa nel candore terso del suo viso suggeriva a Draco che, nonostante il terrore atavico del volo, lei non aveva davvero paura. Era di lui che non aveva paura: era convinta che non l’avrebbe mai lasciata cadere, non le avrebbe mai fatto del male.

Gli andò di nuovo il sangue al cervello: rapido, come quando anni prima intravedeva da lontano un boccino, puntò la punta della scopa verso il basso. Iniziò a scendere in picchiata a grandissima velocità, come se stessero precipitando; il vento ronzava nelle orecchie facendoli sbandare, mentre il suolo, le luci, il castello, il mondo, la vita e la morte stessa si avvicinavano a grandi passi. Hermione gemette, chiuse ancora gli occhi, prese a singhiozzare sommessamente, mentre Draco continuava ad urlarle tra i capelli: “Io non ho paura, Granger… ma tu sì, urla, maledizione! O ti giuro che questo sarà l’ultimo Capodanno che vedi…!”.

Hermione toccava già le cime degli alberi con la punta della scarpa quando, finalmente, la voce graffiata, il pianto in gola, prese ad urlare più forte di quanto avesse mai fatto nella vita. Si confuse quell’urlo inarticolato con il rumore sordo dei primi fuochi d’artificio che scoppiavano nel cielo, rendendolo porpora, oro, verde, azzurro.

Hermione urlava e piangeva e gridava e gemeva, anche quando Draco, piano, fece riacquistare alla scopa la sua velocità normale, inchiodando e risalendo lentamente, fino a che furono di nuovo alti nel cielo, sospesi tra i fiori di fuoco. Smise di urlare come se si fosse spenta, solo quando lui con dolcezza se la strinse contro il petto, facendo scivolare di nuovo le mani lungo il manico della scopa, stavolta in modo più deciso e rapido, così che la schiena di lei usasse il suo torace come sostegno. Hermione, respirando a fatica, piangendo, il labbro che le tremava, reclinò la testa all’indietro, poggiando la nuca sulla sua spalla, restando ad occhi chiusi, le labbra socchiuse.

Draco, nel fragore dei fuochi pirotecnici, spiava i riflessi di arcobaleno che le si tingevano sulla pelle terrea, preoccupato, incerto, teso, improvvisamente convinto che forse aveva voluto davvero ucciderla e si era pentito solo un attimo prima di portare al termine l’impresa che agognava da secoli.

Ma quando lei riaprì gli occhi ed aveva una luce accesa dentro che non vedeva forse da anni, o forse da secoli, o magari non era mai esistita, capì solo che aveva voluto ringraziarla a suo modo. E lei, clamorosamente, come sempre aveva capito. Le sorrise, incerto, imbarazzato, ed abbassò lo sguardo, pregando le mani sudate di non lasciare adesso la presa della scopa. Il peso della sua testa sulla sua spalla e il rumore del suo respiro che si scioglieva furono le sole cose che lo lasciarono cosciente di sé stesso, mentre la luce dei fuochi si spegneva e il mondo salutava il nuovo anno.

“Potremmo tornare giù, per favore?” gli sorrise lei, dolcemente, piano, una piega impervia negli occhi che battevano del ritmo del cuore. L’assecondò subito, scendendo con delicatezza e ritornando all’aula di Astronomia. Quando scese dalla scopa, Draco si accorse che forse aveva le gambe più molli di quelle di Hermione, che era franata al suolo, fingendo di sedersi sotto la finestra. La imitò e subito lasciò che lei si accoccolasse contro il suo fianco, gli occhi chiusi, la testa poggiata in grembo, il respiro finalmente calmo e la mano chiusa su quella che lui le teneva poggiata sul ventre.

Fu la prima notte che passarono assieme, tutta, aspettando il sole che sorgeva. E fu anche l’ultima volta che dovette implorare Hermione Granger di parlare con lui.

Il voto del silenzio, per mesi, lei non lo avrebbe mai sciolto con gli altri.

Ma con lui, da quel giorno, Hermione Granger non avrebbe mai più smesso di parlare.  

 

 

“Vai prima tu, ok?”.

L’anno nuovo aveva portato come regalo ad Hermione Granger una voce appena nata, modellata ad uso e costume della frequentazione con Draco Malfoy. L’urlo della notte di Capodanno aveva rotto un guscio stantio dove si nascondeva imberbe un folto bosco di suoni e parole che lei non aveva mai usato, ingentilito da un tono melodioso che Draco non aveva mai sentito in lei. La ricordava la voce che aveva anni prima: ronzante, quasi nasale, pedante, cantilenante, da emicrania. Quando era scomparsa, aveva goduto della mancanza della fonte primaria dell’inquinamento acustico mondiale.  

Poi, da quella notte folle dove ancora non capiva che cosa aveva voluto e cercato da lei, era sbocciata quella voce sottile, lieve, cinguettante e morbida come il fruscio delle foglie al soffio del vento. La usava con dimestichezza navigata ormai, come se quella voce fosse sempre esistita in lei e non l’avesse creata apposta per parlare con lui.

Perché così doveva essere, pensava Draco: non era mai esistita quella voce prima che Hermione parlasse con lui. Non parlava così con Weasley, non parlava così con Potter, non parlava così con nessuno: anzi, lei non parlava proprio. Perché, ancora, lei non parlava con nessun altro. Solo con lui.

L’aula del quinto piano era come contornata da altissime mura insormontabili, era come una fortezza inespugnabile: fuori, lei indossava l’armatura del silenzio. Dentro, con lui, tornava sé stessa.

Senza vergogna, senza remore, senza esitazione.

Bastava varcare la soglia e lei faceva un respiro profondo, greve, intenso, come se finalmente potesse concedersi di aspirare ossigeno, dopo essere stata in apnea. E affastellava parole su parole, frasi su frasi, discorsi su discorsi, su tutto, mentre lo aiutava a studiare.

Era inutile, Draco lo poteva pure negare, ma con lei si studiava meglio, si studiava di più, si capiva tutto. E in poco tempo, recuperò tutto quello che non aveva studiato, capì quello che non aveva capito, iniziò ad elaborare pozioni che non credeva nemmeno che esistessero.

Con lei, che non smetteva un secondo di parlare. Ed invece che mandarlo ai pazzi, distrarlo, farlo ammattire… gli accendeva una fiammella tremula nel ventre. Alla quale reagiva sempre con stizza, biascicando: “Granger, cinque secondi di silenzio potresti anche concedermeli?!”. E solo allora lei se ne stava in silenzio, zitta, muta, facendogli battere il cuore d’angoscia.

Ed allora Draco, riluttante, alzava lo sguardo, tremava, ne spiava il viso. E lei sorrideva con quell’aria beata di chi gli avrebbe negato per sempre quel privilegio, che elargiva a piene mani fuori da quella stanza.

E, per quanto cercasse di trattenersi, Draco Malfoy, quando tornava a leggere, infantilmente metteva su un sorriso piccolo e sottile, che gli durava tutto il pomeriggio.  

Quello stesso sorriso moriva putrefatto, quando, iniziato a tramontare il sole, Hermione iniziava a riporre le sue cose come se avesse un maledetto orologio mentale. Qualche minuto ed avrebbe detto stoica: “Vai prima tu, ok?”. Draco tornava a guardarla e lei aveva il labbro inferiore che le tremava, gli occhi che tentava di mantenere puliti, la pelle del collo tesa di una che sta per tornare sott’acqua.

E la voce smetteva il tono cantato, per indossarne uno dimesso, cupo, improvvisamente triste.

Le prime volte, innervosito, le voleva urlare addosso che, se stava così male al pensiero di tapparsi la bocca fuori da lì, poteva anche smetterla con questa recita della pianta ornamentale.

Poteva anche donare quella voce a chiunque altro, non solo a lui.

E finirla lì.

Stringeva i pugni, se ne andava senza salutarla e sbatteva la porta dietro di sé, immaginandosela dietro quella porta che si rimetteva a fatica sul viso quella maschera falsa di vittima sacrificale.

Finiva per odiarla in quel momento, mentre restava fuori da quella stanza a fissare quella porta chiusa. Poi si ricordava che lui la odiava sempre e se ne andava, quasi soddisfatto di sé stesso, ghiaccio sul fondo di sé.

Il gennaio più freddo degli ultimi anni finì in una giornata, invece, di sole luccicante sul lago, dove tutti gli studenti ciondolarono pigri e dove Draco ed Hermione si chiusero nella loro ovatta di studio. Non si erano visti per qualche giorno, a causa di una mole spropositata di compiti, Hermione aveva avuto il raffreddore, aveva ancora il naso arrossato e gli occhi lucidi. Lo accolse nell’aula con un sorriso strabordante ed una sciarpa rossa attorno al collo, un fazzoletto di carta in mano e l’aria malaticcia.

Lo irritò come non mai il modo smodato con cui nemmeno gli fece chiudere la porta che iniziò a ciarlare come un’ossessa, in crisi d’astinenza. Era diventato la valvola di sfogo alla psicosi cretina di una muta per finta. Non la ascoltava mentre parlava, gli dava così fastidio improvvisamente che quando lei disse: “Vai prima tu ok?” non la sentì nemmeno. Solo alzando lo sguardo, si rese conto che le torce si erano accese ed oramai era buio.

Il fatto di non capire per quale motivo fosse così disgustosamente innervosito, era come appiccare un incendio ad una sterpaglia. In questo, vedere di nuovo quella sua espressione dimessa mentre si preparava di nuovo a chiudersi la bocca, lo fece capitolare.

“Vai prima tu, invece, stavolta, Granger…” le ingiunse velenoso, voglioso di restare da solo.

Lei silenziosamente gli obbedì, si alzò, raccolse le sue cose e si richiuse la porta alle spalle.

Trascorso qualche minuto, durante il quale Draco era rimasto con il viso sul libro a rileggere la stessa parola quattordicimila volte, quando giudicò di essersi calmato abbastanza, si alzò dalla sedia, spense meccanicamente le luci e si diresse verso la porta. A testa bassa, ad un passo dalla soglia, distinse nel buio la punta di un paio di scarpe nere. Sollevò il viso imbambolato, Hermione era ancora lì, la schiena contro la porta, il naso rosso, gli occhi incupiti ed accesi di una determinazione da fargli girare la testa. Era buio, non la vedeva bene, spariva nel fondo di quella serata fredda e non la sentiva quasi respirare. Eppure, era lei, era sempre cedro e vaniglia, era sempre silenzio soffuso, era sempre la guerriera di terracotta che sembrava comunque non piegarsi mai.

“Non te ne vai ancora?” biascicò velocemente, burbero, voltando il viso dall’altra parte “Fammi passare…”.

“Stasera no…” sussurrò decisa, dura, categorica, per poi bisbigliare più piano: “Stasera non posso sopportarlo di uscire da qui e non parlarti più…”. Gli esplose tutto in faccia, addosso, dentro, fuori.

Non sopportava ogni sera di non parlargli più fino al giorno dopo, non di non poter parlare con gli altri.

Il solito annebbiamento sparì e lo fece tornare lucido, solo quando sentì la fronte di lei sotto il suo mento, mentre la chiudeva tra sé e la porta. A tratti, foschi come nebbia, tornava e veniva in sé stesso.

Seppe solo di essere pienamente in sé, senza poter chiamare in causa alcuna distrazione, quando, il viso di lei tra le mani, le sussurrò qualche parola lieve, prima che lei sorridesse, annuisse, nascondesse il volto nella sua camicia. Nessun errore, nessun inganno, nessun annebbiamento, nessuna possibilità di scampo.

Quando le aveva detto: “E allora non andartene stanotte…”, lo aveva desiderato con ogni fibra del suo corpo.

 

 

La notte è una mamma amorevole, dalla pelle di stelle e dal sorriso di luna: perdona gli errori, cancella le marachelle, ha il manto liscio e misericordioso che nasconde ogni azione.

Il giorno è un padre padrone, dallo sguardo di fuoco e dalle mani roventi: picchia in testa, urla e scalcia, illumina tutto ciò che hai fatto, come se fossi su un palcoscenico.

Fin quando era notte, Draco Malfoy poteva ragionevolmente illudersi che la ragazza di cui sentiva solo la voce, non fosse Hermione Granger, la Mezzosangue, la Grifondoro, la fidanzata di Weasley, l’amica di Potter. Era solo una piccola voce sottile, sparsa nel buio, che proveniva da un punto imprecisato accanto a lui: come stare in chiesa ed essere circondati dalle note dell’organo e non capire da dove il suono provenga, ed essere comunque lieti, felici, in pace, improvvisamente vicini a Dio e a tutto quello che ci sta attorno. L’organo magari è suonato dal diavolo in persona, ma fin quando non lo vedi, non lo sai che ti sta per fracassare al suolo, facendoti aprire il cranio in due.

Per tutta la notte, Draco Malfoy aveva gli occhi fissi all’unica fonte di luce della stanza: la lama di luna che filtrava dalla finestra accostata, ma era un riflesso condizionato. Gli occhi, quelli veri, quelli che non avevano pupille e ciglia, erano nelle parole che faceva fiorire la ragazza accanto a lui.

