Il
deserto
Diary of a young woman, lost in dark labyrinths
of
insanity and fear
Immobile,
rimasi ad osservare i giochi di luce violacea che
colpivano il bicchiere di vetro che giaceva di fronte ai miei occhi.
Sembrava
così fragile: avrebbe potuto resistere ancora? O una folata
di vento troppo
forte lo avrebbe fatto alla fine crollare e infrangere contro il duro e
impietoso terreno? L’acqua tremava lieve tra le sottili
pareti, disturbata dal
suono violento di una musica lontana e inclemente. Ma ad essere sinceri
non ero
più sicura che fosse l’acqua a tremare. Forse ero
soltanto io.
“…E
poi ha avuto anche il coraggio di venire a chiedermi di
uscire! Dopo tutto quello che era successo!”
esclamò indignata Virginia,
accrescendo il tono di voce e facendomi sussultare.
“Incredibile”
commentò Anna, scuotendo il capo e storcendo
il naso, evidentemente sconvolta dalla rivelazione. I lunghi capelli
bruni
frusciavano leggeri contro le sue spalle nude.
“Sì,
guarda, una cosa as-sur-da!” continuò Virginia,
scandendo bene le sillabe della parola, per evidenziare il concetto
“Non so
come ho resistito dal tirargli uno schiaffo per la sua sfacciataggine.
Tu Len,
cosa avresti fatto?” domandò
all’improvviso, voltandosi nella mia direzione.
Mi ritrovai a
fissare i suoi occhi castani, che alla luce
artificiale delle lampade nella veranda del ristorante parevano quasi
cremisi.
“Beh
io credo che…” iniziai a balbettare, stupita di
essere
stata reinserita nella conversazione, e di non essere diventata parte
dell’arredamento.
Ma questa
sensazione svanì presto, quando Virginia
ricominciò il suo monologo, sovrastando le mie parole:
“Naturalmente io gli ho
detto che non se ne parlava nemmeno e che…”
Mi rimisi
quindi ad ascoltarla mansueta, annuendo qualche
volta, sebbene nessuno dei miei gesti sembrava essere notato. E a lungo
andare
il suo fiume di chiacchiere divenne soltanto un altro rumore di
sottofondo, del
quale non riuscivo a distinguere più una parola.
Serata con le
amiche, come ogni giovedì sera. Le amiche di
sempre, le amiche d’infanzia, le amiche che mi hanno visto
crescere, piangere,
ridere. Ma non avevo più versato una lacrima da settimane, e
un sorriso, se non
falso e di mera circostanza, non aveva più increspato le mie
labbra da ancora
più tempo. Ormai, in realtà, non mi curavo
più nemmeno di fingere.
Virginia,
accanto a me, la mia migliore amica fin dalla
scuola elementare, la mia confidente, la compagna di mille avventure e
disavventure, era per me ora non più estranea della signora
di mezza età con il
nero tailleur che
aveva appena preso
posto al tavolo di fronte al nostro. Era così cambiata da
divenire quasi
irriconoscibile ai miei occhi e al mio cuore? No. Ero io ad essere
cambiata,
ero io quella diversa. Quella
strana.
Davanti allo
specchio tutto sembrava essere ancora uguale a
prima: gli stessi capelli fulvi, corti e ribelli, la medesima bocca
dalle
labbra sottili, lo stesso naso un po’
all’insù, sempre gli stessi occhi quasi
trasparenti. L’unica differenza erano forse le occhiaie che
li cerchiavano,
profonde, e l’espressione vuota del mio volto.
Ma
dentro…dentro non ero più io.
Avevo perso
interesse per qualunque cosa, anche le
divertenti serate insieme alle amiche, tutto era diventato semplice
routine,
non più vita.
Cosa
significava vivere poi? Respirare l’aria per non
soffocare, mettere in bocca del cibo per non morire di inedia. Occupare
un
posto nel mondo, senza averlo chiesto, senza alcuno scopo.
Ormai avevo
perso il conto di tutti quei ragazzi che, come
avevo sentito alla televisione o letto sui giornali, da un giorno
all’altro,
avevano deciso di lasciarsela dietro le spalle quella vita. Ma per
scegliere
di smettere di
esistere davvero credo
bisogna sentire se non dolore, almeno il bisogno di sfuggire da questo
mondo.
Io non sentivo proprio nulla e non avevo la forza né il
desiderio di prendere
una decisione tanto drastica.
