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Autore: AnAngelFallenFromGrace    27/01/2008    3 recensioni
Quando non riesci a ricordare più chi sei, e ogni giorno sembra più inutile dell'altro, solo una spunta senza significato ad un calendario dalle caselle bianche come il tuo cuore...esiste un modo per riprendere in mano le sorti della tua vita? Riflessioni di una ragazza che cammina lenta sul filo di un rasoio...riuscirà a non cadere per sempre nell'abisso?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il deserto

 

Diary of a young woman, lost in dark labyrinths of insanity and fear

 

 

 

Immobile, rimasi ad osservare i giochi di luce violacea che colpivano il bicchiere di vetro che giaceva di fronte ai miei occhi. Sembrava così fragile: avrebbe potuto resistere ancora? O una folata di vento troppo forte lo avrebbe fatto alla fine crollare e infrangere contro il duro e impietoso terreno? L’acqua tremava lieve tra le sottili pareti, disturbata dal suono violento di una musica lontana e inclemente. Ma ad essere sinceri non ero più sicura che fosse l’acqua a tremare. Forse ero soltanto io.

 

“…E poi ha avuto anche il coraggio di venire a chiedermi di uscire! Dopo tutto quello che era successo!” esclamò indignata Virginia, accrescendo il tono di voce e facendomi sussultare.

“Incredibile” commentò Anna, scuotendo il capo e storcendo il naso, evidentemente sconvolta dalla rivelazione. I lunghi capelli bruni frusciavano leggeri contro le sue spalle nude.

“Sì, guarda, una cosa as-sur-da!” continuò Virginia, scandendo bene le sillabe della parola, per evidenziare il concetto “Non so come ho resistito dal tirargli uno schiaffo per la sua sfacciataggine. Tu Len, cosa avresti fatto?” domandò all’improvviso, voltandosi nella mia direzione.

Mi ritrovai a fissare i suoi occhi castani, che alla luce artificiale delle lampade nella veranda del ristorante parevano quasi cremisi.

“Beh io credo che…” iniziai a balbettare, stupita di essere stata reinserita nella conversazione, e di non essere diventata parte dell’arredamento.

Ma questa sensazione svanì presto, quando Virginia ricominciò il suo monologo, sovrastando le mie parole: “Naturalmente io gli ho detto che non se ne parlava nemmeno e che…”

Mi rimisi quindi ad ascoltarla mansueta, annuendo qualche volta, sebbene nessuno dei miei gesti sembrava essere notato. E a lungo andare il suo fiume di chiacchiere divenne soltanto un altro rumore di sottofondo, del quale non riuscivo a distinguere più una parola.

 

Serata con le amiche, come ogni giovedì sera. Le amiche di sempre, le amiche d’infanzia, le amiche che mi hanno visto crescere, piangere, ridere. Ma non avevo più versato una lacrima da settimane, e un sorriso, se non falso e di mera circostanza, non aveva più increspato le mie labbra da ancora più tempo. Ormai, in realtà, non mi curavo più nemmeno di fingere.

 

Virginia, accanto a me, la mia migliore amica fin dalla scuola elementare, la mia confidente, la compagna di mille avventure e disavventure, era per me ora non più estranea della signora di mezza età con il nero tailleur  che aveva appena preso posto al tavolo di fronte al nostro. Era così cambiata da divenire quasi irriconoscibile ai miei occhi e al mio cuore? No. Ero io ad essere cambiata, ero io quella diversa. Quella strana.

 

Davanti allo specchio tutto sembrava essere ancora uguale a prima: gli stessi capelli fulvi, corti e ribelli, la medesima bocca dalle labbra sottili, lo stesso naso un po’ all’insù, sempre gli stessi occhi quasi trasparenti. L’unica differenza erano forse le occhiaie che li cerchiavano, profonde, e l’espressione vuota del mio volto.

Ma dentro…dentro non ero più io.

Avevo perso interesse per qualunque cosa, anche le divertenti serate insieme alle amiche, tutto era diventato semplice routine, non più vita.

Cosa significava vivere poi? Respirare l’aria per non soffocare, mettere in bocca del cibo per non morire di inedia. Occupare un posto nel mondo, senza averlo chiesto, senza alcuno scopo.