Che poteva anche avere la stessa inflessione cantata di Hermione Granger, poteva anche avere la stessa pronuncia marcata sulle lettere gutturali, poteva anche avere la sua stessa risata impressa in ogni sillaba… ma poteva anche non essere lei, tanto il buio gliela nascondeva, ed allora che importava se aveva la testa sulla sua spalla, che importava se teneva le dita strette nella sua, che importava se gli sfiorava il collo ad ogni respiro.  

Del resto, quella ragazza parlò per una notte intera, ma parlava senza nomi, senza persone, senza luoghi, senza tempi, senza niente che la facesse identificare come qualcosa di diverso da una voce di fata avulsa alla vita e sospesa nell’eterno. Parlava di sé, ma raccontava cose che erano accadute prima di Hogwarts, e non usava nulla, niente, che inchiodasse un ricordo o un aneddoto a qualcosa che li separasse, ma a tutto che li unisse. Se raccontava di un parco giochi dove il sole rendeva le foglie al tramonto rosse ed oro, e lei da bambina si convinceva che fosse il sangue di chi non c’era più, non usava nomi di persone che avesse perso, non diceva il nome del parco o non usava locazioni temporali e spaziali, così che lui davvero pensasse alla possibilità che chi morisse, nell’eterno, sanguinasse ancora, piuttosto che ricordarsi quanto di lei gli fosse estraneo e potenzialmente nemico.

Nel nero, nell’oscuro, nel nascosto, rise con lei e di lei: delle sue mille nevrosi, dei suoi ricordi assurdi, delle bambinate e delle marachelle che l’avevano svezzata intelligente e curiosa. La guancia sui suoi capelli, ne sentiva la morbidezza scarmigliata e ne aspirava l’odore tranquillo di chi passa inosservata alla vita stessa.

E poi iniziò lei a fare domande, a chiedere, ad interrogarlo, e le rispose copiosamente, perché tanto forse lei era spirito e non era carne, e la mano nella sua era miraggio antipatico di chi si sentiva solo.

Le rispose, finché ebbe domande. Poi lei non parlò più e rimasero così, seduti per terra, la schiena contro un vecchio divano stinto. Quando la sentì piegare il collo su di un lato, come un fiore caduco, la scosse leggermente e la invitò a stendersi. Annuì, fece un verso buffo, sbadigliò e si distese dietro di lui.

Era ancora così vicina che gli respirava sulla nuca, un soffio caldo di scirocco nel centro esatto dell’inverno. Lo faceva tremare, poi addormentare, poi svegliare di soprassalto e poi spingere ad una commozione simile al pianto, che però del pianto non aveva nulla, perché il cuore quando piangi, si restringe di volume, diventa una noce rugosa e cattiva, invece lui adesso se lo sentiva mancare quel muscolo vitale perché era diventato così sconfinato e lontano da dargli la percezione che non riuscisse nemmeno a sentirselo più dentro.

Fu una notte da appisolarsi e mai da dormire, da concedersi la tregua degli occhi chiusi e da trasalire non appena la stanchezza minacciava di portarlo via da lì. Se dietro le palpebre, la luce accennava ad aumentare, Draco si svegliava come punto da un insetto. Il respiro di Hermione lo addormentava daccapo.

Ma il sole, alla fine, lo sorprese ugualmente: assopito a braccia conserte, guardia silente di una principessa addormentata che niente aveva di regale e niente mai avrebbe avuto di nobile ai suoi occhi, si svegliò di soprassalto, un sentimento confuso di lacerazione dentro. La luce dorata, fragrante, testarda, tastò la stanza, si mangiò i mobili e tinse di sgradevole banalità le mura, dove ancora riposavano addormentati i segreti di quella notte di parentesi dal mondo tutto.

Si voltò piano, spaventato, la voce che lo aveva accompagnato quella notte ormai era un corpo, aveva una contingenza fisica, aveva un nome, possedeva una vita, si incespicava in un passato e si avventurava in un futuro, e niente, nulla, lo legava a lei. Delle ripetizioni di Pozioni, che poteva dargli chiunque altro? Il segreto di una voce, che prima o poi qualcuno avrebbe scoperto? Il velluto di una notte, da riempire parlando di cose da lasciare senza pronomi ed aggettivi che li unissero davvero? Non era niente, nella luce tornavano ad essere Draco Malfoy ed Hermione Granger, due derelitti che non avevano di meglio da fare che starsi accanto a comparare quanto l’altro fosse più rudere di sé stesso.

Lei, come sempre, aveva capito tutto prima di lui, era sempre stato così e così sarebbe stato sempre.

Quando Draco si voltò, infatti, Hermione gli dava le spalle, raggomitolata su sé stessa, le ginocchia al petto, la testa china e gli occhi fissi come quelli di una statua di sale sullo schienale del divano.

Increduli entrambi, non parlarono per un’ora buona, finché il vento spalancò la finestra e la luce beffarda entrò come un assassino, bruciando le loro pupille ancora ebbre della notte ed aperte le une verso le altre.

“Domani torno a Londra… devo sistemare delle cose. Tornerò tra un paio di giorni…”.

Non seppe mai Draco, se non anni dopo, perché in quel momento avvertì la stessa sensazione di soffocamento che prova un condannato a morte, quando si preparano a fucilarlo. Sentiva la canna di una pistola che fredda gli si puntava alla schiena, e sapeva perfettamente che stava rischiando di crepare, e sarebbe bastata una sola domanda, una sola singola domanda, e il suo ultimo desiderio lo avrebbe salvato.

Bastava chiederle perché andava a Londra, e lei gli avrebbe risposto.

E, rispondendogli, avrebbe perso senso quella partenza.

E la poteva chiudere davvero in quella stanza al buio, senza farla uscire mai più.

Ma era giorno, adesso, e il giorno è nemico delle domande.

Disse solo con un filo di voce alla sua schiena: “Vedi di tornare presto… che di quelle pozioni autorigeneranti non ci capisco niente…”. Hermione incassò, chiuse gli occhi e finse che il tremore tra le scapole fosse una risata. “Figuriamoci… sei la solita capra, Malfoy…”.

Non aveva nessun tono ilare la sua voce, era solo buttata fuori, sputata, maltrattata e violentata.

Draco si voltò di nuovo su sé stesso, di nuovo perso nell’intreccio di puntini che la retina descriveva ai suoi occhi per la troppa luce di quella domenica malaticcia di febbraio; dentro una poltiglia nauseante che gli bloccava il respiro e a cui si rispondeva solo, indulgenti, che lei tornava tra due giorni.

Ma Hermione non tornò tra due giorni.

Ne passarono quindici.

 

L’abitudine è una meretrice sdentata, che si mastica il tuo tempo e ti sputa addosso venefica la nostalgia, scambiandola per amore. Se qualcuno diventa abitudine, c’è chi urla alla fine del mondo e all’inizio della parabola discendente verso il ghiaccio della passione e la tomba del sentimento.

Draco Malfoy, che di persone da elevare ad abitudini aveva avuto solo i suoi genitori, scopriva invece che non c’è niente di peggio che incastrare qualcuno in te, al punto da diventare un rito quotidiano: quando manca, con tutti i suoi colori, odori, rumori, manchi pure tu e manca tutto il tempo che diventa perso, scomodo, ingestibile, sgusciante come una biscia di fiume infida e maleodorante.

Hermione Granger era diventata un’abitudine: un orario, un appuntamento, un’attesa di qualche minuto, un rumore di passi in un corridoio, un saluto affrettato, una sequenza di scuse sommesse, una risposta motteggiata in fretta, uno sguardo da bambina arrabbiata, un rimprovero da maestrina saccente.

Le dita di Draco Malfoy avevano preso la scomoda tendenza a formicolare toccando qualsiasi cosa. Una piuma, la superficie di un libro, un banco, un pezzo di pane. Ad ogni tocco con ogni cosa tangibile, la pelle si ricordava che lei mancava, ed allora si accartocciava sconfitta, rigettando ogni altro contatto.

Stessa cosa facevano gli occhi, la bocca, le orecchie: ed il cervello, già, pure la sua testa, che, se doveva assorbire un concetto da un libro, martellava e martellava, chiedendo solo perché non ci fosse lei a spiegarlo, a srotolarlo semplice ed innocuo.

Il corpo era in rivolta, e Draco malediceva prima lui stesso, e poi Hermione Granger, la sobillatrice di tutto.

Scoprì facilmente che il solo modo per stare tranquillo e non impazzire, era sedere per terra nell’aula del quinto piano, poggiare la schiena contro il divano e chiudere gli occhi.

Quando il sole andava via, quando la luce diventava solo una lama dentro gli scuri accostati, giungeva la pace. Aveva l’odore del cedro e della vaniglia che aveva impregnato il tessuto del divano, ed aveva l’illusione di un respiro caldo sulla nuca. Allora, e solo allora, per qualche attimo, poteva studiare qualcosa.

Ma Hermione non tornava, mancava e non tornava, non tornava e mancava da più di due giorni, ormai.

E scoprire dentro che si pentiva di non avere niente che la legasse a sé, rendeva Draco più pazzo di quanto già non si sentisse. Non aveva un indirizzo dove scriverle ed ordinarle di tornare, non aveva un nome da poter interrogare con ira repressa, non aveva un ricordo a cui appellarsi per capire che diamine stesse facendo, non aveva un’abitudine diversa da lei che lo distraesse e gli facesse dire con convinzione che se ne fregava di lei e che poteva anche non tornare mai più.

La gioia malcelata di Ginny Weasley, nei corridoi, rifiorita come una rosellina all’approssimarsi  dell’estate, lo faceva innervosire ancora di più: quella piattola sapeva, sapeva dov’era, sapeva perché non tornava e ne era felice. All’inizio, era convinto che fosse perché ce l’aveva sullo stomaco la Granger, era stanca di farle da nutrice e da badante e che quindi si godeva il riposo. Rise persino mentalmente, quella sciocca manco gli amici si sa scegliere, deve ringraziare che io mi degno di stare dove sta lei, si disse compito e convinto.

Poi la Granger non tornava, e la Weasley rideva, ed una volta la sentì dire: “Scommetto che lei e Ron stanno recuperando il tempo perduto… in fondo non c’è bisogno di parlare in quelle pratiche, no?”.

La trovò così rivoltante quella sottospecie di femmina, da desiderare di ucciderla davvero.

Si ricordò, come se non l’avesse mai saputo, che la Granger stava con Weasley, che per starci assieme forse doveva baciarlo, e che per baciarlo forse ne doveva essere innamorata: Weasley era un’abitudine per la Granger come lei lo era diventata per lui. E sentirsi degradato al livello di quello straccione lo faceva diventare ancora più matto di quanto già non si sentisse.

Ogni minuto in cui lei non c’era, era un minuto da farle pagare con astio, al punto che quando captò per caso dalla voce improvvisamente sconfitta e sfilacciata di malinconia di Ginny Weasley, che stava tornando, avvertii solo l’acido del risentimento corrodergli la gola.

Andò comunque alla stazione, i passi pesanti, gli occhi risentiti, le spalle curve, pronto a nascondersi ad ogni cenno di vita di qualcun altro e pronto a urlarle contro, non appena l’avesse vista.

Nessuno, però, andò a prenderla: Hermione scese dal treno sola, camminando a testa bassa su un binario deserto, un borsone pesante sulla spalla destra.

Il risentimento di Draco, mentre la vedeva camminare da lontano ingobbita e piccola, miserevole e miserabile, persa e perduta, divenne la puntura di uno spillo nel petto, fastidiosa quanto la si voleva, ma minuscola ed infinitesimale al punto che, a darci peso, sarebbe sembrato in vena di lagne infantili.

Nella nebbia di quella sera di fine inverno, Hermione non guardava nulla davanti a sé, camminava con gli occhi ipnotizzati dalle crepe del pavimento, i suoi passi erano sospiri inudibili. Sebbene facesse già più caldo, portava un voluminoso cappotto bianco con un cappello dello stesso colore, i capelli erano legati in una treccia sfatta e, ad ogni passo, ad ogni respiro, dava l’impressione di cadere a pezzi.

Gli arrivò davanti, e nemmeno se ne accorse, lo evitò senza accorgersi di lui, scansandolo in modo meccanico.

Non avvertì Draco l’offesa e l’urto all’orgoglio mentre lei lo ignorava: avvertì la cecità di uno sguardo perso altrove, di una voce soffocata di nuovo nel petto, di una crepa aperta dentro e che non smetteva di farle male.

La chiamò piano, la richiamò indietro, ed aveva una voce dolce, lieve, gentile, soffice, da fratello, da padre, da amico, da chi si era scavato quella ragazza dentro come un’abitudine dannosa, ma a cui ormai non poteva rinunciare più. Per mesi non lo ricordò, non ci badò, non lo considerò, ma la chiamò per nome per la prima volta, in quel preciso momento. Non dopo, non prima. Disse: “Hermione…” come avrebbe chiamato casa la sua abitazione, con la stessa naturalezza, con la stessa improvvisa consapevolezza che lei era lei e lui era lui, e niente poteva cambiare tutto questo, ed anzi non voleva cambiare nulla di tutto questo.