Era necessario
far soffrire le persone che mi stavano
accanto? Forse c’era qualcuno che ancora mi voleva bene e che
aveva bisogno di
me, sebbene io non avessi bisogno di nessuno.
Seduta a quel
tavolo, in quel ristorante, circondata da una
folla di persone rumorose, mi resi conto che alla fine io ero sola. In
una
landa completamente desolata. Tante immagini passavano davanti ai miei
occhi,
ma non vedevo niente realmente. Tutto era nero, o meglio incolore. Era
Nulla. E
non udivo più nemmeno la musica di accompagnamento,
né il chiacchiericcio
incessante, tutto era Silenzio.
Persa nel mio
deserto non ero triste. Neanche felice a dire
il vero, perché non provavo alcuna emozione.
Questa era la
mia Realtà.
Ma
d’un tratto nel mio campo visivo comparve di nuovo quel
fragile bicchiere, e ne rimasi profondamente turbata.
Come attirata
da una forza sconosciuta e irrazionale,
allungai la mano per afferrarlo. Il vetro, a contatto con le mie dita,
era
freddo. Freddo. Freddo. Io lo sentivo. Freddo. Lunghi brividi
attraversarono la
mia spina dorsale, per poi scuotere ogni fibra del mio corpo.
Sentivo freddo.
E non volevo. Il mio guscio si era crepato.
“No”
mormorai al vento. E il bicchiere di vetro scivolò dalle
mie dita, frantumandosi contro il suolo.
Non aveva
resistito.
**
“Lena!”
“Ma
cos’ha?”
“Lena
stai bene?”
Voci sempre
più vicine chiamavano il mio nome.
“Lena!”
Sbattei le
palpebre più volte, prima di mettere a fuoco il
volto di Virginia, che mi scrutava visibilmente preoccupata. Intorno a
me molti
altri visi, sui quali era dipinta la stessa espressione stupita e
spaventata.
“Cosa…?”
domandai con voce flebile, dopo aver deglutito non
senza fatica.
“Va
tutto bene?” intervenne Anna poggiando una mano sulla mia
spalla “Il bicchiere ti è caduto dalle mani e
tu…sembravi quasi in trance”
tentò di spiegare.
“E’-è
tutto a posto” balbettai. Gli occhi di così tante
persone puntati su di me diventavano di secondo in secondo sempre
più molesti.
Non desideravano così tante attenzioni, volevo essere
lasciata in pace.
“Sono
solo stanca” informai più risoluta
l’indesiderato
pubblico, riprendendo maggior controllo di me “Preferirei
tornare a casa”
Virginia
annuì: “Certo, vieni ti riaccompagniamo
subito”
E dopo numerose
proteste sul fatto che io pagassi la mia
parte del conto, ci ritrovammo nella macchina di Anna sulla via di casa.
Non avevo
voglia di rispondere ad altre domande; così,
reclinato di lato il capo, chiusi gli occhi e finsi di dormire.
Le mie amiche
rimasero a lungo in silenzio, poi, certe che
mi fossi davvero addormentata, cominciarono a bisbigliare animatamente.
“Non
la riconosco più” mormorò Virginia
sconsolata.
“Credi
che centri Davide?” ipotizzò Anna.
“Ci
stavo pensando anche io” concordò la bionda
“Da quando
l’ha lasciata non è più la
stessa”
Riuscii a
trattenermi dallo scoppiare in una triste risata,
per non rovinare la mia piccola farsa. Considerando la loro
ingenuità, quasi mi
stupii che si fossero accorte di un cambiamento.
Davide. Lui
sì, se ne era accorto.
Mi aveva
lasciato, è vero. Ma non potevo biasimarlo per
questo.
Una sera,
qualche tempo prima (poco, tanto, nemmeno lo
sapevo più e poco importava) appollaiati sul tetto di casa
sua, dove tante
altre volte ci eravamo rifugiati per scambiarci baci clandestini e per
trascorrere preziosi minuti da soli, eravamo rimasti a lungo in
silenzio, sotto
un cielo senza stelle, governato da un melanconico spicchio di luna.
“Quando
è stata l’ultima volta?” aveva domandato
d’un
tratto, a voce bassa e con un tono che non lasciava trasparire alcuna
emozione.
I suoi occhi fissavano un punto indistinto nell’infinito.
Non avevo
parlato, ma avevo continuato a guardarlo,
aspettando una spiegazione alle sue oscure parole.
Spiegazione che
non si era fatta attendere a lungo:
“L’ultima volta” aveva sussurrato
voltando finalmente il capo nella mia
direzione “che hai provato qualcosa mentre ti stringevo, o
mentre ci baciavamo,
o sfioravo la tua pelle” il suo sguardo era intenso e buio,
più della notte
stessa.
