Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice
of live
Personaggi Principali: Saori-Atena; Seiya
Altri Personaggi: Koga solo nominato
Rating: verde
In proposito: “Mi sarai comunque accanto?” lo invitò, nel fruscio della veste di lino
e bisso. “Anche se sbaglierò e mi metterò in pericolo?”
Lo guardò. Lo guardò come donna, amante e dea; lo studio, cercando su
quella scalinata sotto le stelle le antiche sicurezze.
“Sempre” le disse. “Qualunque sia la tua volontà. Io ti sarò sempre
accanto.”
Disclaimer: i personaggi sono di Masami
Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Note: one shot; missing moments
Cose: e
siamo arrivati al quarto momento. D’altronde, l’episodio 63 non poteva
scatenare la mia immaginazione. Seiya che veste Sagitter e lancia il colpo
segreto di Aioros, rendendogli anche omaggio! E poi quelle poche battute sulla
scalinata di Palaestra, studiandosi negli occhi per riscoprire le antiche
sicurezze.
Saint Seiya Omega continua ad
alimentare in me un rapporto conflittuale, altalenante fra pochi (troppo pochi)
momenti che sfiorano l’epicità della vecchia serie, buone idee risolte senza
quel trasporto emotivo cui Saint Seiya mi (ci) aveva abituati e scelte
narrative di sicure vicine al target più giovane e alle scelte attuali, ma che
sfiorano la ripetitività. Comunque, idee piacevoli ce ne sono, e soprattutto
sottintesi inerenti Seiya. Perché la malinconia che sembra pervaderlo sul ponte
di Palaestra, mentre affronta gli avversari è così lontana da Seiya e assieme
così da Seiya che è difficile da
ignorare. Sarà di pochi secondi, ma è meravigliosa.
Quarto frammento, dicevo. E intanto
il secondo continua a latitare. Era pronto da un po’, ma lo leggermente
modificato dopo aver visto l’episodio di ieri sera. Nulla di radicale, solo un
piccolo accenno che sa di predestinazione. Lavorare su Saori è sfiancante: renderla
umana e insieme divina, con quella crudeltà divina che si tempra nell’umanità è
davvero logorante. Qui a tratti prevale la componente umana; non era voluto: è
emersa perché doveva esserci. E mi piace l’idea di loro due come amanti negati,
di un loro rapporto erotico costruito su parole, sguardi e rimpianti. Non li
vedo come “coppia”, ma li vedo come amanti insomma. Dov’è la differenza? Mica
facile da spiegare. Seiya ama una dea che per definizione non lo può
ricambiare, e allora vira il suo affetto in una devozione malata e a tratti
morbosa, un attaccamento viscerale; mentre Saori è legata a lui da sottili
trame di umanità e dalla lusinga che da sempre attira gli dei: la fedeltà
incondizionata. È una mia lettura, per carità!
Ma mi piace.
Ultima piccola nota: nam in lingua tibetana, e più
precisamente nel raffinato dialetto di Lhasa, significa cielo. Questo perché, come qualcuno già saprò, ho scelto di
collocare Palaestra in Tibet.
Crescendo IV
Nam
“Sei triste.”
Le stelle del Tibet sono grandi;
grandi e splendenti nell’aria fredda e tersa della notte. A Saori ricordavano
altre stelle, in un altro cielo. Ricordavano una notte a Luxor, fra piume nere
di corvo e frusciare di vesti bianche. Ricordavano le braccia di Seiya e il
calore del suo corpo; e una caduta affrontata con fiducia.
Quella notte; gli occhi di Seiya e
il suo sguardo. Gli occhi di un uomo e non di cavaliere; l’affetto o forse
l’amore, la devozione confusa in un confine labile di possesso, egoismo e
rifiuto.
Sono trascorsi anni, da quella
notte. Eppure. Eppure negli occhi di Seiya il cielo si rifletteva allo stesso
modo. E uguale era il sorriso che le rivolgeva, appena più lieve e maturo,
appena velato di una malinconia che lo avvolgeva, impalpabile e sottile. Forse
di rimpianto forse di rimorso. Ma Seiya resisteva.