Poi l’avrebbe rinnegato, ovvio, per poi ripensarci mesi dopo e capire che era stato allora la fine e l’inizio, e maledirsi e al contempo ringraziarsi.

Perché Hermione finalmente si era voltata su sé stessa, gli occhi lucidi, persi, le guance rosse, il cuore che le sembrava battere sotto il tessuto e rendersi evidente.

Le era scivolato dal braccio il borsone, era caduto a terra con un tonfo secco, la nebbia era diventata meno pesante e più simile ad una nuvola passeggera.

Gli era volata tra le braccia prima ancora che se ne rendesse conto, se le era stretta addosso prima ancora di rendersene conto, l’aveva cullata come una bambina prima ancora di rendersene conto.

Non gli disse che le era accaduto, si fece stringere e basta per ore.

Mesi dopo, Draco avrebbe scoperto che, per certe pratiche, effettivamente non c’era bisogno di parlare, specie quando non si è avuto per mesi nulla da dire.

Hermione aveva appena lasciato Ron Weasley.

 

 

Quando, nella mite mattina del 1° aprile di dieci anni dopo, nacque sua figlia Haylee, Draco per un attimo pensò che era uno scherzo di cattivo gusto che non faceva ridere nessuno.

Il termine dei nove mesi scadeva il 20 marzo, ma la bambina si era presa ben undici giorni per nascere, sembrava che prendesse tempo come se, effettivamente, avesse deciso di venire al mondo proprio in quella giornata. Era arrabbiato, furibondo con sua figlia per questo, prima ancora di vederla.

Ovviamente durò ben poco: non appena se la vide in braccio così piccola, così bionda, così meravigliosamente perfetta, le perdonò tutto come avrebbe sempre fatto da lì a quel momento.

La vita ha la straordinaria dote di cucire con paziente solerzia le piaghe che essa stessa provoca: il primo aprile era sempre stato per Draco Malfoy, un giorno dai contorni incerti, foschi, cupi, da vertigine.

Non gli metteva tristezza, né malinconia, né ansia: ma nemmeno lo rendeva felice, allegro, gioioso.

Era uno di quei giorni, che quando lo vedi approssimarsi nel calendario, speri solo che passi quanto prima possibile, perché porta con sé un tale carico confuso di sensazioni da volere solo che passino. Non tutte negative, non tutte positive, perché comunque erano nella maggior parte sensazioni riflesse, non nascevano da lui in prima persona, ma erano state così intense e destabilizzanti che, ad ogni 1°aprile, dovunque egli fosse, qualsiasi cosa accadesse, per dieci anni Draco non aveva fatto altro che ridurre al minimo il suo contatto con la vita stessa. Era come un anniversario da scandire con religiosa devozione, dedicandosi con spasmodica attenzione al digiuno da ogni forma eccessiva di sentimento umano.

Quella parentesi di avversione durò dieci anni giusti; prima del suo Ottavo anno ad Hogwarts, il 1° aprile era solo una data da stupidi scherzi. Dieci anni dopo, divenne il giorno del compleanno di sua figlia Haylee.

Il 1° aprile del suo Ottavo Anno ad Hogwarts, in una Torre di Hogwarts, nel tramonto mesto di una giornata dolente e cupa, Draco Malfoy morì bambino e nacque uomo.

Accaddero tre cose in rapida successione, consequenziali, legate a doppio filo l’una all’altra.

Seppe perché Hermione Granger si era troncata volontariamente la voce in gola.

Seppe immediatamente quale tipo di Pozione realizzare per cercare di entrare a Saint Suliac.

E seppe anche una cosa che era impossibile da concepire anni prima, quando il 1° aprile era solo il giorno da dedicare a folleggi infantili, e che era impossibile da ignorare anni dopo, quando il 1° aprile divenne per sempre un giorno da ricordare ed evitare assieme.

Si era innamorato di Hermione Granger. 

 

Marzo aveva molto in comune con Hermione Granger.

Bonariamente si poteva dire che facevano i capricci tutti e due, ma Draco Malfoy con maggiore pragmatismo, avrebbe detto che erano pazzi e basta, senza alcun volo dialettico di giustificazione.

All’approssimarsi del terzo mese dell’anno, quella che, non senza eccessive smorfie mentali, oramai apostrofava come “una specie di conoscenza amichevole” e che chiamava per nome con sforzi sempre minori, iniziò una specie di mutazione, un’involuzione innaturale. Quando tutte le altre bestie si svegliavano dal letargo, Hermione Granger invece decideva in modo arbitrario di farsi un bel bozzolo e di barricarsi dentro.

In poche manciate di giorni, divenne una creatura fredda ed inaccessibile, chiusa e scostante, scorbutica ed acida: questo, se si poteva definire una giornata buona. Perché tutto sommato Draco, con una Hermione che scocciava e lo rimproverava anche se spostava la sedia, poteva convivere.

Una rispostaccia, un’alzata di sopracciglio, un insulto soffocato tra i denti, e tendenzialmente lei la smetteva. E se anche continuava, in fondo non è che ci perdesse il sonno se ci bisticciava e poi se ne andava sbattendo la porta. Poteva persino dire che gli piacesse. Non che gli piacesse lei, intendeva dirsi mentalmente che era comunque sopportabile litigarci e trovarsela lì, il giorno dopo, seduta composta sulla sedia che spiava ogni suo movimento stizzito con il fiato sospeso. Gli avrebbe chiesto scusa con voce ovvia, quasi facendolo sentire scemo, e lui avrebbe detto che figuriamoci se stava ancora a pensare a lei e alle sue idiozie.

E quando l’avrebbe guardata con le labbra rosse arricciate in una smorfia nervosa, vogliosa di rispondergli di nuovo male ma trattenuta dal desiderio di fare pace, avrebbe trattenuto una risata con tutta la forza che aveva in corpo. Ed avrebbe trattenuto anche il corpo che, chissà per quale istinto imbecille, aveva preso l’imbarazzante ed ormai consolidata abitudine a reagire davanti a lei.

Era successo in modo imprevisto, uno stramaledetto pomeriggio, che alla Granger era saltato in testa di ripetere tutte le Pozioni mediche fatte fino a quel momento, con una specie di mini esame. Era particolarmente allegra quel giorno, era ancora febbraio, non era ancora iniziato il marzo del bipolarismo.

Draco aveva borbottato per due ore e mezzo, mentre faceva il compito che, ad onor del vero, gli era venuto fuori perfetto al punto da meravigliarla sul serio. Quando lo aveva corretto, era arrossita in modo inspiegabile, fiera di sé stessa. Solo due mesi prima, lui non sapeva nulla di tutto quel marasma di pozioni.

Aveva sorriso in un modo così aperto e sincero che improvvisamente Draco se l’era immaginata come una maestra in un modo così nitido e preciso che aveva tutto della premonizione.

Rapida, veloce, fulminea, come mai era accaduto di giorno ma solo di notte, quando gli occhi si sfuggivano e le loro stesse essenze si mescevano nel buio, Hermione aveva stretto le braccia attorno alle sue spalle, lo aveva abbracciato forte ed aveva chiuso gli occhi, senza una parola. Non aveva replicato all’abbraccio, aveva solo guardato ad occhi sbarrati la parete vuota davanti a sé, qualcosa che si muoveva dentro di lui. Era stata più vicina di quella volta, molto più vicina, eppure quella volta aveva fatto effetto: un effetto devastante.

Da gettarsi sotto una doccia fredda.

Per giorni, più niente: poi ancora, era bastata una smorfia sulle labbra per farlo vergognare di sé stesso. Poi la curva della schiena, mentre si alzava in piedi. Un ricciolo che le sfiorava la pelle del collo. Un’unghia mordicchiata. Le pieghe della camicia bianca. Le gambe incrociate sul divano.

Non sapeva qualificare quella sensazione, il corpo era un pezzo avanti a lui, la mente si vergognava e basta, il cuore se ne stava zitto. Quindi, adesso, cercava di evitarne quanto più possibile la vista e il contatto.

Se l’era stretta addosso decine di volte, sempre vittima di un annebbiamento che lo manipolava, eppure adesso era convinto di non poterla toccare più, non così, non di nuovo, non da quella sera in stazione dove lei, chissà perché, aveva cambiato sguardo, aveva cambiato occhi. Erano più sinceri, più innocenti, meno colpevoli. E scavavano dentro i suoi come trivelle alla ricerca dell’acqua.

Fino a marzo, appunto: perché dopo Draco non ebbe tante occasioni di tenersi a freno.

La compagna di studi che lo rimbrottava, era ancora una tentazione a cui purtroppo la pubertà adolescenziale scoperta in ritardo, ancora rispondeva: ma ella era una compagnia ben poco presente.

Hermione, piano, lentamente, dismise l’acidità dopo la prima decade di marzo, indossando le fogge meste di un uccellino strappato dal nido.

Iniziò con l’abbigliamento: sempre più disordinato, sempre meno attento. I capelli tornarono la massa incolta dell’inizio dell’anno scolastico, li legava sempre in una crocchia severa sul capo, assunsero un colorito spento e triste come se si fossero scuriti. Non portò più fermagli, cerchietti, elastici come le era tipico negli ultimi mesi. La divisa era lisa, a volte persino sporca, e se lui glielo faceva notare, Hermione borbottava mortificata, ma perdeva subito contatto con sé stessa, richiudendosi nel suo guscio ostile. Con il passare dei giorni, iniziò a modificarsi la sua postura: meno eretta, piegata, curva, gravata da un peso netto al centro esatto della schiena che sembrava volerla schiacciare come una formica imprudente. Poi venne l’insonnia e l’inappetenza: niente più spuntini consumati di fretta nel pomeriggio, prima sostituì i biscotti con gli acini d’uva, poi improvvisamente niente più. A cena, al suo tavolo da Grifone, erano più le volte che non c’era. E se c’era, era come con lui: assonnata, stanca, segnata da profonde occhiaie sotto gli occhi.  Attorno al 18 di marzo, Draco notò che stava dimagrendo, ma non disse nulla, non ancora. La spiò di sottecchi e basta, mentre si appisolava sul palmo della mano. Aveva le unghie della mano completamente masticate, alcune grondavano sangue. Respirava a fatica, ansimava spesso, sudava come una vittima braccata.

Il 25 marzo, nel mezzo di una spiegazione, si fermò a disagio, confusa, disorientata, come se avesse perso il filo del mondo stesso: iniziò a piangere da sola, sforzandosi di parlare ancora, mentre lui la guardava ancora, sconvolto, incerto, assolutamente terrorizzato da quello che le stava accadendo.

Hermione scappò via, prima che glielo potesse impedire.

Il 27 marzo mimò con le mani che  era senza voce: niente faringite o altro. Niente. Di nuovo. La voce se ne era andata. Ma stavolta anche con lui. Tornò assente, fredda, scostante, lontana: di nuovo una pianta ornamentale. I primi pomeriggi veniva comunque, si sedeva accanto a lui, non muovendo nemmeno l’aria.

Poi il 30 marzo, non ci venne più. Senza avvisare, senza dire nulla, senza fare altro. Come se in quell’aula del quinto piano lei non ci fosse mai venuta, non fosse mai esistita, non fosse mai comparsa, avara di straziargli la vita e di sconvolgergli i sensi.

E il corpo di Draco reagì, ancora, a lei: ma stavolta in un modo inedito, che non conosceva ancora, che avrebbe imparato da quel momento, che si chiamava con un nome pesante e leggero assieme e che accomunava migliaia di persone al mondo che in parte si definivano fortunate ed in parte si definivano sciagurate. E, proprio perché era così comune e così raro assieme, si estrometteva dalla visione di Draco Malfoy come un miraggio nel buio. Quella reazione non è che tanto lui non se la immaginasse per Hermione Granger: lui non se l’immaginava proprio per nessuna al mondo. Nemmeno per sua madre.

Era cresciuto così egocentrico ed egoista, che spostare l’asse da sé avrebbe significato probabilmente fargli perdere l’orbita e l’equilibrio. E difatti quello significò in quel pomeriggio del 1° aprile, quando Hermione Granger ancora non si presentò al loro silente appuntamento e lui provò una sensazione simile ad un attacco di panico. Soffocamento, ansia, torace compresso, respiro accelerato, sudore freddo, fantasie macabre e preoccupazioni spicce, dolenti previsioni e ricordi agrodolci, rimorsi stantii e rimpianti acerbi.

Era tutto semplicemente troppo: troppo nel suo cuore piccolo, striminzito, schiacciato dalla considerazione di sé e dall’accecamento di tutti gli altri. Era troppo.

Corse fuori da quella stanza, senza sapere dove andare, correva e basta, feroce come una fiera a cui hanno portato via il piccolo, ed erra pazza, folle, eppure lucida, eppure non ancora straziata dal dolore, eppure ancora caparbiamente convinta di poter ancora salvare il proprio sangue. E poco importava che Hermione Granger, con lui, non condividesse nulla, nemmeno una goccia di quel sangue e che anzi lo profanasse con la sua stessa esistenza. Il sangue, ormai, era un liquido chiuso nel corpo, sigillato. Quando usciva, quando fiottava, quando d’improvviso palesava la sua esistenza becera, era solo per fare male. Che gli importava di difenderlo? Non aveva più senso difendere quella che quel male lo aveva messo a tacere, nascondendolo, sedandolo, chiudendo le ferite e resuscitando il calore? Non aveva più senso?