Mi dispiaceva
vederlo stare così male e non volevo
peggiorare la situazione, ma non volevo nemmeno mentirgli. Non se lo
meritava.
“Non
lo so” dissi semplicemente.
“Ricordo”
continuò lui, come se non mi avesse sentito, con
un mesto sorriso a increspargli le labbra, “che
all’inizio quasi potevo sentire
il ritmo del tuo cuore accelerare, e il calore del tue mani strette
alle mie.”
Afferrò
una delle mie mani, e glielo lasciai fare, immobile:
“Sei così fredda ora”
“Mi
dispiace”
“No”
scosse la testa, lasciando la presa di scatto “Non
dispiacerti per me. Solo per te stessa. Io non so cosa sia accaduto
alla
ragazza di cui mi sono innamorato. Spero sia ancora lì da
qualche parte, dentro
di te. Ti auguro di ritrovarla. Le tue parole sono soltanto suoni senza
senso,
il tuo volto ormai non è altro che uno specchio, sul quale
il mondo si riflette
e viene rimbalzato indietro. Nulla ti penetra, nulla ti tocca. I tuoi
occhi
hanno perso la luce dalla quale ero stato ammaliato. Sei…vuota”
Avrei forse
dovuto adirarmi per le sue parole dure?
Offendermi?
No, non potevo.
Sapevo che era la verità.
E
così era finita. No, in realtà era finita da
molto più
tempo. Per colpa mia.
Nessuno sapeva
cosa fosse successo. E ancora gli amici si
interrogavano e speculavano su quale fosse stato il motivo, il
pretesto, quali
le dinamiche dell’evento.
Arrivata a
casa, mia madre mi aveva salutata appena.
Ormai non
riusciva quasi più a parlarmi. Parlarmi davvero
intendo. Frasi come “Andato tutto bene a scuola” o
“Non ti dispiace mangiare
una pizza stasera” certo non contavano. Eppure un tempo il
nostro rapporto era
stato speciale.
Volente o
nolente, stavo allontanando tutti dalla mia vita.
Speravo solo non soffrissero troppo per la perdita.
Come un automa,
ero già pronta per la notte. Un altro giorno
era finito. Un’altra spunta senza significato ad un
calendario dalle caselle
bianche come il mio cuore.
**
Mi svegliai
all’improvviso, tirandomi su a sedere, con il
fiato corto. Il cuore mi martellava nel petto e rivoli di sudore mi
scorrevano
lungo la schiena, inumidendo la camicia da notte.
Ancora.
Ancora lo
stesso sogno. O lo stesso incubo.
Lo stesso
incubo sì, ma questa volta c’era stato qualcosa di
diverso, anche se ero ancora troppo scossa per capire di cosa si
trattasse.
A passo
traballante, lasciai la prigione di lenzuola
soffocanti, e mi arrampicai sulla scrivania accanto alla finestra, per
appoggiare la fronte bagnata contro il vetro freddo.
Rabbrividii
senza accorgermene, mentre i miei occhi
scrutavano nel buio, abituandosi a poco a poco
all’oscurità.
Se respiravo
profondamente potevo ancora percepire l’afa e
quell’odore pungente, che tanto mi ricordava quello dei
capelli lasciati troppo
a lungo sotto il getto potente del phon.
Se socchiudevo
le palpebre potevo ancora distinguere luce
accecante, e distese infinite di sabbia dorata, sotto un sole cocente,
e
null’altro.
Per quanto
allungassi lo sguardo, facendomi da scudo con le
mani per riparare gli occhi dalla luce troppo intensa, non potevo
scorgere
altro, se non altre dune di sabbia, immobili e perfette.
Il silenzio era
completo, irreale.
Come ogni altra
notte avevo vagato senza metà per quel
deserto privo di confini: ero stanca, terribilmente stanca, ma le mie
gambe
avevano continuato a muoversi da sole, senza che le potessi controllare.
Mi sembrava di
camminare da ore, ma non potevo affermarlo
per certo, perché non avevo alcun termine di riferimento, se
non il sole: ma la
palla di fuoco sopra la mia testa sembrava sempre ferma nella stessa
posizione.
Non sapevo
nemmeno se stessi girando in tondo, o se mi
stessi muovendo davvero. Tutto era sempre irrimediabilmente uguale, in
un modo
a dir poco frustrante.