Non lo avevano piegato né gli dei
né il Cielo d’Olimpo; non lo aveva spezzato la lunga prigionia di Mars né se
l’erano portato via le ferite sopportate. Seiya restava al suo fianco, ancora
come il primo giorno. Restava con lei, in piedi accanto a lei, per difenderla e
servirla.
Per amarla.
Di quell’amore complesso e
viscerale, quasi necessità. Di quell’amore che lo aveva fatto precipitare
nell’Ade pur di rivederne anche solo la pallida ombra fra gli asfodeli in
fiore; di quell’amore che lo aveva richiamato alla vita quando Artemis l’aveva
sfidata.
Né ideali né aspirazioni.
A muovere Seiya era rimasto solo
quel legame forse malato forse solo troppo profondo per una donna che non
poteva sfiorare; per quella dea che aveva giurato di onorare.
Di Seiya, Saori aveva conosciuto
la determinazione e la rabbia; aveva visto la crescita e le cadute. E aveva
ascoltato la supplica, sussurro flebile fra le sue braccia, nello sciabordio
increspato di acqua come luna.
Fammi restare con te. Fammi combattere
per te.
Perché se non poteva amarla,
almeno poteva adorarla. Perché, se non poteva averla, almeno poteva custodirla.
Seiya l’aveva implorata. Fra le
sue braccia, la bocca a sfiorare pelle umida e fremente, Seiya si era concesso
di osare e dimenticare. Si era permesso di toccarla come desiderava sentirla:
il corpo di donna nella stoffa bagnata, il viso dal dolce taglio mediterraneo,
gli occhi azzurri sotto ciglia sottili imperlate d’acqua. E nella donna aveva
dimenticato la dea, nel suo respiro sul viso aveva illuso un istante di
concessione e dannazione. Nel bacio di Atena Seiya aveva baciato Saori e a lei
aveva giurato la vita.
Saori socchiuse gli occhi.
Non l’aveva più baciata.
Negli anni trascorsi accanto,
Seiya non aveva chiesto altro.
Ma era nelle sue braccia ricoperte
d’oro che Saori aveva trovato rifugio ai doveri di dea; era nella sua presenza
costante che Saori conosceva la sicurezza; era nei suoi occhi che ricordava la
determinazione.
E quando Mars glielo aveva
sottratto. Quando Seiya aveva scelto, nel suo impulsivo egoismo, di lasciarla
per salvarla. Quando del cosmo di Pegasus era rimasta l’eco distorta fra
l’oscurità che le incancreniva il corpo. Quando di quella promessa fatta sulle
sue labbra, quando quel sono pronto a
morire per te era stato un istante di consapevolezza e il pianto di un
bambino stretto al suo seno, quando di Seiya l’ultimo ricordo era la sua
schiena che sfavillava fra le galassie oscure. Allora Saori aveva conosciuto il
vuoto della mancanza, aveva sofferto l’abbandono.
Perché era sempre stata pronta a
morire con lui; ma non aveva mai osato immaginare di perderlo. Smarriti i
sorrisi aperti e le piccole provocazioni; perdute le battutine inappropriate
che alleggerivano le situazioni; consumate le braccia forti che la sorreggevano
se vacillava.
Mars glielo aveva sottratto; e
Mars glielo aveva restituito, fulgido di cosmo anche negli squarci delle
tenebre che gli divoravano e corpo e spirito.
E adesso le era di nuovo al
fianco.
Accanto a lei, sulle gradinate di
Palaestra, nell’odore fastidioso di detriti e polvere di calce, sotto il cielo
del Tibet che raccoglieva leggende e indifferenze.
Non le sedeva accanto; non la
sfiorava. Ma nelle spalle rilassate e nei capelli sempre scompigliati; nelle
mani in tasca con indifferenza e nei tratti maturi del viso; negli occhi dal
taglio sottile pieni di determinazione, Saori avvertiva la sicurezza e
l’appoggio che le voleva dare, che le aveva sempre dato.
Il ragazzino che l’aveva provocata
e sfidata a lungo; il ragazzino che per suo capriccio aveva combattuto su un
ring, il ragazzino che per lei aveva imparato la caparbietà e la risolutezza.
Quel ragazzino era di nuovo con lei, accanto a lei. E nel corpo di uomo, Saori
indovinava la sicurezza delle scelte intraprese, la determinazione che i giorni
della convalescenza sembravano aver scalfito.