Ovvio che non ce l’aveva, ovvio che sua madre gli avrebbe detto che non ce l’aveva, ovvio che suo padre gli avrebbe detto che non ce l’aveva, ovvio che tutti, lui compreso, avrebbero detto che non aveva senso, e non aveva nemmeno ragione, ed aveva solo schifo e vergogna nell’esistere: ma, improvvisamente, o forse da mesi prima, il senso era così forte che, se lo negava, era solo per consuetudine introversa di non lasciarsi del tutto alle spalle, geloso com’ era sempre stato di sé stesso e di quello che era.

E poi, d’improvviso, si era reso conto che comunque lui ormai non esisteva più, non almeno nel modo in cui aveva sempre creduto, così totalizzante e completo.

Viveva solo nei buchi e nelle crepe che Hermione Granger si degnava di lasciargli per esistere.

Non aveva disegno in mente, mentre correva nei corridoi di Hogwarts: non c’era nessuno in giro, a quanto pare c’era una specie di commemorazione in Sala Grande in onore di qualcuno morto che magari valeva qualcosa. Attutite dalle porte chiuse, giungevano voci di ricordi e canti di strazio.

Il sole stava annegando nel lago argenteo quando si rese conto che si era fermato davanti al quadro della Signora Grassa, davanti alla Torre di Grifondoro. Ansimava, respirava con fatica, eppure mormorò velocemente la parola d’ordine: il quadro, sgomento, osservando i colori della sua divisa, fu costretto però ad aprirsi rivelando l’ingresso. Draco rise beffardo alla dama dipinta, la Granger ogni settimana gli dava la parola d’ordine, lo faceva per abitudine nel caso in cui non si fossero potuti trovare nell’aula del Quinto piano oppure avessero delle comunicazioni urgenti. Non aveva mai approfittato di quella dimostrazione, l’ennesima, di fiducia, ma adesso ovviamente risultò più che provvidenziale.

Draco, superando l’ingresso, non aveva pensato alla possibilità di incontrare qualcuno, ma a quanto pare tutti erano alla commemorazione ufficiale, come i Grifoni erano tipici fare; restare fedeli alle loro tradizioni e ai sorrisi incartapecoriti da esibire in pubblico così che tutti li lodassero e stimassero, come sempre e da sempre era avvenuto. Eppure Draco era certo, convinto, sicuro che Hermione non fosse lì.

Incantò le scale del dormitorio femminile, trovò la camera che ancora occupava singolarmente, sebbene non avesse più alcuna carica né da Prefetto né da Caposcuola. La aprì con livore ansioso, ma la stanza era perfettamente in ordine, pulita, non consumata, vuota. Morta.

Si sedette sul letto, le mani nei capelli, chiedendosi dove potesse essere ancora: ogni respiro in cui non la sapeva se non vicina a lui, almeno tranquilla, lo portava lentamente all’agonia. Lo sentiva, dentro, fuori, ovunque, che non era normale non trovarla, che era meno normale del solito, che quel logoramento fisico che stava avendo poteva ucciderla, che nessuno davvero se ne sarebbe accorto, che lui solo avrebbe scorto la differenza. Lui solo, lui soltanto, lui solamente, lui per sempre, la poteva salvare.

E se non se l’era detto fino ad allora, era solo perché uno non si dice nella testa che l’acqua è bagnata.

Era scontato.

Non appena ammise quello, non appena capì quello, non appena intuì quello, udì qualcosa di stonato. Uno scroscio, continuo, d’acqua. Dalla stanza accanto. Dal bagno.

Senza pensare a nulla, senza capire nulla, spalancò la porta con un tonfo.

Era lì, immersa nella vasca da bagno, completamente vestita, completamente zuppa, la nuca reclinata indietro, i capelli bagnati, le labbra viola, gli occhi spalancati al cielo come una supplice defunta. Le braccia erano aperte all’indietro, come se fosse in croce, sanguinava dai polsi. Unghiate le macchiavano anche la pelle del collo, la gola: come se avesse cercato di strapparsi via qualcosa. Non qualcosa: la voce.

Immaginò che fosse morta, pensò che se ne fosse andata, fantasticò della vita senza di lei.

E fu come morire assieme a lei: gelido, pallido, svuotato di ogni cosa dentro come se lo avessero aperto con il coltello. Rapido il petto sussurrò il nome delle reazioni a lei e a tutto quello che faceva lei.

Rapido, singhiozzando dentro e restando immoto fuori, si disse che l’amava come non aveva amato mai niente e nessuno nella vita. Con quel nome, con quei capelli, con quella buffa piega del volto, con quel sorriso scemo, con quella voce da pettirosso, con quei motteggi da bambina e quei silenzi da donna.

L’amava persino in quella posa, l’amava di più persino adesso che se n’era andata e lo aveva lasciato indietro.

Si avvicinò cauto, mordendosi la pelle del palmo: improvvisamente i passi di mesi lo riportavano al punto di partenza. A sanguinare, a punirsi, a smettere di sperare, ad illudersi di voler morire e a non trovare il coraggio per farlo. Quel coraggio che lei aveva avuto, pensò, accarezzandole il viso freddo.

Hermione voltò gli occhi pigramente, guardandolo, non reagendo, non facendo altro, solo guardandolo. Una lacrima singola le rigò la guancia, morì sulle ferite nel collo, bruciò di sale e si spense di dolore sordo.

Tornò tutto: speranza, rabbia, terrore, ansia, angoscia, preoccupazione, rimorso, rimpianto, ricordo. E venne assieme con prepotenza, con astio, con conflitto, con rassegnazione, l’ospite inatteso ormai accettato.

Venne l’amore.

Era viva, stava bene: la poteva salvare ancora.

Controllò approssimativamente l’entità delle ferite: nulla di grave, solo escoriazioni superficiali. La prese in braccio, la sollevò dalla vasca da bagno, la portò in camera da letto. Lei non oppose resistenza, era come un corpo morto. La distese sul letto, lei rimase come una bambola, le labbra socchiuse e gli occhi spalancati, guardando il soffitto. Grondava acqua sul copriletto. Puntò la bacchetta contro i suoi vestiti, li asciugò velocemente. Con delicatezza, prese un asciugamano e le frizionò piano i capelli.

E chi l’avrebbe mai detto che sapeva fare tutte quelle cose.

La sentì starnutire, le mise una coperta sulle spalle. Si stese sul letto accanto a lei, restando nel suo campo visivo cieco, dopo che l’aveva voltata su un fianco. Non fece nulla per ore.

Poi, vennero le lacrime, lente prima, silenziose, quasi impercettibili. Nemmeno cambiava espressione.

Dopo singhiozzò, e le lacrime divennero più forti, implacabili, da rigare il viso. Restava immobile a guardarla, senza toccarla ancora. Nel cuore della notte, il pianto divenne un urlo continuo, un ululato di bestia, una voce spezzata, un rantolo da moribonda. Draco si alzò per spegnere le luci, sperando che dormisse, ma appena fece per muoversi, lei lo fermò trattenendolo dalla manica della camicia, stringendo forte, gemendo, singhiozzando. E la voce tornò tutt’un tratto.

“Draco, l’ho ammazzato io… è colpa mia se è morto…”.

Gli cadde addosso, si chiuse sul suo torace, prese a pugni il suo petto, urlando senza ritegno.

Trattenne il suo impeto, la strinse tra le braccia, non disse nulla, ebbe per tutta la notte un solo pensiero.

Non poteva perderla ancora, non poteva perderla mai.

La pozione per Saint Suliac sarebbe stata una pozione per cancellarle la memoria.

 

Era l’alba quando iniziò a parlare, il sole rendeva cristalli aggrumati i suoi occhi, scoprendone scintille agata. All’inizio, nel rantolio che era diventato il suo respiro, non distinse le sue parole, pensava fosse un mormorio confuso ed annegato nel suo petto. Poi capì che stava parlando, sentì la voce di una che parla adesso ma che tacerà per sempre, dopo. Non avrebbe mai più parlato di quello che le era accaduto, mai più, ma a Draco sarebbe bastato per pensare di spezzare il mondo, per provare a sentirsi giusto, per rinnegare carne e sangue.

Sarebbe bastato persino ad illuderlo che Hermione Granger, nel segreto che gli rivelava, la guancia contro il suo petto, ci mettesse persino amore. Non l’amore che lui aveva per lei, ma quello che aveva per ogni cosa, ma che, in un punto qualsiasi del suo tempo, aveva deciso di dare anche a lui.

Un amore stupido e qualsiasi, che se dato a lui, diventava unico al mondo.

Una corrispondenza d’amore fu quella mattina, l’avrebbe chiamata così, anni dopo.

Lei che si svuotava il cuore dal suo segreto e lui che già immaginava di cancellarglielo dal tempo quel segreto.

 

Qualche giorno prima della battaglia ad Hogwarts, avevo scritto a Ginny.

È stupido, odioso e assolutamente imbecille se ci ripenso, ma le avevo scritto per parlarle delle cose idiote di cui parlavamo quando tutto era normale, tranquillo, sereno. Le cose di cui parlano le ragazze, quelle che non devono affrontare la guerra, quelle che non se ne vanno in giro a distruggere gli Horcrux, quelle che non devono preoccuparsi di morire ogni giorno, o di vedere morire chi amano e poi di morire esse stesse. Era stato un impulso assurdo, da ragazzina viziata e frivola, ma spesso era così forte il desiderio di fare cose… scontate… naturali… mentre il mondo ci marciva in mano, mentre non avevano nessuna certezza che… non cerco giustificazioni, ma non so… ora… adesso…  pensare che non mi lasciavo mai andare a cose così, e poi improvvisamente allora… non so, forse avevo iniziato ad impazzire allora e nemmeno lo sapevo.

Ero a Villa Conchiglia, dopo la fuga da casa tua, e continuavo a pensare che dovevo risolvere la cosa con Ron, che dovevo confessargli che ero innamorata di lui, che il tempo sembrava così sfuggente e ci mancava così tanto dalle mani da farmi temere che sarei morta prima di dirgli la verità, prima di fargli sapere che lo amavo. Eppure, volevo un consiglio da Ginny. Volevo sentirla, parlarle, chiederle aiuto come fanno tutte le diciassettenni della mia età, fu un annebbiamento, ecco.

Scrissi la lettera come un’ossessa, chiedendole consiglio, fregandomene persino che ci potessero rintracciare, avevo negli occhi la felicità da cartolina strappata di Bill e Fleur, avrei dato di tutto per essere felice anche io, così, anche se per pochi giorni, anche se tutto il mondo sarebbe franato nell’inferno per colpa di Voldemort. Mi sarebbero bastati pochi giorni. Era appena morto Dobby, la sua fine mi aveva sconvolto come non so nemmeno io che cosa. Mi sentivo accerchiata dalla morte. Scrissi la lettera in tre minuti, la spedii senza pensare, quando mi ripresi dal lutto nemmeno me ne ricordai, sperai solo per giorni che non l’avessero rintracciata dei Mangiamorte, che potessero capire la nostra posizione.

La lettera giunse a destinazione, miracolo, ma nella mia follia, nella mia pazzia da insensata, avevo mandato la lettera alla Tana, non ad Hogwarts, dove c’era Ginny. E lei non la lesse mai.

La lesse Fred, suo fratello.

Poteva anche lasciarla su un tavolo, non rispondere, aspettare che Ginny tornasse, mandarla a lei.

Ed invece lui mi rispose, dicendomi che per caso aveva letto la lettera, che sembravo distrutta, che forse, anche se lui non era Ginny, poteva darmi aiuto, che ero una sua amica, che non voleva che stessi male, che dovevo stare lucida in quel momento per affrontare quello che stavamo affrontando.

Aveva un tono serio che non gli apparteneva in quelle parole scribacchiate in fretta.

Mi disse che mi avrebbe dato un consiglio non richiesto, che probabilmente non avrei accettato. Ma me l’avrebbe dato comunque.

Scrisse: Hermione, non incaponirti su questa idea di te e lui assieme. L’amore è un’altra cosa.

Scrisse proprio così, Draco, scrisse così, e io non capivo che volesse dire, rilessi quelle parole dieci volte, e non capivo, anche se lui dopo si spiegava, anche se cercava di farmi capire, anche se argomentava, si scusava quasi. Ma restava fedele a quello che diceva, ed io leggevo e non capivo. Diceva che ovviamente, come tutti, mi avrebbe voluto in famiglia, diceva che ovviamente credeva ed era convinto che tra me e Ron c’era un grande affetto ed un forte sentimento, ma diceva anche che non dovevo iniziare una storia con lui solo per paura di perderlo, che il terrore non è mai la base di niente, anche e soprattutto di una storia d’amore. Mi diceva di prendermi tempo, anche se mi sembrava di non averne, perché solo con il tempo avrei capito che non ci amavamo affatto, che era solo affetto, che era solo la gente che ci aveva convinto di questo, che eravamo fratelli e, che per quanto ci sforzassimo, passavamo la vita a volerci cambiare.