Ormai avevo perso il conto di tutti quei ragazzi che, come avevo sentito alla televisione o letto sui giornali, da un giorno all’altro, avevano deciso di lasciarsela dietro le spalle quella vita. Ma per scegliere di  smettere di esistere davvero credo bisogna sentire se non dolore, almeno il bisogno di sfuggire da questo mondo. Io non sentivo proprio nulla e non avevo la forza né il desiderio di prendere una decisione tanto drastica.

Era necessario far soffrire le persone che mi stavano accanto? Forse c’era qualcuno che ancora mi voleva bene e che aveva bisogno di me, sebbene io non avessi bisogno di nessuno.

 

Seduta a quel tavolo, in quel ristorante, circondata da una folla di persone rumorose, mi resi conto che alla fine io ero sola. In una landa completamente desolata. Tante immagini passavano davanti ai miei occhi, ma non vedevo niente realmente. Tutto era nero, o meglio incolore. Era Nulla. E non udivo più nemmeno la musica di accompagnamento, né il chiacchiericcio incessante, tutto era Silenzio.

Persa nel mio deserto non ero triste. Neanche felice a dire il vero, perché non provavo alcuna emozione.

Questa era la mia Realtà.

 

Ma d’un tratto nel mio campo visivo comparve di nuovo quel fragile bicchiere, e ne rimasi profondamente turbata.

Come attirata da una forza sconosciuta e irrazionale, allungai la mano per afferrarlo. Il vetro, a contatto con le mie dita, era freddo. Freddo. Freddo. Io lo sentivo. Freddo. Lunghi brividi attraversarono la mia spina dorsale, per poi scuotere ogni fibra del mio corpo.

Sentivo freddo. E non volevo. Il mio guscio si era crepato.

“No” mormorai al vento. E il bicchiere di vetro scivolò dalle mie dita, frantumandosi contro il suolo.

Non aveva resistito.

 

**

 

“Lena!”

“Ma cos’ha?”

“Lena stai bene?”

Voci sempre più vicine chiamavano il mio nome.

“Lena!”

Sbattei le palpebre più volte, prima di mettere a fuoco il volto di Virginia, che mi scrutava visibilmente preoccupata. Intorno a me molti altri visi, sui quali era dipinta la stessa espressione stupita e spaventata.

“Cosa…?” domandai con voce flebile, dopo aver deglutito non senza fatica.

“Va tutto bene?” intervenne Anna poggiando una mano sulla mia spalla “Il bicchiere ti è caduto dalle mani e tu…sembravi quasi in trance” tentò di spiegare.

“E’-è tutto a posto” balbettai. Gli occhi di così tante persone puntati su di me diventavano di secondo in secondo sempre più molesti. Non desideravano così tante attenzioni, volevo essere lasciata in pace.

“Sono solo stanca” informai più risoluta l’indesiderato pubblico, riprendendo maggior controllo di me “Preferirei tornare a casa”

Virginia annuì: “Certo, vieni ti riaccompagniamo subito”

 

E dopo numerose proteste sul fatto che io pagassi la mia parte del conto, ci ritrovammo nella macchina di Anna sulla via di casa.

Non avevo voglia di rispondere ad altre domande; così, reclinato di lato il capo, chiusi gli occhi e finsi di dormire.

Le mie amiche rimasero a lungo in silenzio, poi, certe che mi fossi davvero addormentata, cominciarono a bisbigliare animatamente.

“Non la riconosco più” mormorò Virginia sconsolata.

“Credi che centri Davide?” ipotizzò Anna.

“Ci stavo pensando anche io” concordò la bionda “Da quando l’ha lasciata non è più la stessa”

 

Riuscii a trattenermi dallo scoppiare in una triste risata, per non rovinare la mia piccola farsa. Considerando la loro ingenuità, quasi mi stupii che si fossero accorte di un cambiamento.

Davide. Lui sì, se ne era accorto.

Mi aveva lasciato, è vero. Ma non potevo biasimarlo per questo.

Una sera, qualche tempo prima (poco, tanto, nemmeno lo sapevo più e poco importava) appollaiati sul tetto di casa sua, dove tante altre volte ci eravamo rifugiati per scambiarci baci clandestini e per trascorrere preziosi minuti da soli, eravamo rimasti a lungo in silenzio, sotto un cielo senza stelle, governato da un melanconico spicchio di luna.

 

“Quando è stata l’ultima volta?” aveva domandato d’un tratto, a voce bassa e con un tono che non lasciava trasparire alcuna emozione. I suoi occhi fissavano un punto indistinto nell’infinito.