“Un po’. Forse” gli rispose alla
fine, in un sorriso sottile. “O forse è solo rimorso.”
“Koga ha scelta di sua volontà
Anissa.”
Koga.
Il bambino. Il bambino salvato da
Seiya; il bambino stretto al suo seno. Il suo nuovo Erittonio, assieme al
flebile desiderio di una maternità proibita. Lo aveva cullato; lo aveva
allevato; lo aveva allenato. Ne aveva fatto un cavaliere, nel riflesso muto di
Sagitter, nell’ombra delle stelle di Pegasus.
Lo amava. Lo amava come dea e come
madre. E lo avrebbe visto combattere e soffrire; gli aveva sentito giurarle la
vita con la determinazione negli occhi pieni di ardore e ironia. Perché fino
alla fine gli aveva taciuto chi fosse; perché fino all’ultimo lo aveva allevato
nella speranza di allontanarlo dalla battaglia.
Non di nuovo
si era promessa.
Non come con Shiryu, Hyoga, Shun,
Ikki e gli altri. Non come con Seiya.
Aveva. Aveva sperato di lasciarlo
libero nelle scelte, di vederlo crescere senza malinconie e rimpianti; si era
illusa che il cosmo allevato gli avrebbe fornito solo una guida tranquilla
nella vita. Eppure.
Eppure era successo ancora. E Koga
era cresciuto all’ombra delle colonne, in odore di miti e antiche leggende. Era
cresciuto per la guerra e alla guerra era stato chiamato, quanto Mars era
riuscito a piegarla e inglobarla in un nuovo albero dell’universo.
E di nuovo lo aveva costretto a
schierarsi, lo aveva obbligato a una guerra in cui prima che il volere in Koga
veniva l’affetto e il legame con lei.
Quanto sarebbe durata ancora,
negli occhi d Koga, quella forza, quella volontà che glieli faceva brillare di
cosmo appena trattenuto? Per tempo ancora sarebbe trascorso, prima che i
rimpianti ne velassero l’ideale ingenua volontà?
Seiya.
Cos’è il rimorso?
Forse sono gli occhi di Seiya.
Forse è la sfumatura triste che non li abbandona più, la determinazione
armonizzata con la rassegnazione. Forse è quello sguardo di desiderio e
proibizione.
Forse è la distanza.
Lo spazio a volte evidente altre
impalpabile che Seiya ha continuato a creare; che Seiya non accetta più di
oltrepassare. Sono le sue braccia che la stringono solo su un campo di
battaglia; sono le sue mani sempre guantate d’oro e l’incedere solenne di un
uomo ormai conscio del proprio ruolo.
Quanto è trascorso dall’ultima
volta che lo ha visto come in quel momento? Da quanto Seiya non smette Sagitter
per abiti quotidiani. Un paio di jeans sdruciti e una vecchia maglietta. Le
mettono nostalgia; le ricordano anni passati, guerre, fatiche, sangue e rimorsi.
Ma assieme la spensieratezza dei pochi istanti rubati al dovere, le risate di
cuore nella grande villa di Luxor.
Lo rivede adesso, il corpo
modellato dalle battaglie e i tratti adulti dell’uomo. Lo rivede forse per
l’ultima unica volta come uomo e non cavaliere. Mentre le sorride con una
scrollata di spalle; mentre le resta accanto, sui gradini freschi, sotto il
cielo del Tibet.
Atene è lontana; Pallas è lontana.
Le armature sono riposte negli
scrigni e lo scettro di Nike l’attende nella stanza che le hanno riservato.
Quei minuti sono tutto ciò che le è concesso; tutto ciò che può e vuole
concedersi. Non è più imposizione; non è mai stata costrizione. È sua la scelta
di combattere; è sua la decisione di portare la solitudine e la nostalgia che
il ruolo di dea le impone.
Ma Seiya.
“E tu Seiya?” sussurrò Saori. “Tu
perché hai scelto?”
Seiya si voltò a osservarla. C’era
esitazione nella voce di Anissa; una punta di paura, simile al soffio flebile
del vento. Sembrava temere la risposta; sembrava essersi pentita di quella
semplice domanda, nelle mani che si stingeva forti, negli occhi risoluti al
cielo sterminato. Non avrebbe mai abbassato lo sguardo; non si sarebbe mai
concessa di mostrarsi insicura. Nemmeno con lui.
