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Autore: Nitrogen    14/07/2013    9 recensioni
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»

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Avvertenze: L'autrice di questa originale non è sana di mente, ragion per cui ha scritto una storia non adatta a stomaci deboli; violenza gratuita, linguaggio scurrile e sangue la fanno da padrone nella maggior parte dei capitoli. Siete stati avvisati.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo II
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«Sono certo che adesso la qui presente Nebraska Herstal sarà disponibile a rivelare ciò che sa sull'omicidio, a darci un movente chiaro e valido delle sue azioni.»
Qualunque cosa avessi detto l'avrebbero usata contro di me e l'opzione di restare in silenzio sembrava ancora possibile con tutta la droga. Mi chiedevo se avrebbe capito che non ero un soggetto che si lasciava sopraffarre dalla paura o l'ansia: continuavo a puntare i miei occhi neri nei suoi altrettanto scuri, ostinata a non abbassarli anche se la testa diventava ogni secondo più difficile da tener ferma. Iniziavo a sentirmi leggera, tranquilla, forse spensierata, ma questo non bastò a farmi parlare perché vedevo già materializzarsi davanti ai miei occhi le solite allucinazioni di poco conto, quelle carine che ti lasciano chiacchierare con le persone a cui vuoi bene di cose frivole, che non possono far altro se non innervosire la persona intenzionata a estorcerti informazioni sicuramente più importanti di quelle che potevano darti le allucinazioni.
Il primo pugno arrivò senza che me ne accorgessi sulla mascella. Impiegai troppo tempo per capire mi fosse stato inferto da Hijikata, ma non fece troppo male. Il secondo prese in pieno uno zigomo, e in preda all'euforia causata dalla droga risi vedendo il mio sangue uscire dalla bocca e sporcare il suo camice; la risata si trasformò in panico quando dopo altri pugni indolori sputai sangue e vermi, allora incapace di realizzare che questi ultimi erano solo frutto della mia testa e non reali.
Non so per quanto tempo andò avanti questo incubo, ma posso dire con un po' di fierezza che il mio autocontrollo ebbe la meglio sulla droga: avevo visioni, nausea e giramenti di testa accentuati dall’analgesico, ma riuscii comunque a non proferir parola pur sudando freddo.
Hijikata non sembrava apprezzare il mio religioso silenzio, e non c’era momento in cui non me lo facesse notare tirandomi calci e pugni. Quando l’effetto della sostanza andava scemando lo mordevo o colpivo anche io come meglio potevo, sperando di fargli abbastanza male da farlo andar via e avere un po’ di pace.
Purtroppo, trovò il modo per rimettermi le manette e iniettarmi altre due dosi eccessive di quel farmaco con l’unico intento di punirmi per la mia poca disponibilità. Quella sostanza aveva effetti devastanti sul mio organismo, non riuscivo a reagire o a difendermi ad ogni suo attacco d’ira con tutta quella droga in corpo, ma per lo meno ero immune al dolore per il suo effetto analgesico che funzionava perfettamente: in quel momento avrei potuto avere fratture di ogni genere e non rendermene conto, e questa era l’unica cosa che mi confortava da un’eventuale morte per mano di quello psichiatra.
Nella sequenza confusa e distorta di realtà alternata ad allucinazioni ci sono frasi sconnesse di Hijikata che mi incitavano a confessare dopo l'ennesimo colpo impartitomi nello stomaco, siringhe che si susseguono ciclicamente nelle mie braccia iniettandomi liquidi a me sconosciuti endovena, ghigni mostruosi di quello psichiatra che probabilmente meritava di essere rinchiuso nel manicomio al posto mio. Arrivò a minacciarmi anche con un coltello puntato prima ai polsi e poi in gola.
Per un secondo mi chiesi se sarei morta proprio in quella stanza grazie all'indole omicida di un essere privo di controllo, e per di più in un giorno che non sapevo perché avevo perso la cognizione del tempo. I miei genitori, che ero certa non avessero voluto il mio male, avrebbero creduto alla menzogna del suicidio? Forse sì, forse si sarebbero arresi a quella notizia e mi avrebbero ricordato come la loro unica figlia, nata e cresciuta comportandosi da angelo e diventando un'assassina di prim'ordine senza che loro se ne fossero accorti.