L’amore è un’altra cosa, ripeteva.

E poi mi scrisse solo: esci da questa guerra, libera la mente dalla paura, vivi davvero assaporando ogni giorno. E solo allora chiediti se è Ron quello che vuoi, non far soffrire mio fratello. Io lo vedo negli occhi, nei tuoi, che è paura quella che ti lega a lui ed abitudine dell’immagine che hai di voi. Ancora, l’amore è un’altra cosa.

E io mi arrabbiai come  non mai, leggendo quella lettera. La strappai in mille pezzi. Che diamine gli saltava in mente di rispondermi, di dirmi, alla vigilia della battaglia finale? E che ne sapeva lui, che ne capiva lui, che ne poteva sapere lui, egocentrico com’era, non si era innamorato mai, la vita era tutto uno scherzo per lui. Ma non lo era per me, ed io ero sicura di me, sicura di Ron, sicura di tutto, staremmo stati assieme per sempre, se fossimo rimasti in vita e sconfitto Voldemort, la vita sarebbe andata bene e me ne fregavo di Fred Weasley, che mi diceva che l’amore è un’altra cosa e che mi diceva che, in tema di “fare la cosa giusta in tempo” lui voleva dirmi questo da tanto ed adesso ce l’aveva fatta, prima che magari gli accadesse qualcosa. Un calcio negli stinchi gli sarebbe capitato, non appena l’avessi visto, quello pensavo, aveva aperto la mia posta… una sgridata da Ginny, e dalla signora Weasley, e da tutti e da Ron stesso. Quello gli sarebbe successo.

Ed invece, Draco, aveva ragione su tutto, su tutto, e chissà magari uno che è vicino a morire, è già un po’ più lontano e sa le cose che gli altri non sanno, e vede quello che gli altri non vedono, e sente quello che gli altri non sentono. Ha avuto ragione su tutto, su tutto, che era l’ultima volta che poteva parlarmi e che io… e poi… ed io strappai quella lettera, adesso la vorrei rileggere ancora, e forse scoprirei altro… perché non l’ho mai conosciuto bene, perché era una cosa sola con George, perché creavano disastri e mi mettevano in imbarazzo, e creavano disordine e cosa pagherei adesso per quel disordine, Draco, è tutto in ordine nella mia vita, tutto così liscio e lineare che mi viene da vomitare, tutto così piano e perfetto alla Tana che volevo spaccare qualcosa, ed invece manco riesco a parlare, manco riesco a consolare Ron, manco riesco a fare niente, da quella maledetta notte della battaglia di Hogwarts.

Il momento dello scontro finale ci piombò tra capo e collo, prima ancora che ce ne rendessimo conto, fu come trovarsi immersi nell’oceano e non sapere quando si è naufragati, quando la nave è affondata, quando si è persa la scialuppa. Ho sprazzi di quella notte, sprazzi continui. E…ci sei anche tu. La stanza delle Necessità, l’Ardemonio, Tiger che muore, le scope, il diadema di Corvonero, quel liquido nero che vi si addensava. Ci sei anche tu, che sparisci, riappari e che ti salviamo, e al contempo non sei tu, al contempo sei diverso… e sembra quasi un’altra vita, un’altra me, un altro te, un altro mondo. Perché, dentro, in fondo ero pure felice. Ci credi? Poi uno non dice che dovevo essere già impazzita… avevo baciato Ron, forse stavamo assieme, forse fuori da quell’inferno, c’era tutta la vita che mi ero aspettata di volere e forse Fred aveva torto, e forse ce la potevamo fare. E sebbene fossi circondata dalla morte, dall’odio, galleggiavo, Draco, galleggiavo.

Forse per quello capii tutto così poco, così tardi.

Accadde in un attimo, pochi secondi, il tempo si fermò, eravamo fuori dalla Stanza delle Necessità. Tu eri fuggito, c’erano degli scontri, Fred e Percy combattevano. E io li guardavo, ed improvvisamente il mondo tutto galleggiava, fluttuavo, ed ero felice, non avevo controllo dei miei arti e delle mie parole, ma andava bene, ero tutto così caldo, dolce, tiepido, soffice. Tutto era fermo, non si muoveva affatto, il mio respiro durava secoli interi. Avevo sentito una puntura di spillo alla schiena, un contraccolpo nel petto, la perdita quasi di coscienza. Eppure, io che tutti mi chiamano la strega più brillante della mia generazione, pensai solo ad una botta di stanchezza, ad un momento di distrazione mentale, alla felicità assaporata che ormai di Horcrux ne mancava solo uno.

Ed invece era solo un Imperius, dritto nella schiena.

Augustus Rookwood.

Lo avevo visto una volta al Ministero, mi aveva guardato in modo strano, non ci avevo fatto caso. Riconobbi la sua voce nella mia testa, mi apostrofava nella peggiore delle maniere, parlava di una donna, diceva che era morta per colpa nostra, diceva che l’Oscuro signore l’avrebbe vendicata. Non capii nulla. Sentivo solo il suo tono, freddo come una lama ghiacciata.

Capii solo una cosa, la domanda.

La domanda.

La stramaledetta domanda, e la mia voce doveva morire allora, dovevo essere davvero muta,  non parlare mai più, vincere l’Imperius, strapparmi la laringe.

Il mondo fluttuava, fuori erano passati solo tre secondi e Augustus Rookwood mi chiese di salvarne solo uno.

Mi disse, di salvarne uno.

Tra Percy e Fred.

Li avrebbe uccisi entrambi se non avessi risposto, mi disse salvane uno, quello che alla madre mancherebbe di più, riprese a parlare di una donna, Christinine. A lei tutti i figli le hanno tolto. Io ti lascio sceglierne uno. Scegline uno, puttana mezzosangue.

Il mondo galleggiava, io pensavo di sognare e la mia voce disse il nome di Percy, in silenzio.

Dissi il suo nome, Draco, dissi il suo nome, perché credevo che era la mia mente, credevo che la voce fosse solo fumo nelle orecchie, credevo di sognare, e non capivo, ed ero così stanca, così a pezzi, ed era piacevole non pensare, starmene lì in quella gelatina a galleggiare, a non sentire il mio cervello macinare.

Un secondo dopo, intuii tutto. Un secondo dopo. Solo un maledetto secondo troppo tardi.

Ruppi l’Imperius.

Ma l’urlo inutile che mi uscii dalla gola coincise con l’esplosione che ammazzò Fred.

Nessuno mi sentì. Nessuno. Nessuno, Draco.

Il sussurro, Rookwood, l’aveva sentito. L’urlo, Fred, non l’aveva sentito.

Piansi, mi disperai, come tutti: mi convinsi disperatamente che non era stato nulla, forse una premonizione mentale, forse un effetto della stanchezza, forse uno scherzo della mia mente che era stata lucida fin troppo.

 Non avevo visto chi aveva lanciato l’esplosione. Doveva essere un sogno. Rookwood manco c’era, in battaglia.

Voldemort fu sconfitto, la guerra finì, Harry vinse, contammo i morti e vivi, curammo i feriti.

Mi feci curare a mia volta, mi disinfettavano le ferite, mentre piangevo ancora per Fred, ancora sentivo le parole della sua lettera nella testa. Ci vedevo solo l’affetto, adesso, nulla di quel rimprovero presuntuoso che ci avevo visto in un primo momento.

Poi gettai uno sguardo alla parte di tenda occupata dai Mangiamorte catturati.

E nella tenda del pronto soccorso, Rookwood c’era. Rideva, sguaiato, guardandomi.

Mi disse: “Come si vive sapendo che hai scelto? Come si vive sapendo che hai la voce sporca di sangue?”.

Lo presero per pazzo, tutti, mi raccontarono che era diventato Mangiamorte il giorno in cui sua moglie Christinine si era uccisa, dopo che i loro figli erano morti ad Azkaban.

Lo presero per pazzo.

Volli pensare anche io che fosse pazzo, ma non lo era.

Quando capii esattamente che io avevo ucciso Fred, io con la mia voce, io con la mia scelta da innamorata saccente, io che ce l’avevo con lui, io che non mi ero opposta all’Imperius, io che avevo pronunciato quel nome…

…quando capii questo…

Io non fui più in grado di aprire bocca.

 

Fino a quando non sei arrivato tu, a farmi sentire miserabile assieme a te, con te.

E a convincermi che tu, tu solo al mondo, in tutto il mondo, tu il codardo, l’assassino mancato, il reietto…

 

Tu solo fossi in grado di perdonarmi.

 

Fu inutile tutto, a quel punto.

Inutile fu lui, inutile fu lei, inutile fu parlare, inutile fu offendersi, inutile fu dispiacersi, inutile fu piangere, inutile fu consolarla, inutile fu tutto. Inutile.

Dopo quelle parole, oneste, dure, taglienti, Hermione come svuotatasi, cadde in un sonno profondo e febbricitante. Respirava a fatica, la guancia sulla sua clavicola, la fronte bollente. Biascicava lamentandosi, piangeva sommessamente. Se la teneva stretta addosso, asciugandole le lacrime meccanicamente con il dorso della mano. Per ore, finché il sole non salì alto nel cielo, concentrò tutta la sua mente sulla possibilità di cancellarle quel ricordo, non voleva e non poteva pensare ad altro.

Ripeteva le formule delle pozioni nella testa, ricordava quanto l’Oblivion in faccende come queste fosse inaffidabile, perché i ricordi potevano tornare, o non cancellarsi del tutto, o poteva restare un residuo del trauma che si ripercuotesse in gesti, azioni, intenzioni, desideri. E ripetere troppo a lungo l’Oblivion avrebbe comportato seri danni cerebrali. Pensa solo a questo, Draco. Ci voleva una Pozione, potente ma selettiva, che eliminasse completamente quel ricordo, la connessione con la voce, il senso di colpa, ogni memoria connessa. Ha la febbre e piange ancora, brucia la mia pelle come se fosse fuoco. E se ce l’avesse fatta, avrebbe avuto Saint Suliac ad un passo, premiavano quelle pozioni e sapeva che non esisteva nulla ancora del genere, ce l’avrebbe fatta. La perdo, si ammazza, se fallisco, non sopravvivrà a lungo con questo segreto dentro. Calendula, doveva essere la base, e poi che altro? Assenzio o loto? Ambra grigia, forse? La perdo, sì, la prossima volta la trovo morta, la prossima volta non si salva, la prossima volta se ne va all’altro mondo e si perdona le sue colpe. Forse doveva sobbollire per un ciclo lunare… o magari catalizzare la luce del sole, chissà quale delle due fonti è più potente, a lei non poteva chiederlo, non poteva saperlo che sarebbe stata la sua cavia. Se non ci riesco mi muore tra le braccia la prossima volta. O magari basta solo la luce dell’alba, non vuole che rischi di rovinarle la mente. Non voglio che rischi più nulla, mai più nella vita. Non vuole che rischi più nulla nella vita.

E d’improvviso, strinse i pugni, esplose la rabbia, la tenne sotto controllo il peso di lei tra le braccia.

Voleva uccidere Rookwood, voleva ammazzare Potter e Weasley che non si erano accorti di nulla, voleva assassinare quel suo sé stesso che le diede le spalle ed andò via.

Per rimandare indietro quel solo istante, avrebbe volentieri sacrificato tutto, compreso sé stesso; avrebbe ucciso lui Fred Weasley per liberare lei da quel peso crudele.

Lo sconvolse che, per la prima volta, davvero, era convinto che avesse perso la guerra quella che era la parte che avrebbe dovuto perderla: prima di lei, se ne fregava.

Prima di lei, non ricordava chi era alla battaglia di Hogwarts, ricordava paura e sudore, Tiger che muore e sua madre che lo stringe. Si ricordava spavaldo come una tigre e sfuggente come un serpente, non debole come il gattino che aveva dipinto lei nei suoi ricordi, sincera, fiera, non preoccupata di toccarlo e ferirlo. Ed adesso era chiaro perché stava con lui: si sentiva sporcata, lercia, indegna. Solo uno come lei, poteva accettarla.

Per quello parlava con lui, per quello stava con lui, per quello aveva detto tutto a lui.

Ed andava bene, lui era egoista, andava bene averla anche in quel modo… ma non l’avrebbe avuta ancora per molto, ne era certo. Sicuro, convinto, impagabilmente consapevole.

Lei non era come lui, anche se fingeva di esserlo: ne sarebbe morta.

E se la sua memoria era l’arma, la pistola puntata alla sua gola… Draco gliela avrebbe cancellata pezzo per pezzo. Le mani che la stringevano, tremarono, chiudendosi sulla sua vita.

A costo di cancellare anche me stesso dalla sua memoria.

 

 

La Granger, dopo il 1° aprile, la data del compleanno di Fred Weasley, per cui c’era stata una commemorazione solenne in Sala Grande, ebbe una lunghissima influenza che durò ben tre settimane.