“Conosci la risposta, Anissa”
“Voglio sentirla da te.”
C’era urgenza. L’urgenza di
capire, di conoscere i suoi pensieri più intimi, più profondi. Avrebbe potuto
farlo; le sarebbe bastato ampliare di poco il cosmo e la mente di Seiya le si
sarebbe aperta senza sforzo. Si sarebbe ribellato, avrebbe alzato mura mentali
su tranelli e vuoti pensieri. Si sarebbe opposto, ma alla fine lei avrebbe
vinto. E fra loro sarebbe rimasta una consapevolezza acquisita con la forza.
Non lo avrebbe fatto: non vi era
ricorsa in passato, non avrebbe iniziato a utilizzare quel potere in quel
momento. Gli aveva concesso tempo e aveva rispettato la sua volontà. Non lo
aveva forzato a parlare delle sue insicurezze nè aveva sondato la sua mente per
conoscerle.
Seiya era cambiato.
Lo scontro con Mars e la lunga
prigionia prima, l’ordine di assassinare l’infante Pallas dopo lo avevano
cambiato, assieme ai toppi anni su campi di battaglia e a quella devozione dai
contorni di un amore impossibile che da troppo lo sorreggeva. E adesso che di
nuovo avrebbe dovuto scendere in campo; adesso che, forse per la prima volta da
sempre, Seiya si sarebbe trovato a rivestire il ruolo di primo cavaliere alla
testa dell’esercito di Atena; adesso che si sarebbe trovato da solo davanti
all’avversario, Saori voleva, doveva sapere cosa davvero lo muovesse, per cosa
sarebbe stato pronto a dare la vita.
“Sei tu” le rispose chinandosi su
di lei, la voce un sussurro sottile all’orecchio. “È per te che combatto. L’ho
sempre fatto.”
“Per Atena.”
“Per Saori” sussurrò ancora, con
una risata sottile che sapeva di rassegnazione. Come se accettasse da lei anche
quel gioco crudele, quella necessità di sentirsi ripetere l’amore che le
portava come semplice rassicurazione. Non era cattiveria; ma non era nemmeno
piacere. Per Seiya quelle parole erano la vita e la morte date in mano alla
dea, alla donna, per cui era pronto a dimenticare onore e doveri.
E Saori tremò a quella carezza
impalpabile. Alle labbra che le respiravano sulla pelle sensibile della gola in
un bacio che avrebbe solo immaginato; al sapore di salsedine e vento che Seiya
si portava addosso, un miscuglio di odori di Grecia e d’Oriente. Tremò delle
braccia che l’avevano imprigionata fra i gradini, vicine come da troppo non erano
più state, e del vento leggero che lasciava sul viso il pizzicorio dei capelli
che Seiya aveva iniziato a portare un po’ più lunghi nel loro costante
disordine.
Tremò. E di quel tremito intenso e
recondito; di quella contrizione allo stomaco per il suo nome finalmente
riudito, per il suo nome di nuovo sussurrato, le rimase una calda intensa sensazione
senza i contorni definiti.
Seiya l’aveva amata.
Con due semplici parole; con due
sole parole soffiate nel vento freddo, sotto le stelle del Tibet, Seiya l’aveva
amata. Le aveva dato la trepidazione e l’estasi; le aveva dato l’eccitazione
del proibito e il languore dell’appagamento. Le aveva regalato un istante,
forse l’unico che il tempo e il destino gli aveva concesso. E glielo aveva dato
con semplicità, quasi per inciampo.
E poi le braccia la liberarono, il
sussurro divenne una risata leggera e gli occhi le lasciarono un ultimo intenso
languido indugio sulle labbra socchiuse e proibite.
“Ti sei scelta un pessimo
generale. Ne?” le sorrise
strizzandole un occhio.
E Saori rivide il ragazzo. Rivide
Seiya come non lo aveva più rivisto da quanto aveva quindici anni e aveva
trovato la quiete nel suo abbraccio; lo rivide come lo aveva rivisto dope gli
anni dell’allenamento in terra di Grecia.
Ironico, a tratti impertinente,
determinato e risoluto.