Sarebbe stato un finale triste, ma il più probabile tra i pochi possibili se qualcuno non avesse spalancato la porta e iniziato ad urlare contro Hijikata. Non sentivo cosa diceva, ogni suono arrivava alle mie orecchie ovattato, ma le braccia e le mani che non riusciva a tener ferme perché in preda all'ira parlavano chiaro. Era arrabbiato, non voleva che lui mi facesse del male… o almeno non fino a quel punto. Desideravo scorgere i suoi lineamenti, vedere il volto del mio salvatore, ma con tutta quella confusione che si era impadronita del mio sangue il massimo che potevano i miei occhi ipermetropi fu distinguere appena la sua carnagione abbronzata e i suoi capelli marrone scuro che, essendo corti, in circostanze normali non mi avrebbero nascosto nemmeno una parte del suo viso.
Sapevo che mi accarezzava ma non lo sentivo sulla mia pelle, capivo che mi teneva tra le sue braccia sperando che non fossi morta ma non potevo nulla per fargli capire che in un modo o nell’altro ero ancora cosciente. Avrei voluto comprendere le sue parole, rispondere, muovere un solo muscolo e non ci riuscivo.
Ricordo che ad un certo punto svenni. L'ultima immagine catturata dalle mie retine fu del braccio destro insanguinato da troppi tentativi nel cercare la vena, causa del piccolo rivolo di sangue che scivolava nella chiazza rossa già esistente sul pavimento, dove mi ero accasciata nuovamente esanime.
In un attimo di lucidità prima di chiudere gli occhi ripensai alla persona che aveva deciso io dovessi essere il suo sostituto in questo inferno e la maledii ancora, augurandole il doppio delle mie sofferenze.

Il risveglio fu traumatico. Tutti i dolori che fino a quel momento non avevo provato a causa dell’analgesico si stavano facendo largo in ogni parte del mio corpo, rendendo il mio ritorno alla realtà atroce e pieno d’agonia: la testa scoppiava di nuovo, le vertigini erano presenti ancora una volta, le braccia dolevano e pulsavano come anche la scapola dove ero stata sparata chissà quando.
Mi contorcevo sotto un lenzuolo logoro e sporco, in quel letto tutt’altro che confortevole posto contro il muro di una stanza che non riconoscevo, che non avevo mai visto. Era piccola e non presentava nessun elemento che mi permettesse di riconoscerla, addobbata esclusivamente con il minimo indispensabile, una brandina e un gabinetto poco distante che vedevo a stento a causa della scarsa illuminazione che filtrava attraverso un misero rettangolo sulla porta dal lato opposto della stanza. Non era il posto migliore del mondo, eppure lo preferivo di gran lunga alle torture di Hijikata.
Mi alzai, ancora dolorante e barcollando, e feci il giro completo dei miseri due metri quadrati in cui ero stata lasciata a marcire. Tremavo: avevo dimenticato quanto il buio non fosse il mio elemento.
L'odore fetido di sporco e vecchio infestava quel locale e il pavimento era coperto di sostanze liquide che i miei piedi nudi avrebbero preferito non identificare; non ero la prima a essere entrata lì dentro, chi mi aveva preceduta doveva avere qualche problema di incontinenza. Effettivamente, oltre all'urina sparsa in modo non uniforme non c'era niente di più di quello che avevo visto appena sveglia.
Tornai sul letto decidendo che, per quanto l'ambiente fosse poco caldo, avrei usato il lenzuolo nella speranza di ripulirmi almeno in minima parte da quello schifo; poi restai ferma a gambe incrociate su quel materasso che per quanto ne sapevo poteva nascondere ogni sorta di insetto. E adesso? Che potevo mai fare chiusa in una camera simile?
Non c'era stato bisogno di osservare la porta per capire che non potevo buttarla a terra - non solo era di lega metallica, io ero ridotta troppo male per compiere qualunque sforzo eccessivo -, non sapevo nemmeno quando qualcuno sarebbe tornato a vedere se ero morta. In realtà ero certa mi preferissero viva, o che almeno lo volesse il mio salvatore, in quanto ero stata nuovamente medicata, e nemmeno tanto male. Valutai l'idea di gridare, far rumore, o comunque di attirare l'attenzione di qualcuno nel vano tentativo di velocizzare l'incontro ravvicinato con qualcuno, ma mi tornò alla mente Hijikata e la voglia di incontrarlo non era molta.