Non avevo parlato, ma avevo continuato a guardarlo, aspettando una spiegazione alle sue oscure parole.

Spiegazione che non si era fatta attendere a lungo: “L’ultima volta” aveva sussurrato voltando finalmente il capo nella mia direzione “che hai provato qualcosa mentre ti stringevo, o mentre ci baciavamo, o sfioravo la tua pelle” il suo sguardo era intenso e buio, più della notte stessa.

Mi dispiaceva vederlo stare così male e non volevo peggiorare la situazione, ma non volevo nemmeno mentirgli. Non se lo meritava.

“Non lo so” dissi semplicemente.

“Ricordo” continuò lui, come se non mi avesse sentito, con un mesto sorriso a increspargli le labbra, “che all’inizio quasi potevo sentire il ritmo del tuo cuore accelerare, e il calore del tue mani strette alle mie.”

Afferrò una delle mie mani, e glielo lasciai fare, immobile: “Sei così fredda ora”

“Mi dispiace”

“No” scosse la testa, lasciando la presa di scatto “Non dispiacerti per me. Solo per te stessa. Io non so cosa sia accaduto alla ragazza di cui mi sono innamorato. Spero sia ancora lì da qualche parte, dentro di te. Ti auguro di ritrovarla. Le tue parole sono soltanto suoni senza senso, il tuo volto ormai non è altro che uno specchio, sul quale il mondo si riflette e viene rimbalzato indietro. Nulla ti penetra, nulla ti tocca. I tuoi occhi hanno perso la luce dalla quale ero stato ammaliato. Sei…vuota

Avrei forse dovuto adirarmi per le sue parole dure? Offendermi?

No, non potevo. Sapevo che era la verità.

E così era finita. No, in realtà era finita da molto più tempo. Per colpa mia.

Nessuno sapeva cosa fosse successo. E ancora gli amici si interrogavano e speculavano su quale fosse stato il motivo, il pretesto, quali le dinamiche dell’evento.

 

Arrivata a casa, mia madre mi aveva salutata appena.

Ormai non riusciva quasi più a parlarmi. Parlarmi davvero intendo. Frasi come “Andato tutto bene a scuola” o “Non ti dispiace mangiare una pizza stasera” certo non contavano. Eppure un tempo il nostro rapporto era stato speciale.

Volente o nolente, stavo allontanando tutti dalla mia vita. Speravo solo non soffrissero troppo per la perdita.

Come un automa, ero già pronta per la notte. Un altro giorno era finito. Un’altra spunta senza significato ad un calendario dalle caselle bianche come il mio cuore.

 

**

 

Mi svegliai all’improvviso, tirandomi su a sedere, con il fiato corto. Il cuore mi martellava nel petto e rivoli di sudore mi scorrevano lungo la schiena, inumidendo la camicia da notte.

Ancora.

Ancora lo stesso sogno. O lo stesso incubo.

Lo stesso incubo sì, ma questa volta c’era stato qualcosa di diverso, anche se ero ancora troppo scossa per capire di cosa si trattasse.

A passo traballante, lasciai la prigione di lenzuola soffocanti, e mi arrampicai sulla scrivania accanto alla finestra, per appoggiare la fronte bagnata contro il vetro freddo.

Rabbrividii senza accorgermene, mentre i miei occhi scrutavano nel buio, abituandosi a poco a poco all’oscurità.

Se respiravo profondamente potevo ancora percepire l’afa e quell’odore pungente, che tanto mi ricordava quello dei capelli lasciati troppo a lungo sotto il getto potente del phon.

Se socchiudevo le palpebre potevo ancora distinguere luce accecante, e distese infinite di sabbia dorata, sotto un sole cocente, e null’altro.

Per quanto allungassi lo sguardo, facendomi da scudo con le mani per riparare gli occhi dalla luce troppo intensa, non potevo scorgere altro, se non altre dune di sabbia, immobili e perfette.

Il silenzio era completo, irreale.

 

Come ogni altra notte avevo vagato senza metà per quel deserto privo di confini: ero stanca, terribilmente stanca, ma le mie gambe avevano continuato a muoversi da sole, senza che le potessi controllare.

Mi sembrava di camminare da ore, ma non potevo affermarlo per certo, perché non avevo alcun termine di riferimento, se non il sole: ma la palla di fuoco sopra la mia testa sembrava sempre ferma nella stessa posizione.