Non era il cavaliere di Sagitter,
altero nell’eredità che aveva raccolto; non era nemmeno l’uomo che per lei
aveva scelto una vita di battaglie. Era scomparso il prescelto di Pegasus e il
guerriero capace di vincere uomini e dei con la sua volontà.
Accanto a lei, era riapparso il
ragazzo.
Il ragazzo che scherzava e rideva;
il ragazzo che non conosceva il rispetto per le gerarchie e aveva fatto
dell’ironia il suo esorcismo per la paura. Non era spavalderia, quella di
Seiya. Era semplicemente l’unica arma che un bambino gettato nell’arena aveva
trovato per sopravvivere.
Ed era così da Seiya. Così rassicurante.
“Il peggiore davvero” gli rispose
recuperando il tono disteso dello scherzo, quel modo di sdrammatizzare che
Seiya le aveva insegnato negli anni. “Ma sono sempre in tempo a cambiarlo.”
“Ah. Davvero?” continuò Seiya, un
sorriso sottile sulle labbra mature. “E sentiamo. Con chi mi sostituirai
Anissa?”
Anissa.
Non l’avrebbe chiamata Saori di
nuovo; forse non l’avrebbe più fatto. Le aveva concesso pochi istanti da
amante, e adesso cercava disperatamente di recuperare le distanze. Provocarlo
ancora, insistere ancora, sarebbe stato solo sciocco e inutile. Seiya non
avrebbe ceduto e lei lo avrebbe torturato per nulla. Doveva accettare quello
che le aveva concesso, e il gioco sottile e infantile che le offriva prima di
tornare all’urgenza dello scontro.
“Vediamo” rifletté a mezza voce,
tamburellando l’indice sul mento. “Ci vorrebbe un uomo equilibrato, incline
alla diplomazia.”
“Ikki è escluso a priori allora”
rise Seiya. “Ti restano Hyoga o Shiryu.”
“Non Shun?” lo provocò, ridendo
della sua stessa risata.
Era piacevole restare così, a
conversare nella notte di vecchi amici e antichi legami che si sentivano ancora
intrecciati nei cosmi lasciati sopiti. Era simile a un’eco continua e
impalpabile, alla risonanza che per anni li aveva uniti e che nessuno di loro
accettava di abbandonare.
“Ti mancano?”
“Sempre” le rispose senza
esitazione.
In quella parola Saori comprese
qualcosa di più: la solitudine e la nostalgia che a volte sfioravano Seiya; le
ore notturne trascorse sulla terrazza di Atene, gli occhi al cielo e il cosmo a
fluttuargli accanto; le parole e i sussurri di risa su labbra increspate rubati
alla distrazione e a piccoli fugaci momenti rilassati. E seppe la difficoltà di
Seiya di sentirsi parte dei Cavalieri d’Oro, avvertì lo sforzo di creare un
legame e altri volti e altri cosmi sovrapporsi a quelli presenti. Lesse nel
cosmo di Seiya il peso delle aspettative che avvertiva su di sé e la mancanza
dei compagni di sempre, l’assenza di gerarchie e convenzioni che si erano
create fra loro. E la quieta serena pacata accettazione che alla fine lo aveva
pervaso, nella sicurezza che, comunque, sarebbero stato con lui.
“Ci saranno” le ripose con
ovvietà, richiudendo il cosmo che le aveva aperto per farle intuire almeno una
parte di cosa da sempre lo
tormentasse, di cosa lo avesse mutato nel tempo. “Shiryu; Hyoga; Shun; persino
Ikki” sorrise. “Quando sarà il momento, saranno con me. Con noi.”
“È una bella speranza.”
“È una certezza.”
Saori ci credette. In quella risposta
senza ombre, nella sicurezza che gli aveva acceso gli occhi, Saori volle
leggere la certezza che sarebbero arrivati in tempo; volle coltivare
l’egoistica speranza che violassero i doveri cui li aveva destinati e fossero
di nuovo al suo fianco.
Perché chiamarli a sé sarebbe
stato troppo facile e troppo crudele; perché chiedere loro di nuovo sangue e
dolore dopo aver offerto pace e riposo sarebbe stato così semplice e così
doloroso.
Come lo era stato per Seiya.
Ma Seiya ha scelto la Grecia.