Ma ecco, a quel
punto qualcosa era successo. Qualcosa di
inaspettato e fuori dal normale; ora ricordavo.
Seduta su una
pietra in mezzo alla distesa dorata avevo
visto una bambina, che con le braccia avvolte intorno alle ginocchia
piangeva
in silenzio, tirando a volte un po’ su dal piccolo nasino.
Non poteva
avere più di 6 o 7 anni, i capelli rossi legati
in due codini sui lati della testa, i pantaloni tagliati
all’altezza di un
ginocchio tutto graffiato. Aveva un’aria inspiegabilmente
famigliare.
Finalmente
sembravo aver ripreso il controllo dei miei arti
inferiori: avevo deciso quindi di accostarmi alla ragazzina, che aveva
sollevato immediatamente il capo, cessando di versare lacrime.
Si era
asciugata il viso con una delle maniche della sua
maglia, volto che però era rimasto segnato da lunghe strisce
scure.
Aveva posato i
suoi grandi occhi trasparenti su di me, piena
di curiosità.
“Perché
piangi?” le avevo domandato, sentendomi schiacciata
dal peso del suo sguardo.
“Ho
perso il mio aquilone” mi aveva spiegato, tornando
all’istante di nuovo triste “E’ volato
via per sempre”
Avevo cercato
di consolarla, assicurandole che presto ne
avrebbe potuto acquistare uno ancora più bello.
“Cosa
servirebbe?” aveva sospirato, con una disillusione non
certo adatta per la sua candida età “Forse non
sono destinata a possederne uno.
Forse non sono fatta per gli aquiloni. Come
tu non sei fatta per essere felice” aveva sibilato
poi, il viso
trasfigurato in una maschera di crudeltà.
Rabbrividendo
di terrore le avevo pregato di spiegare il
perché avesse pronunciato una frase del genere, lei che non
mi conosceva.
Ma i suoi
tratti erano di nuovo quelli dolci e innocenti di
una bambina, completamente dimentica del suo perduto aquilone e della
mia
impossibile felicità.
“Sono
caduta sull’asfalto, sai? Mentre giocavo con il mio gattino.
E guarda” aveva indicato con un ampio gesto le ginocchia
sbucciate e i
pantaloni rovinati “la mamma sarà molto arrabbiata
per questo. La senti? Già mi
chiama: Maddalena cosa hai combinato! Ripete.”
Maddalena.
Non era
possibile…eppure ne ero ormai convinta.
Quella bambina
ero io.
Ricordavo anche
quel giorno. Non era un aquilone ad essere
andato perduto, era stato Holly, il mio gatto tigrato dai grandi occhi.
“Dov’è?
Dov’è tua madre?”
Mi aveva
guardato senza capire: “A casa” aveva risposto
semplicemente.
“Ma
ti sei persa. Non sei a casa” avevo esclamato piena di
angoscia “Non hai paura?”
Aveva scosso la
testa, intrappolandomi nel labirinto dei
suoi occhi di ghiaccio: “Io non mi sono persa”
“E
dove siamo?” nel mio tono non era più nascosta una
vena
di esasperata speranza.
“Ma
è ovvio Lena. Questa è la tua anima, o
ciò che ne
rimane, dopo che hai lasciato che tutto inaridisse e morisse. Ma
è questo che
volevi, o mi sbaglio?”
Era questo
quello che volevo?
Il fantasma del
mio passato si era all’improvviso dissolto,
per poi riapparire dietro alle mie spalle.
“Perché?”
mi aveva gridato, tempestandomi di pugni la
schiena e poi il petto “Perché hai lasciato andare
il mio gatto?” grosse
lacrime avevano nuovamente inondato i suoi occhi.
“Non
è stata colpa mia…io…” avevo
cercato di difendermi, ma
le parole che pronunciavo sapevano di menzogna.
E poi la
bambina si era trasformata, cresciuta d’un tratto,
fino a diventare la mia immagine speculare. Mi fissava, le pupille
iniettate
d’odio: “Come hai potuto lasciarti alle spalle la
tua anima? Come hai potuto
scordare così sia la speranza?”
Non avevo
potuto emettere nemmeno un suono, perché in un
battito di ciglia la ragazza era scomparsa e nel deserto si era
scatenata una
tempesta di sabbia. Il calore della terra era intenso a tal punto che
credevo
avrei preso presto fuoco, come un ramo di rovi secchi. Riuscivo a
malapena a
tenere gli occhi aperti e la gola mi bruciava terribilmente.