Non sapevo nemmeno se stessi girando in tondo, o se mi stessi muovendo davvero. Tutto era sempre irrimediabilmente uguale, in un modo a dir poco frustrante.

 

Ma ecco, a quel punto qualcosa era successo. Qualcosa di inaspettato e fuori dal normale; ora ricordavo.

Seduta su una pietra in mezzo alla distesa dorata avevo visto una bambina, che con le braccia avvolte intorno alle ginocchia piangeva in silenzio, tirando a volte un po’ su dal piccolo nasino.

Non poteva avere più di 6 o 7 anni, i capelli rossi legati in due codini sui lati della testa, i pantaloni tagliati all’altezza di un ginocchio tutto graffiato. Aveva un’aria inspiegabilmente famigliare.

Finalmente sembravo aver ripreso il controllo dei miei arti inferiori: avevo deciso quindi di accostarmi alla ragazzina, che aveva sollevato immediatamente il capo, cessando di versare lacrime.

Si era asciugata il viso con una delle maniche della sua maglia, volto che però era rimasto segnato da lunghe strisce scure.

Aveva posato i suoi grandi occhi trasparenti su di me, piena di curiosità.

 

“Perché piangi?” le avevo domandato, sentendomi schiacciata dal peso del suo sguardo.

“Ho perso il mio aquilone” mi aveva spiegato, tornando all’istante di nuovo triste “E’ volato via per sempre”

Avevo cercato di consolarla, assicurandole che presto ne avrebbe potuto acquistare uno ancora più bello.

“Cosa servirebbe?” aveva sospirato, con una disillusione non certo adatta per la sua candida età “Forse non sono destinata a possederne uno. Forse non sono fatta per gli aquiloni. Come tu non sei fatta per essere felice” aveva sibilato poi, il viso trasfigurato in una maschera di crudeltà.

Rabbrividendo di terrore le avevo pregato di spiegare il perché avesse pronunciato una frase del genere, lei che non mi conosceva.

 

Ma i suoi tratti erano di nuovo quelli dolci e innocenti di una bambina, completamente dimentica del suo perduto aquilone e della mia impossibile felicità.

“Sono caduta sull’asfalto, sai? Mentre giocavo con il mio gattino. E guarda” aveva indicato con un ampio gesto le ginocchia sbucciate e i pantaloni rovinati “la mamma sarà molto arrabbiata per questo. La senti? Già mi chiama: Maddalena cosa hai combinato! Ripete.”

Maddalena.

Non era possibile…eppure ne ero ormai convinta.

 

Quella bambina ero io.

 

Ricordavo anche quel giorno. Non era un aquilone ad essere andato perduto, era stato Holly, il mio gatto tigrato dai grandi occhi.

“Dov’è? Dov’è tua madre?”

Mi aveva guardato senza capire: “A casa” aveva risposto semplicemente.

“Ma ti sei persa. Non sei a casa” avevo esclamato piena di angoscia “Non hai paura?”

Aveva scosso la testa, intrappolandomi nel labirinto dei suoi occhi di ghiaccio: “Io non mi sono persa”

“E dove siamo?” nel mio tono non era più nascosta una vena di esasperata speranza.

“Ma è ovvio Lena. Questa è la tua anima, o ciò che ne rimane, dopo che hai lasciato che tutto inaridisse e morisse. Ma è questo che volevi, o mi sbaglio?”

Era questo quello che volevo?

 

Il fantasma del mio passato si era all’improvviso dissolto, per poi riapparire dietro alle mie spalle.

“Perché?” mi aveva gridato, tempestandomi di pugni la schiena e poi il petto “Perché hai lasciato andare il mio gatto?” grosse lacrime avevano nuovamente inondato i suoi occhi.

“Non è stata colpa mia…io…” avevo cercato di difendermi, ma le parole che pronunciavo sapevano di menzogna.

E poi la bambina si era trasformata, cresciuta d’un tratto, fino a diventare la mia immagine speculare. Mi fissava, le pupille iniettate d’odio: “Come hai potuto lasciarti alle spalle la tua anima? Come hai potuto scordare così sia la speranza?”

Non avevo potuto emettere nemmeno un suono, perché in un battito di ciglia la ragazza era scomparsa e nel deserto si era scatenata una tempesta di sabbia. Il calore della terra era intenso a tal punto che credevo avrei preso presto fuoco, come un ramo di rovi secchi. Riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti e la gola mi bruciava terribilmente.