Quando i cieli d’Olimpo si erano
chiusi; quando di macerie restava polvere e silenzio; quando ricominciare non
era più speranza ma semplice determinazione, li aveva lasciati liberi di
scegliere.
E Seiya aveva scelto la Grecia e
Sagitter.
Aveva scelto lei.
“Allora posso lasciarti il
comando” lo provocò.
“Sarò in grado di cavarmela,
vedrai” le sorrise. “Non è facile liberarsi di me. Lo sai.”
“Sì; lo so” gli sussurrò, e quella
consapevolezza ebbe il gusto della tranquillità riottenuta, della quotidianità
all’improvviso riassaporata. Assieme ad un pensiero che le riaffiorò alla
mente, assieme alla certezza che negli occhi di Seiya, adesso, accanto alla
nuova eterna malinconia, permaneva di nuovo la stessa identica determinazione
di un tempo.
“Hai usato il colpo segreto di Sagitter
oggi” gli disse alla fine, infrangendo il silenzio rilassato della notte ormai
avanzata.
“Era tempo di farlo.”
Seiya asprì e chiuse il palmo.
Era stato strano. Avvertire il
cosmo fluire e concentrarsi nella mano e poi esplodere in una cascata simile a
miliardi di frecce. Era stato come indossare Sagitter per la prima volta: aveva
avvertito Aioros nell’eco del cosmo. La sua decisione giocata in pochi istanti
e i rimpianti lasciati al cielo che lo aveva visto morire.
Lo aveva conosciuto da sempre quel
colpo, fin da quel lontano giorno a Luxor contro Aioria. Eppure si era sempre
rifiutato di eseguirlo. Perché significava accettare di occupare il posto che
apparteneva ad Aioros; perché voleva dire confrontarsi con il fantasma di un
ragazzo che la sorte aveva trasformato in eroe; perché era assumerne un’eredità
ancora troppo pesante da portare e dimostrare ogni momento in ogni istante di
saper onorare l’armatura che indossava.
Quando avesse accettato Sagitter e
non l’avesse solo vestita, Seiya sapeva che avrebbe dovuto imparare ad essere
un cavaliere d’oro prima ancora che un uomo devoto ad Anissa. Sapeva che voleva
dire piegarsi alle regole e alle convenzioni, rinunciare a tutto ciò che era
stato sino a quel momento. E sapeva che una cosa è scegliere la distanza da Anissa, l’altra è esserne costretto.
“Perché solo oggi?”
“Perché anche tu hai scelto di
scendere in battaglia” le rispose con semplicità. “E poi, prima o dopo avrei
dovuto farlo. Così avrò anche il tempo di far di pratica. Ne?”
“Sai cosa significa farlo. Vero?”
“Lo so” sussurrò premendo un pugno
nella mano. “Lo so cosa vuol dire” ripetè, e stinse la mano con forza, fra
frustrazione e determinazione.
Perché accettare Sagitter
significava rinunciare a Pegasus; perché utilizzare appieno l’armatura voleva
dire lasciarsi tutto alle spalle e scendere in campo davvero come primo fra i
cavalieri d’oro, come comandante di un esercito che a lui prima di tutti
avrebbe guardato, dopo Anissa.
Essere Sagitter era ereditare
Aioros e il peso della sua morte; era portare sulle spalle la forza del suo
mito e l’assurdità della sua morte. Era assumersi la vita di Anissa come mai
prima di allora e rinunciare all’amore e forse anche all’affetto per lei. Era tracciare
un confine fisico fra lui Shiryu, Hyoga, Shun e Ikki. E poco sarebbe importato
se anche loro avessero deciso di rivestire le armature d’oro. Lui sarebbe stato
il primo, e solo quello avrebbe potuto cambiare tutto.
A meno che.
“Non sei obbligato a farlo,
Seiya.”
“Lo so. Ma lo devo fare; lo voglio fare.”
Per dimostrare a se stesso che non
era la corazza a plasmarlo; per ricordarsi cosa lo aveva fatto sempre scendere
in campo, sfidando dei e sfiorando la blasfemia per dedizione ad Anissa, ad una
dea troppo umana per non essere crudele nell’amore che portava loro.
“Sarò Seiya di Sagitter, Anissa”
le disse nel cosmo che gli accendeva gli occhi.