Fin da piccola, le uniche paure che io avessi mai avuto erano il buio e gli ospedali. Per fortuna, con l'andare degli anni sviluppai un autocontrollo eccellente e nessuna delle due mi era più parsa un grave problema. In quel frangente, probabilmente a causa di quegli avvenimenti, entrambe sembravano essere tornate a spaventarmi leggermente. Ma quando avevo sette anni c'erano le mani dei miei genitori a rassicurarmi e le loro voci a dirmi di non aver paura, adesso non avevo nessuno. Nessuno oltre Hijikata che mi voleva morta.
Mi costrinsi a camminare verso la porta, evitando accuratamente l'urina che intravedevo, e sollevandomi sulla punta dei piedi osservai l'esterno della mia "nuova casa". Quattro porte numerate, che di sicuro erano solo alcune delle tante di quel posto, erano dall'altra parte del corridoio: anch'esse riportavano la piccola finestra da cui entrava appena della luce soffusa, ma nessuna tra la B4 e la B7 sembrava avere individui vivi all'interno perché quando urlai la prima volta non rispose nessuno.
«Qualcuno mi faccia uscire da qui!»
Ancora nessuna risposta, in compenso dalla B7 si affacciò qualcuno che però sparì una frazione di secondo dopo. Sapere che c'era qualcuno vivo mi fece sentire meglio, ma non sapere il grado della sua igiene mentale mi riportò di nuovo in ansia.
«Hey! Dannazione, ma non c'è nessuno in questo corridoio?!»
Di nuovo, dalla B7 qualcuno si sollevò abbastanza da mostrare appena gli occhi che, infastiditi forse dalla mia voce, cercavano ovunque la causa di quella confusione; si accorse di me quasi subito, e me lo fece capire puntando i suoi occhi grigi come l'acciaio di cui erano fatte quelle porte contro i miei che invece erano di un nero petrolio da cui a stento si distingueva l'iride dalla pupilla. Invidiai il suo sguardo che sembrava impenetrabile perché sapevo quanto il mio fosse incapace di nascondere la lieve paura che mi faceva formicolare ogni mia singola cellula. Non smetteva di guardarmi, sarei scesa a patti col diavolo pur di sapere cosa stesse pensando.
Un urlo fin troppo vicino distolse la mia attenzione dalla B7: non era un urlo di terrore, non era un grido disperato fatto nel vano tentativo di chiedere aiuto. È uno di quei lamenti acuti che sfocia in una risata orrenda, sonora, che ti lacera i timpani ogni volta che dopo una presa d'ossigeno nei polmoni torna a farsi sentire più straziante e innaturale di prima, fino a diventare così simile alla risata di un mostro che inizi a sentire il cuore scoppiare per l'eccessivo sangue pompato nelle vene e la bile salirti su in gola fino a diventare un conato di vomito che non puoi non trattenere.
Non sapevo a cosa fosse dovuto o chi lo causasse, ma scivolai con la schiena lungo la porta e mi tappai le orecchie pur di non sentire quel suono che era agonia pura per la mia testa. Quel posto era un incubo ed io non ne potevo già più di starci: tutta la vita in quel manicomio mi avrebbe fatto diventare pazza sul serio, e finché potevo mi sarebbe piaciuto evitare un finale del genere. Dovevo trovare un modo per dimostrare che la mia sanità mentale era nella norma, dovevo andarmene alla svelta ma non sapevo come fare.
Diedi nuovamente uno sguardo fuori dalla porta e trovare ancora gli occhi spalancati della B7 puntati su di me mi fece indietreggiare senza volerlo. Mi andava di pensare ci fossimo affacciati nello stesso momento perché solo ipotizzare avesse continuato a fissare la mia porta per tutto quel tempo mi preoccupava non poco. Dannazione, il suo sguardo era terrificante. Capivo non ci fosse molto da fare in un postaccio simile, ma cosa voleva da me?