 

Ed ecco, proprio di fronte a me, a forse un metro di distanza, di nuovo quel bicchiere. Quel fragile bicchiere di vetro.

Mi ero avvicinata combattendo contro il vento, ignorando il dolore: volevo placare la mia sete, adesso volevo quell’acqua. Ma quando avevo allungato una mano per raggiungere la mia meta, il bicchiere era scomparso nel nulla. Apparentemente così reale, si era trattato soltanto di uno stupido miraggio.

“L’hai lasciato cadere!” mi rammentò una voce profonda nella tempesta “Non hai apprezzato il tuo dono. Ora è troppo tardi”

La necessità di bere si faceva ad ogni secondo più insopportabile, ma soprattutto sentivo il bisogno che quella voce parlasse di nuovo, che non mi lasciasse da sola all’inferno.

“Mi dispiace!” avevo gridato “Cosa posso fare adesso? Aiutami!” avevo pregato, con tutte le mie forze, cercando di sovrastare con la mia voce il rumore terrificante che mi circondava.

“Non c’è nulla che tu possa fare. E’ questo quello che volevi in fondo. Trascorrere ciò che restava della tua esistenza da sola, in pace. Non hai bisogno d’altro”

Ma in quel luogo non c’era pace, solo sofferenza. Avevo bisogno di aiuto.

 

Make a wish. Make a wish. Make a wish. Make a wish

 

“Non voglio più essere sola. Non voglio. Ti prego…”

 

La mia supplica era stata accolta. Sebbene non me lo meritassi. Qualcuno mi aveva sottratta a quell’arido luogo, ed ora con una finestra aperta sul mondo, godevo della fredda brezza notturna, incosciente, senza preoccuparmi dei tremiti che percorrevano tutto il mio corpo sudato e delle conseguenze che certo ci sarebbero state sulla mia salute.

 

Scavai in fondo alla mia anima, per ricordare il motivo, la causa del mio cambiamento. Cercai a lungo, per la prima volta davvero, ma senza un risultato.

Perché forse non ne esisteva davvero uno.

La piccola Lena aveva ragione. Mi ero convinta che la felicità non rientrasse a far parte del mio destino. E forse avevo ragione. Ma come potevo esserne certa?

Ciò che sapevo è che non volevo più tornare in quel deserto. Non volevo che quella fosse lo specchio della mia anima, quello che gli altri potevano vedere attraverso i miei occhi.

 

Un leggero scricchiolio proveniente dal portico, accanto alla finestra della mia stanza, attirò la mia attenzione. Con sguardo vigile e ormai assuefatto all’oscurità, mi accorsi di strani movimenti presso le gambe del vecchio tavolo nella veranda.

Come spinta da una nuova forza forse sciocca ma incontrastabile, lasciai di scatto la mia postazione sul davanzale, e mi diressi in punta di piedi verso la porta d’ingresso, per non svegliare nessuno.

Una volta uscita nel portico, mi accucciai presso il tavolo, ritrovandomi a fissare gli occhi gialli e spaventati di un piccolo micio, tremante per il freddo.

Quando allungai un braccio per sfiorare il suo manto morbido, quasi mi aspettavo che si dissolvesse ancora nella notte.

Ma non lo fece. Cercò invece di nascondersi, terrorizzato. Provai allora a rassicurarlo, con richiami e piccoli gesti.

Forse non potendo più sopportare il gelo della notte, alla fine il piccolo micio grigio si lasciò prendere in braccio.

Lo portai in fretta nella mia stanza, dopo aver immediatamente chiuso la finestra. Infilatami nel letto lo abbracciai stretto stretto, cercando di trasmettergli un po’ di calore. Dopo i primi minuti di smarrimento e diffidenza l’animale raggiunse alla fine uno stato di placida quiete, abbandonandosi con il capo appoggiato al mio petto.

E per la prima volta dopo troppo tempo, i miei occhi di ghiaccio permisero a calde lacrime amare di rigarmi il volto, sciolte da un’ancora giovane e flebile fiammella di speranza.

 

 

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Testo introspettivo scritto per un tema di Italiano.

Volevo condividerlo con voi. Scriverlo mi ha fatto riflettere molto su quanto sia facile che la vita tutt’ad un tratto perda senso.

Fatemi sapere cosa ne pensate^^

 

VenomousKisses

 

La vostra

FallenAngel

  
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