La febbre non accennava mai a scendere, restava sempre sopra i 38 gradi, nonostante tutte le cure del caso e l’assunzione delle più varie delle Pozioni: molti Medimaghi, ormai, se sentivano parlare di quella ragazzina o venivano ad essere convocati e consultati, provavano l’amaro calice della frustrazione dato che Hermione Granger sembrava immune a qualsiasi genere di rimedio scientifico e medico.

La cosa era iniziata con la voce, ed adesso proseguiva con qualsiasi genere di disturbo potesse accusare.

Ad Hogwarts vennero anche i suoi genitori, vogliosi di ricoverarla in ospedale, ma fu sconsigliato di spostarla da lì per evitare che la febbre salisse ancora: nonostante tutto, Hermione restava comunque vigile, attenta, gli occhi sgranati e lucidi, chiedendo di essere aggiornata sui compiti ed ammettendo frequenti visite alla sua stanza. Ginny Weasley fu la prima ad accorgersi che Hermione, quando veniva aperta la porta della sua stanza, sobbalzava, si voltava bruscamente, cercava con affanno qualcuno e puntualmente si afflosciava come un ramo appassito, quando constatava di chi si trattava. Dopo qualche secondo di smarrimento, ovviamente, riassumeva un cipiglio normale, ostentando un sorriso che non le arrivava agli occhi e ringraziando il visitatore con occhi dolci e tristi.

Ginny, il 25 di aprile, stava per chiederle nervosamente chi diamine aspettasse, augurandosi che lei mimasse il nome di suo fratello Ron: reggendo una scatola di cupcakes, entrò nella stanza pronta a formulare la domanda che non aveva voluto farle fino ad allora, dato l’impermeabilità che lei aveva sviluppato ad ogni tipo di quesito. Hermione, però, quel giorno, la accolse con un sorriso diverso, aperto, chiaro, quasi simile a quello che aveva una vita fa. Gli occhi erano più vivi del solito, il colorito era meno terreo e le labbra erano rosse di salute. Deglutendo pesantemente, sforzandosi, chiudendo gli occhi, biascicò anche un incerto: “Ciao Ginny”.

Erano le prime parole che le rivolgeva dalla fine della guerra. Ginny pianse, lasciò cadere a terra la scatola dei cupcakes e corse ad abbracciarla, constatando nell’abbraccio che lei le restituì un calore che non aveva nulla a che fare con la febbre. Hermione non disse altro per l’intera mattina, ma a Ginny quel saluto goffo parve già il sole nel cuore per mille anni.

La felicità rende ciechi, sordi, muti e stupidi.

Ginny Weasley non si chiese e non chiese che cosa fosse cambiato quella mattina, che cosa era accaduto ad Hermione se la sera prima era invece la solita parodia della morte incarnata, non chiese che cosa le era successo. Probabilmente comunque non avrebbe avuto risposta, ma non ci pensò neanche a chiederlo.

Draco Malfoy era successo.  

La notte prima, dopo ventiquattro giorni in cui non si era fatto vedere, era sgattaiolato di nascosto nella sua camera, trovandola sveglia come se lo stesse aspettando. Draco era impallidito nel vederla, sebbene la stanza fosse al buio ad eccezione della piccola luce sul comodino: era così magra, la sua pelle ormai era trasparente e respirava a fatica. I suoi capelli erano opachi e le sue palpebre erano violacee. Ma comunque, nonostante tutto, Hermione gli aveva sorriso, si era tirata bruscamente su a sedere ed aveva allungato le braccia come una bambina che voleva essere presa in braccio. La forza, tutta quella che sembrava evaporata dal suo viso, le era tornata mentre gli era quasi saltata addosso, stringendolo tra le braccia. La voce, quella che nessuno conosceva più, aveva asserito convinta: “Pensavo di non vederti mai più…”.

Draco aveva chiuso gli occhi, restando con le mani poggiate sui suoi fianchi senza approfondire l’abbraccio, senza concentrarsi sul profumo smorto che la febbre sembrava portarle via, senza badare al peso piuma che era diventata e senza focalizzarsi sul suo tono di voce, meno argentino del solito. Con sicurezza, aveva biascicato severamente: “E meno male che ti avevo detto che non potevo venire che avevo molto da studiare…”. Hermione non se la prese, rise invece, si staccò da lui studiando il suo viso come una madre che esamina il figlio, dopo una lunga separazione: negli occhi attenti di lei, Draco vide subito che si sarebbe accorta di tutto, avrebbe visto perché effettivamente le era stato lontano per tanto tempo, avrebbe letto nelle occhiaie profonde le nottate passate ad elaborare la pozione, avrebbe visto nella trama ramificata delle vene la soddisfazione acre del successo, avrebbe colto nelle rughe dell’espressione il dolore lacerante di capire che la pozione avrebbe cancellato ogni ricordo che lei aveva di lui, avrebbe scorto nel tremore delle palpebre l’impossibilità di trovare un’altra strada dato che la loro frequentazione si collegava direttamente alla perdita della voce, a sua volta legata a doppio filo alla morte di Fred Weasley e al ruolo di lei nella vicenda.

Quello che, però, Draco temeva più di tutto è che lei leggesse nella pelle pulsante del collo il battere convulso del cuore: non aveva bisogno di ulteriori motivi per esitare, non aveva bisogno che si accorgesse di quanto fosse diventata scevra dall’essergli indifferente, non aveva necessità che lei capisse che, sebbene tutto nel corpo andasse contro quella decisione, aveva già deciso di sfidare la memoria che Hermione aveva di lui.

Mi conosci e ricordi come codardo, vile, egoista, doppiogiochista, assassino mancato?

Mi sei stata vicina per mesi solo per questo, godendo del mio essere bieco e giocando a trasformarmi come una fatina delle fiabe?

Ebbene Hermione Granger, ti dimostrerò che non sono questo, dannata mocciosa saccente: ti darò quella pozione, ti cancellerò la memoria e rinuncerò a te come il più imbecille dei Weasley e il più nobile dei Potter.

Tu non lo saprai… ma io sì. E farà tutta la differenza del mondo, la prossima volta che mi guarderai e finalmente, senza che nulla tremi in te, o scricchioli, o ti faccia sentire sporca, ti sentirò insultarmi o dire agli altri di ignorarmi.

Sarà la tua voce, di nuovo, pulita, senza ombra di colpa: parlerai come ami farlo, senza che niente da dentro ti punisca per essere viva o per aver scelto, costretta.

Sarai di nuovo tu, quella che mi odia convinta e non mi amerà mai consapevole.

Ora non sei tu, questa non sei tu: questa creatura dolcissima che esita, che mi abbraccia, che mi parla, che ha le ossa di vetro, il cuore di carta, il respiro di nuvola e la voce di passero. Questa non sei tu. Non sei mai stata tu.  E se tra me e te c’è un assassino, quella non sei tu… sono io, che ammazzerò questa donna che mi fa perdere il sonno, facendo tornare quella che me lo toglierà solo con la somiglianza con quella che amo. E finirà tutto, questo dolore dentro, questa rabbia dentro, questa vergogna dentro, questo rimorso dentro, e questo amore dentro.

Perché tu non sarai più questa che mi scruta negli occhi e che vado a trovare di notte, temendo di abbracciare per il terrore di non poterla lasciare più. Ed io non sarò più quello che aspetti sveglia, dicendo che temevi di non vedere più.

Non siamo mai stati noi…

Questi non siamo noi: siamo solo due miseri relitti che ci diamo alle dicerie negligenti di quello che siamo davvero.

Abbiamo solo trenta giorni, per vivere vestiti di questi panni non nostri: trenta giorni, e la pozione sarà pronta.

Trenta giorni di vita strappata, al tempo vero ed autentico.

Trenta giorni di esistenza senza nome, per poi voltarci indietro e non saperci più riconoscere.

Trenta giorni per arrivare tra trent’anni a salutarci con un cenno del capo, un sorriso nervoso e nessuna altra parola.

Trenta giorni per dimenticarci entrambi chi siamo adesso.

Tu dimenticherai con una pozione.

Io dimenticherò circondandomi di voci che parlano in francese, a Saint Suliac, e che mai mi ricorderanno te.

Mai nessuno al mondo mi ricorderà te.

 

 

In tre mesi, l’effetto della pozione poteva sparire: nei suoi studi, a soli cinque giorni, dal completamento della pozione, Draco notò con sgomento che in tre mesi, i ricordi potevano tornare.

Un ruggito di egoismo sconquassò il suo ventre, ma nella sua testa e nel suo cuore Draco trovò facilmente la soluzione. L’opale, la pietra magica più potente tra tutte, racchiude il potere di tutti gli elementi e le loro rispettive caratteristiche: l’energia e la forza del Fuoco; la prosperità, la pace e il benessere della Terra; l’intuizione, le emozioni e la sensibilità dell’Acqua; la comunicazione e la creatività dell’Aria.

Era spesso usata come sigillo di incantesimi e pozioni dagli effetti durevoli.

Bastava imporre alla Granger di indossarlo per un paio di mesi, così che l’effetto fosse permanente: fece arrivare da casa sua un anello con un opale latteo rotondo che sua madre indossava quando era ragazza e che per fortuna non era stato confiscato dal Ministero. Lo incantò, affinché non si sfilasse per un tempo corrispondente a cento giorni, e pianificò di collegare la pozione alla falsa memoria che Hermione avesse ricevuto quell’anello come regalo da qualcuno, che le aveva pregato di tenerlo come portafortuna.

Nelle settimane, Hermione si era ripresa, la febbre era finalmente passata ed aveva ripreso a mangiare e a dormire regolarmente: all’inizio di maggio tornò a lezione e riprese a studiare come un’ossessa in vista degli esami. Ovviamente anche da pseudo-muta, Hermione doveva pretendere da tutti il massimo dell’impegno possibile nello studio, anche se era meno efficace non parlando; questo la portava invariabilmente a sfogare tutte le sue tensioni da maestrina repressa su Draco Malfoy, visto anche che doveva prendere il massimo dei voti per essere ammesso a Saint Suliac. Lui bofonchiava molto più del solito, studiando pigramente e senza volontà, aveva già una media alta, l’ammissione era scontata.

Hermione notò che era diventato ancora più chiuso, taciturno e tendente alla risposta acida, ma ovviamente credeva che fosse la preoccupazione per Saint Suliac, considerando anche che inopportunamente aveva scoperto orgoglio e presunzione nei giorni passati, sostenendo che aveva già creato la pozione per l’ammissione, che non c’era bisogno che la vedesse, che era quasi pronta e funzionava perfettamente.

E se Hermione si azzardava a chiedere: “E che cosa cura?”,  lui roteava gli occhi e blaterava che era seccante.

Draco aveva deciso di vivere quei giorni con leggerezza, distacco e rassegnazione: ma non era possibile. Scopriva troppo di lei e troppo poco ancora sapeva. C’era sempre una sfumatura nuova degli occhi, un sorriso associato ad un particolare sentimento e che adesso riconosceva, un ricordo inedito che lei condivideva, un’abitudine assurda alimentare che gli faceva storcere il naso, un sogno nuovo che le fioriva in viso, un tremore appena accennato che lei inventava adesso: ed al contempo c’era sempre il silenzio autoimposto al di fuori di quella stanza, le spalle incassate quando in classe si parlava della guerra, le lacrime sbocciate in un momento qualunque per una qualunque associazione d’idee, le urla quando provava a convincerla che non era stata colpa sua la morte di Fred, gli episodi comunque frequenti di graffi autoinflitti e di ferite autoinferte, i momenti in cui si svuotava di forze ed energie ed assomigliava ad un cadavere.

E in quei momenti Draco lottava con tutte le sue forze contro la voglia di trattenerla accanto a sé, e ricordava quando l’aveva trovata in quella vasca da bagno: un altro episodio, più forte, e sarebbe morta, ne era certo.

La battaglia dentro di lui, si esaurì il giorno prima dell’inizio degli esami: il 25 di maggio, la pozione fu pronta, l’opale era stato incantato ed Hermione Granger qualche ora prima aveva ripreso a negare febbrilmente come qualche mese prima, la testa tra le braccia, proprio qualche istante dopo che Draco avesse seriamente vacillato nella sua convinzione, decidendo di parlare con la Mc Granitt per chiedere consiglio.

E se era arrivato a quel punto, vuol dire che era seriamente disperato: però poi l’aveva incontrata, l’aveva vista in quello stato, la paura di perderla gli aveva di nuovo soffocato il cervello ed aveva deciso infine di terminare quello che aveva iniziato.

Aveva staccato le mani dai capelli di Hermione, l’aveva stretta per i polsi e le aveva sussurrato: “Ci vieni stasera in un posto assieme a me?”. Il volto sudato, i capelli attaccati al collo, Hermione sospirò un sì.

Sarebbe stata l’ultima sera in cui avrebbe ricordato Draco Malfoy.

 

Venne all’appuntamento vestita di bianco, come una sposa.