Sbatté improvvisamente le palpebre e iniziò a muovere gli occhi, attratto di nuovo dalle risate isteriche di quell’essere. Nemmeno lui, l'urlatore, doveva avere molto da fare. Mi domandai se una situazione simile andasse avanti anche di notte, se in realtà fosse già notte e anche che giorno della settimana poteva essere.
Quando mi incastrarono era il 13 Dicembre, un mercoledì qualunque in cui avrei dovuto adempiere ai miei doveri da studente sia di mattina che nel primo pomeriggio, e poi sarei dovuta restare in casa a leggere tutto il materiale possibile sulla psiche umana o a vedere documentari vari in televisione. Non facevo molto altro perché nei miei interessi rientravano poche cose, ovvero informarsi su più cose possibili - anche quelle che non mi sarebbero mai servite - e perdere tempo con la mia cerchia piuttosto bizzarra di amici.
Mi piaceva la loro compagnia, ma mi sentivo sempre come un rubino tra tanti smeraldi: eravamo tutti delle gemme, però di tue tipologie diverse. A loro non interessava quel che dicevo e viceversa, e questo mi portò alla ricerca di qualcuno che potesse ascoltare i miei discorsi su quel che avevo imparato e discuterne a mo' di notizia appresa al telegiornale senza temere di non essere capita. Se avessi saputo che la persona da me reputata perfetta per questo compito potesse incastrarmi al suo posto, mi sarei tenuta volentieri la schiera di smeraldi che mi voleva bene pur non capendomi affondo.
Maledicendomi per non aver chiesto a Hijikata che giorno fosse, lasciai che anche la mia attenzione fosse catturata da quella risata orrenda; qualcosa mi diceva che prima mi ci abituavo meglio sarei stata, dunque lasciai che la sua voce mi perforasse i timpani mantenendo la calma.
Quando sei in un posto simile il tempo sembra infinito, come quel lamento che non voleva cessare. Sia io che B7 continuavamo a osservare l'esterno delle nostre celle per qualche altro forse minuto, poi lui scattò di spalle allontanandosi dalla porta. Chiunque fosse quella lettera legata a un numero doveva essere in quel manicomio da più tempo di me, e seguire il suo esempio mi parve la cosa più giusta da fare. Non me ne sarei trovata pentita se dopo aver udito dei passi non mi fossi affacciata per l'ennesima volta.
Lo spettacolo era il seguente: avevano aperto una delle porte alla mia sinistra e adesso il pazzo che fino a quel momento aveva distrutto le mie orecchie con la sua voce, e che continuava imperterrito a farlo, era stato bloccato da quattro ipotetici medici tra la B5 e la B6. Fu facile individuare i capelli brizzolati di Hijikata, ma avevo imparato a mie spese che dove c'era lui non poteva non esserci una tortura e quasi senza volerlo iniziai a pregare per l'Urlatore, scheletrico come pochi eppure abbastanza forte da impiegare tre uomini per tenerlo fermo.
«E pensare che con te speravo di non dover usare le maniere forti.» iniziò Hijikata, parlando abbastanza forte da farsi sentire anche da me. «Ti ho chiesto con le buone di stare zitto, poi ti ho minacciato e ti ho privato di cibo e acqua, ma continui a dare fastidio. Giunti a questo punto è giusto punirti, lo sai?»
Di tutta risposta, l'Urlatore sbraitò qualcosa di incomprensibile e venne preso a pugni nello stomaco da tutte le mani non erano impegnate a reggerlo, quelle di Hijikata e una ciascuno per due degli uomini in camice. Il pazzo era privo di muscoli, che tra tutti quei colpi non ce ne fosse stato uno abbastanza forte da rompergli qualche costola era improbabile.
«'Sta sera sono di pessimo umore a causa di una stronzetta che mi ha rotto il naso, ho così tanta voglia di ammazzare qualcuno che farei volentieri fuori te. Sfortuna vuole io sia misericordioso e per grazia divina te la caverai con poco.»
Non era da escludere che tra i pugni e i morsi inferti dalla sottoscritta allo psichiatra qualcuno l'avesse preso in pieno volto. Sorrisi all'idea, ma quando Hijikata tirò fuori una forbice da giardino per piante di piccole dimensioni il panico si fece sentire e il respirò già prima irregolare parve peggiorare.