Ed ecco,
proprio di fronte a me, a forse un metro di
distanza, di nuovo quel bicchiere. Quel fragile bicchiere di vetro.
Mi ero
avvicinata combattendo contro il vento, ignorando il
dolore: volevo placare la mia sete, adesso volevo
quell’acqua. Ma quando avevo
allungato una mano per raggiungere la mia meta, il bicchiere era
scomparso nel
nulla. Apparentemente così reale, si era trattato soltanto
di uno stupido
miraggio.
“L’hai
lasciato cadere!” mi rammentò una voce profonda
nella
tempesta “Non hai apprezzato il tuo dono. Ora è
troppo tardi”
La
necessità di bere si faceva ad ogni secondo più
insopportabile, ma soprattutto sentivo il bisogno che quella voce
parlasse di
nuovo, che non mi lasciasse da sola all’inferno.
“Mi
dispiace!” avevo gridato “Cosa posso fare adesso?
Aiutami!” avevo pregato, con tutte le mie forze, cercando di
sovrastare con la
mia voce il rumore terrificante che mi circondava.
“Non
c’è nulla che tu possa fare. E’ questo
quello che
volevi in fondo. Trascorrere ciò che restava della tua
esistenza da sola, in
pace. Non hai bisogno d’altro”
Ma in quel
luogo non c’era pace, solo sofferenza. Avevo
bisogno di aiuto.
Make
a wish. Make a wish. Make a wish. Make a wish
“Non
voglio più essere sola. Non voglio. Ti
prego…”
La mia supplica
era stata accolta. Sebbene non me lo
meritassi. Qualcuno mi aveva sottratta a quell’arido luogo,
ed ora con una
finestra aperta sul mondo, godevo della fredda brezza notturna,
incosciente,
senza preoccuparmi dei tremiti che percorrevano tutto il mio corpo
sudato e
delle conseguenze che certo ci sarebbero state sulla mia salute.
Scavai in fondo
alla mia anima, per ricordare il motivo, la
causa del mio cambiamento. Cercai a lungo, per la prima volta davvero,
ma senza
un risultato.
Perché
forse non ne esisteva davvero uno.
La piccola Lena
aveva ragione. Mi ero convinta che la
felicità non rientrasse a far parte del mio destino. E forse
avevo ragione. Ma
come potevo esserne certa?
Ciò
che sapevo è che non volevo più tornare in quel
deserto.
Non volevo che quella fosse lo specchio della mia anima, quello che gli
altri
potevano vedere attraverso i miei occhi.
Un leggero
scricchiolio proveniente dal portico, accanto
alla finestra della mia stanza, attirò la mia attenzione.
Con sguardo vigile e
ormai assuefatto all’oscurità, mi accorsi di
strani movimenti presso le gambe
del vecchio tavolo nella veranda.
Come spinta da
una nuova forza forse sciocca ma
incontrastabile, lasciai di scatto la mia postazione sul davanzale, e
mi diressi
in punta di piedi verso la porta d’ingresso, per non
svegliare nessuno.
Una volta
uscita nel portico, mi accucciai presso il tavolo,
ritrovandomi a fissare gli occhi gialli e spaventati di un piccolo
micio,
tremante per il freddo.
Quando allungai
un braccio per sfiorare il suo manto
morbido, quasi mi aspettavo che si dissolvesse ancora nella notte.
Ma non lo fece.
Cercò invece di nascondersi, terrorizzato.
Provai allora a rassicurarlo, con richiami e piccoli gesti.
Forse non
potendo più sopportare il gelo della notte, alla
fine il piccolo micio grigio si lasciò prendere in braccio.
Lo portai in
fretta nella mia stanza, dopo aver
immediatamente chiuso la finestra. Infilatami nel letto lo abbracciai
stretto
stretto, cercando di trasmettergli un po’ di calore. Dopo i
primi minuti di
smarrimento e diffidenza l’animale raggiunse alla fine uno
stato di placida
quiete, abbandonandosi con il capo appoggiato al mio petto.
E per la prima
volta dopo troppo tempo, i miei occhi di
ghiaccio permisero a calde lacrime amare di rigarmi il volto, sciolte
da
un’ancora giovane e flebile fiammella di speranza.
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Testo
introspettivo scritto per un tema di Italiano.
Volevo
condividerlo con voi. Scriverlo mi ha fatto riflettere molto su quanto
sia
facile che la vita tutt’ad un tratto perda senso.
Fatemi
sapere cosa ne pensate^^
VenomousKisses
La
vostra
FallenAngel