Gli mancò il fiato guardandola, mentre camminava piano nella sua direzione, improvvisamente donna, improvvisamente bellissima, improvvisamente somma di tutto quello che aveva sempre desiderato e mai avuto. Non aveva organizzato nulla di speciale, le aveva solo detto di venire alla Torre d’Astronomia, avrebbero volato un po’ e poi si sarebbero fermati da qualche parte, dove le avrebbe dato in qualche modo la pozione. Non era preparato a quello, si era vestito normalmente, senza particolare cura: una camicia azzurra che gli stava anche un po’ stretta, ed un paio di jeans. Aveva i capelli biondi persino un po’ bagnati dalla doccia che gli davano l’aria di un pulcino sperso: non era assolutamente predisposto per quello.

Sebbene avesse ammesso a sé stesso di essere innamorato di quella ragazza, non aveva contemplato le fasi normali di un corteggiamento e di una relazione ordinaria con una coetanea: era stato tutto curva, galleria, dosso in una strada sterrata e senza direzione precostituita. Quindi, nessun appuntamento, nessun complimento, nessun tentativo imbranato di prenderla per mano… niente. E poi del resto manco stavano assieme, e manco forse una parte di lui ci voleva stare davvero: il bello di quella situazione, di quella sera da condanna a morte, era che tutto sarebbe annegato nel mare del “poteva essere e non fu”. Non avrebbe dovuto dirle nulla, aspettarsi una risposta, seppellire l’orgoglio ed affrontare un rifiuto, o affrontare anche un sì, che forse sarebbe stato peggio. Non era lui quello per lei. Non era lei quello per lui.

Però Hermione Granger, quella sera, ruppe ogni regola non scritta tra lei e lui: chissà a che ha pensato, si chiedeva Draco vedendola camminare al rallentatore nella sua testa, la salivazione annientata e il cuore in gola. Chissà cosa ci aveva visto in quella serata, in quell’invito: magari solo una delle ultime occasioni per stare con un amico imprevisto, cosa che doveva essere festeggiata. In fondo, mancava poco al diploma, lui sarebbe andato a Saint Suliac e lei altrove, probabilmente non si sarebbero rivisti mai più.

Magari era questo… o magari, e Draco lo capiva ad ogni passo, Hermione Granger era una perfida strega ammaliatrice, che oggi gli donava sé stessa, ammonendolo che non la poteva avere.

Perché d’improvviso, Draco ne scopriva malizia ed accortezza femminile da maldestra ammaliatrice. Il vestito ne fasciava il corpo nei punti giusti, stringendo sotto il seno ed allargandosi sui fianchi, e lui ne immaginava ogni ombra e luce con una chiarezza mai raggiunta prima: perché sì, ok, se ne era innamorato, ma se ne era innamorato in quella maniera quasi asessuata dei bambini. La adorava, adorava tutto di lei, come si adora una giornata di sole d’inverno, in modo fideistico ed asettico: e d’accordo, aveva quelle pulsioni fisiche vedendole, ma erano diventate rare, scomode, evitabili, considerando che la vedeva sempre come una bambola di velluto da non pensare nemmeno di immaginare di toccare.

Adesso scopriva il sangue di quell’amore marcio: ed era un sangue di fiamma, di tormento, di possesso, di fantasia incomparabilmente guasta di pensarla con un altro domani, oggi, ieri. Sudava freddo, e lei camminava ancora, leggiadra come una piuma, come mai era stata: ed immaginava in rapida successione lui che le toglieva quel vestito, un altro che le toglieva quel vestito, e poi ancora lui, e di nuovo un altro senza nome, e poi Weasley, e poi ancora lui. Ed aveva bisogno di saperla sua, di saperla per sempre sua, di averla almeno quella notte per sé, tutta per sé, perché era la sera dell’addio e lei a suo modo lo sapeva, perché si era anche truccata e il marrone sulle palpebre esaltava l’oro delle iridi, perché aveva steso un rossetto rosa sulle labbra e le dischiudeva appena salutandolo, perché le tremava la voce e si stringeva nelle spalle, perché il cedro e la vaniglia erano aria e vento e lui ci respirava dentro, e ci respirava in mezzo, e non poteva fare altro.

Tanto domani tu non ti ricorderai niente di tutto questo. Io sì, io per sempre… ma quello sarà un problema solo mio, e sarà un problema solo domani. Non stasera, non adesso, non ora.

La prese per mano con l’improvvisa consapevolezza che poteva essere l’ultima volta, e ne saggiò sotto i polpastrelli ogni insenatura, ogni incastro, ogni piega che rendeva la sua mano in quel modo piuttosto che in un altro. Hermione si accorse subito della differenza, tremò e rabbrividì piano, intrecciò le dita con le sue.

Lei salì sulla scopa, mettendosi davanti a lui, mentre Draco con un movimento sicuro sfrecciò in volo nella notte che profumava di magnolia e di gelsomino. Abbandonata, nel chiarore della luna nascente, Hermione poggiò la testa contro il suo petto: nel vento che li avvolgeva freschi entrambi Draco poggiò il mento sulla sua spalla, lasciando che Hermione sorridesse e se ne stesse con la guancia premuta sulla sua. Il silenzio, che era sempre stato un ospite scomodo da evitare ad ogni costo e da riempire dal pensiero che tra loro fosse diverso, divenne una coperta morbida e calda sulle spalle: dentro quel tacere c’erano centinaia di parole soffuse e sussurrate, che nessuno dei due poteva dire. Le luci a grappolo dei paesi di montagna li salutavano divertiti, mentre il castello si allontanava e le stelle si avvicinavano: Hermione si ritrovò prima di accorgersene ad allungare la mano, quasi come illusa che fossero vicine sul serio, poi scosse la testa imbarazzata e sussurrò: “Che stupida…”.

“Sei tante cose Hermione Granger… tantissime… ma non sei stupida…”.

Sorrise lei felice e sussurrò solo: “Grazie…”, restando però immobile, ferma, improvvisamente vigile. Se avesse voltato la testa anche solo di un centimetro, avrebbe urtato contro il viso di Draco, lo sguardo perso e sconvolto fisso sul suo volto. In ogni sillaba di quel ringraziamento, lei ci aveva messo tutto quello che pensava e sentiva, Draco se ne era accorto, le guance le erano diventate rosse e calde, era arrossita.

Rimase rossa in viso mentre sussurrava: “Se vieni ammesso a Saint Suliac… e credimi, lo spero con tutta me stessa… tornerai mai in Inghilterra?”. La sorpresa di Draco fu tale che la scopa gli vibrò tra le mani, Hermione sobbalzò e si spaventò leggermente finché non tornò dritta. La gola di Draco si chiuse dandogli la sensazione di annaspare, mentre pensava seriamente a che cosa rispondere a quella domanda. Poteva mentire, certo, tanto chi se ne fregava, lei avrebbe scordato tutto il giorno dopo. O poteva essere sincero, rispondere a quella che adesso gli stava tra le braccia e che aveva le ore contate, ma che adesso era ancora lì.

Essere al contempo onesto e bugiardo comportò solo che confuse nel vento sibilante un frettoloso e sussurrato: “Non lo so…”. Hermione si staccò dalla sua guancia, lo guardò confusa, improvvisamente distante. Negli occhi, nebbiosi e vitrei, Draco distinse subito la vera domanda che aveva in serbo. Torneresti per me?

Ed era a quella che Draco non sapeva che rispondere: onestamente l’Inghilterra da madre ed amica, era diventata matrigna e megera. Non aveva alcun legame che lo tenesse lì e quei pochi che ancora esistevano, si sarebbero allentati alla partenza per Saint Suliac, qualora tutto fosse andato bene. E se poi tutto fosse andato male, avrebbe probabilmente chiesto al Ministero di andarsene in America dai suoi. O da qualche altra parte.

Hermione era il solo legame: la sola, l’unica ancora che lo tenesse attraccato a quel paese.

Ma era un legame di farina e nebbia, comunque la si vedesse: ammesso che non ci fosse la risoluzione di cemento di cancellarle la memoria ed ammesso anche che non le fosse accaduto quello che le era successo e che attentava costantemente alla sua esistenza, ammesso anche che lei accettasse di restargli amica… come sarebbe continuata? Non sarebbe continuata, ecco. Vallo a spiegare al resto del mondo che erano amici, non ti azzardare nemmeno a raccontare che te ne sei innamorato, vai ad immaginare il sabato sera con Potter e Weasley che lo guardano inaciditi, vai poi a chiederti davvero se sta ancora con Ronald e perché non lo nomina mai, ma sicuramente non è fuori dalla sua vita. Mettiamo anche che non esista la questione della voce e tutto il resto, immaginala senza alcun trauma, senza alcun problema, felice e libera, ma amica sua.

Cosa sarebbe diventato tutto quello? Un paio di chiamate all’anno, una lettera dove annunciava che aveva trovato lavoro, un invito scritto di fretta per quando si sarebbe sposata, un tavolo in fondo alla sala con cugine che non conosceva, un saluto al binario nove e tre quarti mentre due mocciosi con i capelli rossi e i suoi occhi la chiamano mamma. E Draco, in quell’estasi capovolta di innamorarsi altruista, voleva persino tutto quello per lei, tutto, tranne forse i figli con i capelli rossi… ma solo, non voleva starci lì a subirsi e sorbirsi tutto quello, pure nel fango melenso di volerla semplicemente vedere. Diamine, non è che fosse diventato un rincoglionito mentale: se la sarebbe scordata in qualche modo, non avrebbe vissuto lo stillicidio di vederla e non averla, parlarle e non sentirla, sfiorarla e non toccarla.

E poi… ancora… il problema non si poneva: tra poche ore, Hermione Granger non avrebbe nemmeno saputo che aveva desiderato che tornasse per lei. Quindi, essere sincero ed essere bugiardo era dire solo: “Non lo so”.

Hermione, a quella risposta, però, si irrigidì, divenne una statua di sale, iniziò a guardare con ansia crescente il suolo, i piedi che smaniavano per correre via: restava seduta come una principessa a cavallo, con la schiena dritta, le braccia rigide, gli occhi fissi davanti a sé. Ammantò il suo respiro di silenzio per una mezz’ora buona, prima di borbottare sconfitta: “Puoi scendere a terra adesso?”.

L’orologio di quella fiaba aveva iniziato a rintoccare prima di quanto si aspettasse: Draco scese di quota sospirando ed atterrò sul tetto quadrangolare di un edificio abbandonato alla periferia di Hogsmeade. Era una vecchia serra, ormai non più utilizzata, i rovi coprivano gran parte della facciata. Tra le spine, inossidabili, spuntavano minuscoli fiori color glicine dalla corolla aperta. Avevano un profumo struggente da estate appena iniziata.

Hermione scese dalla scopa con un balzo, fece qualche passo dandogli le spalle e restò immobile contro l’orizzonte a guardare il cielo che, d’improvviso, si era addensato di nubi pesanti e fitte. Lontano, risuonò l’eco sordo di un tuono che la fece rabbrividire, mentre si strofinava le mani sulle braccia per riscaldarsi. Draco lasciò cadere la scopa sulle tegole rosse della serra e, stanchissimo, si sedette a gambe incrociate, le braccia distese dietro di sé e l’espressione scavata come se avesse dodicimila anni. Il temporale si avvicinò rapido, le nuvole iniziarono a rombare sorde e la pioggia iniziò a cadere a scrosci pesanti.

Nessuno dei due diede segno di essersene accorto: era la notte dell’addio, in un modo netto ormai lo sapeva anche lei. Si tirava indietro i capelli con la mano, zuppi le aderivano sulla schiena e sul collo, piangeva in silenzio senza farsene accorgere e non faceva un passo per paura di rompere qualcosa che per miracolo stava ancora in piedi. Draco si ritrovò a guardare la sua schiena tremare e a pensare che se, d’improvviso, faceva così male stare dentro quell’istante, se faceva così male anche a lei… magari doveva lasciar perdere. Magari doveva lasciar cadere la boccetta di quella pozione che aveva in mano e lasciare che il destino si compisse da solo. Magari doveva avere fede in lei, fiducia in sé, magari doveva solo stringerla e basta, baciarla e basta, amarla e basta… si alzò in piedi, i pugni chiusi, affranto, distrutto, sconquassato. L’acqua scivolava lungo il suo collo e non sapeva se aveva freddo per quello, o per il contrasto con il calore sordo che gli esplodeva a fiotti regolari dentro lo stomaco. La boccetta della pozione si reggeva alla sua mano bagnata e sudata con un istinto di conservazione che era l’ultimo vessillo della decisione di incantarla e che Draco preservava nel suo cuore: un vessillo di un esercito sconfitto, perché era troppo bella lei, era troppo vicina lei, era troppo già lontana lei, ed era troppo anche solo immaginare che nell’oceano del male che provava, il distacco da lui fosse solo anche solo una goccia di rugiada. Fece un passo, deciso, sicuro, pronto a gettare via la pozione.

E poi lei, sempre terrorizzata dal silenzio, desiderosa solo di romperlo, stanca di rifugiarsi in esso, aprì la bocca con un sorriso, dandogli le spalle. E disse la cosa sbagliata.

“Almeno quando te ne andrai, nessuno mi rimprovererà più perché parlo troppo…”.