Un quinto uomo in camice, tenutosi in disparte fino a quel momento, si avvicinò per aprire la bocca dell'Urlatore; Hijikata non aspettò un ulteriore invito e tranciò di netto la lingua. Fiotti di sangue colavano dalla bocca di un uomo disperato, in preda a un dolore atroce che lo fece cadere sul pavimento e gemere dal dolore. I suoi occhi invocavano aiuto a qualcuno, ma nessuno si decise a soccorrerlo prima che non fosse passato un minuto esatto in cui tutti loro ridevano soddisfatti dalla loro opera. Sarebbe morto soffocato nel suo stesso sangue se non si fossero decisi a metterlo in piedi.
Gridai, senza nemmeno rendermene conto.
I medici, Hijikata e il pazzo si voltarono nella mia direzione, i primi stupiti dalla mia presenza e l'ultimo gorgogliando qualcosa che giunse alle mie orecchie come una supplica di aiuto priva di vere parole. Trovai ancora una volta gli occhi di B7 su di me, ma in quel frangente parvero parlarmi e non essere impassibili come prima: Non dovevi guardare, mi dicevano, e io l'avevo appena urlato ai quattro venti.
«La ragazza ha visto... Per la miseria, quella puttana ha visto!»
«E allora? Kashim, è pazza, nessuno le chiederà nulla.»
Hijikata lanciò le forbici insanguinate contro la mia porta e io, in lacrime, indietreggiai fino alla brandina. Se non avessi urlato nessuno si sarebbe accorto del mio sguardo su di loro, mi ero fregata da sola grazie all'autocontrollo che mi stava poco alla volta abbandonando.
«Quello schifo è sotto le grazie di Joshua Mayer. Non chiedermi perché, non ne ho idea, ma quella mocciosa la vuole viva e priva di lividi. Se lui le chiedesse qualcosa è probabile che lui la crederebbe. Quando mi ha visto torturarla ha fatto una scenata assurda, Sam, assurda!»Diede un pugno contro la mia porta che risuonò in tutta la stanza vuota per diversi secondi e osservò il buio che mi circondava. «Me la pagherai, ragazzina. Quando Joshua non sarà qui a difenderti, io...»
Voleva uccidermi, o per lo meno aveva intenzione di farmela pagare per come gli avevo ridotto il naso che, lo ammetto, ero riuscita a rovinare proprio bene. Seppur soddisfacente, attaccarlo non era stata per niente una buona idea: non mi ero mai pentita di aver picchiato qualcuno come in quel dannato momento, eppure di persone ne picchiavo molte. Mi ero messa contro la persona sbagliata e presto ne avrei pagato le conseguenze.
Tirai un sospiro di sollievo quando lo vidi sparire e allontanarsi insieme ai suoi compagni, trascinando con sé anche l'Urlatore; allora la scampai, ma sapevo che era solo una ritirata momentanea.
Sola e ancora in lacrime, non riuscivo a togliere dalla testa l'immagine di quell'uomo pelle e ossa che continuava a lamentarsi per la lingua che ormai non aveva più. Hijikata era diventato il mio peggior incubo specialmente grazie a quell'evento, e se lo conoscevo da qualche giorno era anche tanto. Un essere simile non poteva esistere davvero, eppure lo avevo incontrato, lo avevo sentito sulla mia pelle mente mi colpiva e si divertiva vedendo il mio sangue scorrere sul pavimento e macchiare il suo camice.
Ero avvolta dal buio, ma quella misera luce che filtrava dalla porta non mi dava nessuna speranza.
 


──Note dell'autore──
Ammetto che una recensione, un'opinione, un pensiero sul mio elaborato mi farebbe piacere, ma non posso obbligarvi a scriverlo. L'unica cosa che posso fare, ordunque, è sperare sia stato di vostro gradimento e che per lo meno continuiate a seguire la storia, nella speranza io la porti a termine.
Info: È possibile io cambi qualche nome, è nella mia natura. E che aggiunga qualche avvertenza oltre a far diventare il rating rosso. Per ora lo tengo arancione - prima era giallo - ma con le chiare avvertenze di scene violente perché più in là potrei spingermi oltre, e di temi forti. Mi chiedo se "Drammatico" sia ancora la sezione giusta.


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「Nitrogen」
   
 
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