“Anche se molto cambierà?”
“Anche se dovessi impugnare di
nuovo la daga di Saga e uccidere” le giurò senza esitare. “. Ma lo sarò a modo
mio. Senza dimenticarmi chi ero; senza dimenticare cosa mi fa andare avanti” e piegò il ginocchio a terra, lo sguardo
fisso in quello di Saori. “Ma lo concedi Anissa?”
L’ultima volta che Seiya le si era
inginocchiato, Saori ricordò, era stato nel naos di Atene dopo la loro
discussione; era stato quando aveva deciso di chiuderle la mente e il suo cuore
e aveva alzato un muro a propria protezione. E adesso, di nuovo, le offriva e
morte e vita; le offriva la sua dannazione in cambio di un suo sorriso; in
cambio della promessa di poter restare quello che era sempre stato. Di poter
essere, anche con l’oro di Sagitter a rivestirlo, solo Seiya.
Davanti a quella supplica; davanti
alla disperazione che intuiva dietro alla risolutezza, Saori non seppe
rifiutare.
Avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto
pretendere o la decisione ferma o la disattesa completa. Sagitter non ammetteva
mediazioni. Ma non vi riuscì. Seiya le aveva fatto una sola altra supplica, un
tempo. E le aveva chiesto di poter combattere per Lei; ora le chiedeva di poter
continuare a farlo senza smarrirsi in Sagitter, restando in qualche contorto
imperscrutabile confuso modo il ragazzino che era tornato dalla terra di
Grecia.
Non glielo negò; e nel sorriso che
le rivolse, Saori sentì gratitudine e devozione; sentì l’affetto dell’uomo e la
carezza rassicurante del cosmo del cavaliere. Le sarebbe rimasto accanto,
sempre. Senza più esitazioni; senza più timori anche nella nostalgia e nei
rimpianti.
Era tempo aveva
detto Seiya. Tempo di smettere di esitare e agire; tempo di accettare ciò che
Pallas aveva voluto scatenare.
Saori sospirò. Lo è anche per me.
“Seiya” lo chiamò, quando ormai il
cielo si era fatto d’inchiostro cupo e i visi si intravvedevano appena nel
riverbero delle stelle.
“Non sono d’accordo” la
interruppe, arricciando il naso infastidito. “Lo so cosa vuoi fare” e
occhieggiò eloquente alla spirale pulsante di cosmo che avvolgeva il braccio di
Saori. Sembrava sopita, ma poco alla volta le stava sottraendo forza e vita. E
ormai restavano meno di nove mesi prima che Pallas riuscisse a prosciugarla. “Lo
so e non sono d’accordo. Ci deve essere un altro modo” borbottò, arruffandosi
la testa.
“Seiya” sorrise Saori, il viso
inclinato di lato fra sollievo e lieve timore di sbagliare. “Seiya. Stai
discutendo una mia intenzione?”
“Già” alzò le spalle, come se
fosse normale. Come se mai quell’atteggiamento fosse mutato, come se il loro
confronti di pochi mesi prima fosse solo un ricordo impreciso, un pigro gioco
di una mente capricciosa. “Qualcuno deve pur avvertirti che stai per fare una
cosa stupida.”
“Non cercherai di fermarmi?”
“Certo che ci proverò” sorrise
Seiya.
“Non ci riuscirai. Lo sai?”
“Sì; lo so. Ma non per questo
smetterò di tentare.”
“Mi sarai comunque accanto?” lo
invitò, nel fruscio della veste di lino e bisso. “Anche se sbaglierò e mi
metterò in pericolo?”
Lo guardò. Lo guardò come donna,
amante e dea; lo studiò, cercando su quella scalinata sotto le stelle le
antiche sicurezze.
E nella risposta che ebbe, nella
promessa che Seiya le rinnovò in quella notte, fulgido del cosmo di Sagitter
che richiamò a sancire le sue parole; in quella parole, così simili a quelle
pronunciate quando il dovere si confondeva con la volontà, Saori seppe la
devozione e la lealtà, e riassaporò l’istante di un affetto che sfiorava la
blasfemia.
“Sempre” le disse. “Qualunque sia
la tua volontà. Io ti sarò sempre accanto.”