Gelò come se affogasse, si aggrappò alla sola cosa tangibile: la boccetta della pozione. Hermione l’aveva detto con una risata in gola, ma una risata amara e cieca, di quelle ineluttabili di chi accetta un copione già scritto.

Se ne sarebbe andato lui… e lei non avrebbe parlato più. Sarebbe rimasta per sempre nel miasma del silenzio, non aveva intenzione di fare nulla, assolutamente niente, per cambiare tutto questo. Ed anche se lui fosse rimasto, anche se fosse restato, anche se non se ne fosse andato… si sarebbe accontentata di parlare con lui e basta. Ed allora, pensò Draco stringendo i pugni e la pozione, chi se ne frega se mi ama o meno, chi se ne frega se la ho una notte o meno, chi se ne frega se resta solo mia amica o meno, chi se ne frega di tutto, se sarà per sempre questa ombra pronta a scomparire da un momento all’altro? Chi se ne frega di tutto, se non vuole lottare mai più? Chi se ne frega di questa pavida bambina sterile, che vivrà per sempre nei suoi fantasmi?

La rabbia crebbe come un fuoco d’artificio, rombò nel cielo e scoppiò tutt’attorno, mentre Draco Malfoy si accorgeva con un livore inedito da selvaggio, che la voleva uccidere questa Hermione Granger.

Voleva indietro la vecchia Hermione Granger, quella con la voce da falco, lo spirito da guerriera e la battuta pronta: e sebbene la odiasse, sebbene avesse sempre detto di odiare quella ed amare questa… improvvisamente capiva che erano la stessa faccia della stessa persona. E le amava ed odiava entrambe.

La vecchia Granger, ogni tanto, era filtrata e l’aveva scorta e vista: nelle risposte ironiche, nei motteggi silenziosi, nella saccenza presuntuosa, nella curiosità attenta… ma ben presto lei l’avrebbe lasciata morire.

Ed allora chi se ne fregava averla accanto, se la vera sé stessa se ne era andata all’altro mondo? Era questa sé stessa che doveva crepare, adesso… e chi se ne fregava se l’altra non l’avrebbe voluto mai, chi se ne fregava.

Bastava che tornasse. Bastava solo che tornasse.

Rapido, incollerito, furioso come il cielo che continuava a rovesciare pioggia su di loro, calcolò mentalmente che la pozione era venuta su così potente, che sarebbero bastate poche gocce. E trovò il modo perfetto per dargliela, così da assecondare anche sé stesso, per una volta, in quella stramaledetta storia.

Se ne bagnò le labbra, si avvicinò e la costrinse a voltarsi, afferrandola per una spalla. Hermione si ribellò leggermente ma restò immobile quando Draco, tenendola per la nuca, la obbligò a baciarlo. Sebbene la rabbia e il livore, non poté fare a meno di concentrarsi sul calore morbido della sua bocca, sul sapore dolce che aveva, solo leggermente contaminato dall’acre della pozione che le stava scivolando in gola. La mano la teneva stretta possessivamente, giocando con i riccioli dei suoi capelli, mentre premeva e basta sulla sua bocca, non concedendo né a sé stesso, né a lei, una qualsivoglia tipologia di reazione, come se la volesse soffocare. Hermione era vinta dalla violenza dolcissima di quel bacio, restava ferma, immobile, un braccio sollevato ed incerto, sospeso tra il desiderio di attirarlo più vicino  e la voglia di scacciarlo lontano.

La pioggia cadeva forte su di loro, la notte era diventata pesante come un macigno: quando negli occhi aperti di lei, spalancati come quelli di un cucciolo, Draco distinse un’ombreggiatura color argento, sintomo che la pozione le era entrata nel corpo, si staccò da lei bruscamente e la guardò incattivito, gli occhi grigi due lame appuntite, mentre la tratteneva per le braccia. Hermione, rossa in viso, aprì bocca per travolgerlo con un fiume di parole, ma non riuscì a proseguire.

Draco la interruppe e con astio, le rivolse quelle che voleva che fossero le sue ultime parole: Hermione le ascoltò sgomenta, atterrita, terrorizzata e spaventata assieme, poi grata, riconoscente, dimentica del resto, infine emozionata, sconfitta e vinta. Draco avrebbe voluto che le restassero dentro per sempre, anche se sapeva che non era possibile, anche se sapeva che la pozione avrebbe cancellato anche quegli ultimi tre minuti. Bastarono solo tre minuti: ed Hermione Granger gli cadde tra le braccia, addormentata, un sospiro doloroso negli occhi ed un opale incastrato al dito.

Quella notte, nel suo letto, avrebbe sognato una voce che le parlava arrabbiata, ma che le sembrava dolce come miele in quella rabbia: avrebbe sognato delle parole nette e precise, che al risveglio non avrebbe ricordato. Avrebbe sognato Draco Malfoy, ma non l’avrebbe ricordato.

 

 

Tra tre minuti, tra tre stramaledettissimi minuti, tu non ti ricorderai più niente di tutto questo, Hermione Granger.

Non ti ricorderai di me, di quest’anno malato, di Fred Weasley e della punizione che hai inflitto alla tua voce per averlo condannato. Non ti ricorderai più di niente di tutto questo. E cerca anche di vomitare, di rimettere, di fare quello che vuoi, se lo vuoi, ma sai meglio di me che era la sola strada, la sola via, il solo modo per farti tornare te stessa. Che cosa diamine dovevo fare io, Granger? Aspettare di trovarti morta? Aspettare che non parlassi più? Aspettare che parlassi per sempre e solo con me, ed aspettare il giorno in cui nemmeno un germe di quella che eri potesse emergere? No, dimmelo tu che cosa dovrei fare, adesso, dimmelo tu, maledetta strega, dimmelo, perché sei tu l’eroina, sei tu la buona, sei tu la dea, la vittima, l’agnello sacrificale, e io sono il serpente, il male, il codardo, l’assassino. Dimmelo, dai, dimmelo adesso che cosa dovevo fare.

Io, quella Granger che eri, la odio: sempre presuntuosa, sempre sul tetto del mondo, sempre convinta di avere ragione, sempre ad una spanna da me e dal mondo tutto. Ma è quella che sei davvero. È la tua anima e tutto quello che ci sta attorno. E sai cosa, forse in quest’anno, ho persino capito che non la odio davvero: della te stessa instabile e fragile che sei diventata ho adorato che la potessi proteggere, che io solo la potessi salvare, che mi concedesse respiro ed asilo, che mi stesse accanto, che fosse dolce come un frutto che non mi è mai stato dato di cogliere… ma quella non sei tu, o almeno non sei solo tu. Tu sei anche l’altra, quella che odio… ma che forse non ho odiato mai, che forse aspettavo solo di avere accanto agli occhi per innamorarmene come mi sono innamorato di te. Ed è inutile che fai quella faccia, ed è inutile persino che pensi a come reagire, è inutile persino che provi a dissimulare quello che senti davvero… non mi interessa Granger, mettitelo in testa. Se ti amo, è un problema mio, e non tuo. Se ti amo tutta, se amo pure quella dannata rompipalle che sei… anche quello è un problema mio. Se ho scoperto, oggi, adesso, in quest’istante, che la tua te stessa che è un derelitto mi ha permesso di avvicinarmi a te senza sconti e pregiudizi, ma che è l’altra che amo davvero, che amo di più , che amo odiare e che odio amare… questo è un problema mio. Tu non ricorderai nulla domani.

Ma io sì, io domani me lo ricorderò tutto questo momento. Ed adesso in questa mia follia da essere altruista, concedimi ancora due minuti per essere egoista e sputartelo in faccia quello che penso di te.

Weasley non è morto per colpa tua, sarebbe morto comunque, perché io i Mangiamorte li conosco Granger e non hanno alcun genere di morale confusa che avete voi, i buoni, i santi. Se Rookwood voleva uccidere qualcuno, lo avrebbe fatto, indipendentemente da che cosa rispondessi tu, dannata stupida. Se non avessi risposto, avrebbe ucciso te e tu magari, idiota come sei, te lo saresti anche augurato, no? E certamente te ne saresti fregata che non sarebbe cambiato nulla, avresti ammazzato ugualmente di dolore i tuoi babbei di amici, i tuoi genitori e tutto il resto. Qualsiasi risposta avessi dato, avresti ucciso qualcuno. E tu non hai scelto Granger: scegliere impone volontà. E l’Imperius non è volontà, credimi lo so. Potevi scegliere l’altro Weasley perché aveva un colore addosso che ti feriva gli occhi, e sarebbe stato lo stesso. Non è volontà quella, è solo istinto dello stomaco che non potevi tenere a freno, nessuno poteva, nemmeno tu, pure se sei così convinta di essere il non plus ultra della razza umana. Non potevi fare altro. Ed anche se ne soffri, anche se ti uccide dentro, renditi conto che la vita non è tutta scelta, non è tutta volontà, non è tutta arbitrio: è anche destino, caso, variabile imperfetta di una fragilità che siamo noi stessi incarnati. Io non ho scelto di essere quello che sono, ho scelto poco nella mia vita e mi sono abbandonato più di te al destino e al fato, ed è sbagliato, ma è sbagliato anche credere di avere il potere di fare tutto, Granger. Non se ne esce se si pensa così. Accetta con serenità ciò che puoi cambiare ed accetta con eguale serenità ciò che non puoi cambiare, è la vita, Granger, siamo pulci e giganti e siamo sospesi esattamente nel mezzo tra avere il potere di cambiare il mondo ed avere solo l’obbligo di subirlo.

Ma mettiamo che tu abbia ragione, mettiamo che sia vero quello che dici, che è morto perché tu hai scelto… se non parlassi più, tornerebbe qui? Se muori tu, resuscita lui? Credimi non va così, Granger: per mesi che io desiderassi barattare me stesso per Silente, non è mai accaduto, Granger. La sola cosa che abbiamo è andare avanti, con la coscienza che siamo vivi e che qualcuno ci ha voluto vivi: e con la coscienza che ad assolverti, basterà sempre che quell’Incantesimo non l’hai pronunciato tu, che l’assassina non sei tu, che il sangue non scorre sulle tue di mani. E credimi, in questo mondo dove il bianco e il nero sono solo becere illusioni bigotte da borghesi annoiati e dove tutto in realtà è solo un infinito spettro di grigi, fa tutta la differenza del mondo. E se mantiene me in vita questo pensiero, non vedo perché non dovrebbe andare bene anche per te, anche se ti credi migliore al punto da dover morire o da dover vivere mutilata per espiare le tue finte colpe.

Io non mi fido di te al punto tale da lasciarti andare via stanotte, affidandoti ad un Dio lontano perché tu decida di reagire.

E non mi fido di me al punto tale da restare qui stanotte, promettendoti la mia spalla affinché così ti regga in piedi.

E rivoglio troppo indietro quella che sei, per non farti questo: quello che tu irrazionalmente faresti, ma che intimamente non accetteresti mai perché, ancora, ti toglierebbe la scelta.

E sono egoista al punto tale da rivolerti indietro, anche se ti imporrò tutto questo e non ti farò decidere nulla. Io non sono il buono, non sono il puro, il principe: e quindi domani dimenticherai tutto, sarai di nuovo tu, avrai un ricordo fantasma di un anello di opale da non togliere mai, avrai la percezione di non aver parlato solo perché anatomicamente non ci riuscivi, ed adesso invece ci riesci.

Io voglio che tu abbia una vita urlata, gridata: che se sussurri, o biascichi, o mormori, sia solo perché parli ad un bambino, o fai l’amore con un uomo, o confidi un segreto. Non voglio in te la vergogna, la paura, il rimorso e il dolore che ti segano la voce in petto. Voglio che tu abbia un termine giusto per ogni cosa, da usare con precisione certosina: che quando il sole è alto nel cielo, tu sappia descrivere quella luce, che quando inizia a tramontare tu abbia un’altra parola, che quando sparisca tu ne sappia usare un’altra. Voglio che tu abbia una vita piena di parole da inventare e da gridare, di parole per accarezzare i cani, di parole per mangiare un gelato, di parole per baciare un uomo… anche se quell’uomo non sarò io.

E voglio che tu insegni quelle parole ad un bambino tuo, anzi ad una bambina tua, che tu sei nata per avere una figlia, così da perpetuare nel mondo l’esistenza di quella che sei e rendere felice un altro uomo, che potrà innamorarsi di un altro tuo riflesso.

E fosse anche una bambina con i capelli rossi… va bene così, Granger, basta che le parli, basta che tu le urli contro se corre.

Voglio che se tu abbia paura, o abbia bisogno di aiuto, chiami.

E voglio che la tua voce sia la prima cosa di te che si annunci in una stanza, mentre saluti la vita stessa.

Non sarò qui, a rendermi conto che questo accada davvero.

Non ci sarò, perché sono egoista e non voglio stare qui se non ti posso avere.

Ma vivi una vita urlata, Granger: non sei nata per il silenzio, sei una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di altre parole. Ne conosco solo una manciata e già mi hanno fatto perdere la testa per te, come un idiota.

Questo, almeno, se puoi, non te lo dimenticare mai… Hermione.

 

   
 
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