Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: Eirien    15/07/2013    2 recensioni
La notte degli inganni ha avuto ufficialmente tre vittime: il Gran Sacerdote Shion, Aioros di Sagitter, la sanità mentale di Saga di Gemini.
Questo, perché non tutti sanno che due giorni dopo Mitsumasa Kido è andato in cerca di un Cavaliere d'Oro. E che si può vivere due volte lo stesso destino, anche se una volta sarebbe già troppo.
Genere: Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Chameleon June, Nuovo Personaggio, Phoenix Ikki, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Track #14: In the Shadows TRACK # 14

IN THE SHADOWS

They say
That I must learn to kill before I can feel safe
But I
I rather kill myself then turn into their slave
Sometimes
I feel that I should go and play with the thunder
Somehow
I just don't wanna stay and wait for a wonder.

(The Rasmus)

Il cucchiaino da tè roteò lento nella tazza, delicato, quindi venne posato educatamente sul piattino. La porcellana d’epoca si lasciò scappare un solo, timido tintinnio, quindi tornò placidamente silenziosa. Saori Kido portò la sua bevanda alla bocca con evidente piacere. Quella miscela era la sua preferita, e in giornate come quelle trovava indispensabile aggrapparsi per lo meno ai suoi piccoli, segreti rituali. Che comprendevano il tè con i biscotti, la lettura di un paio di rivistine per teenagers, e chiudere il suo braccio destro fuori dalla porta per almeno mezz'ora. Di solito la faccenda si presentava più semplice: lei si faceva venire in mente qualche assurda incombenza che l'avrebbe tenuto lontano dall'altra parte della villa per un po', quindi si chiudeva in camera con l'ordine assoluto di non disturbarla.
Da quando avevano attaccato lo chalet per una sua infelice iniziativa, però, Tatsumi e il suo senso di colpa erano diventati segugi a prova di scusa. Quell'uomo insisteva per accompagnarla dovunque, non le dava pace e le lasciava a malapena il tempo necessario alle abluzioni quotidiane: di quel passo, sarebbe diventata la prima quattordicenne ad avere sulla coscienza il proprio tutore.
E lei aveva bisogno di fuggire, anche solo per pochi minuti al giorno. Da se stessa, da quel ruolo che le era piombato sulle spalle il giorno in cui il nonno le aveva raccontato della sua nascita, dal senso di colpa che la trapassava come un dardo avvelenato ogni volta che i suoi cavalieri tornavano da un combattimento, sempre più cupi, sempre più malmessi.
E lei sapeva già, con l'intuito di quella coscienza millenaria che aveva cominciato a ridestarsi in lei, che le difficoltà erano appena agli inizi.
Avrebbe dovuto rivelare la verità, prima o poi. Non sapeva cosa la stesse ancora trattenendo, se non forse l'infantile paura di perdere se stessa, di non essere più Saori dall'istante esatto in cui avesse confessato loro le sue vere origini, reclamato davvero il destino che le spettava. Loro avrebbero chinato il ginocchio a terra, colmi di rispetto, perché era quello il loro compito, la loro parte nella storia. E la sua sarebbe stata quella della sovrana, per sempre, senza più alcuna speranza di diventare altro che un’icona.
Anche se le sarebbe stato utile scoprire esattamente in che modo avrebbe preferito essere conosciuta. E, un domani forse non troppo lontano, ricordata.
Non era più la bambina che scambiava gli aspiranti Santi per cavalier serventi raccattati dal nonno in qualche squallido buco per il suo esclusivo divertimento, no. L'aveva imparato tanti anni prima, di fronte allo sguardo severo di Mitsumasa, alla sua mano che indicava, mostrandole davvero, e per la prima volta, le ferite che poteva infliggere la sua cattiveria acerba. Seiya con la bocca piena di sangue e gli occhi colmi d’odio. Jabu, le ginocchia scorticate fino all'osso, pronto ad immolarsi ancora per un malriposto senso di gratitudine. Chissà quanto le era grato adesso, dopotutto.
Era una bambina, allora, e di fronte al rimprovero inatteso del suo nonnino, aveva provato per la prima volta una vergogna ancora acerba ma tenace, di quelle che non si dimenticano mai.
Quella stessa vergogna, accuratamente nascosta, era ricomparsa il giorno in cui aveva dato inizio a quel torneo voluto fino all’ultimo da Mitsumasa, di fronte al primo sangue scorso in mondovisione. L'arena, il ring esagonale, le telecamere… e lei stessa, patetica imitazione della Divinità di cui era simulacro. Eppure aveva funzionato, proprio come aveva previsto suo nonno. In Grecia, qualcuno era stato pungolato, aveva iniziato a dubitare. Ed aveva reagito. In maniera guardinga, testando le loro forze, non osando mettere a parte dei suoi timori le sue risorse più forti. Il potere dell’usurpatore doveva posare su basi davvero fragili, se una minaccia risibile come la loro lo costringeva a quel minuetto.
Ma anche le loro vite, ora erano appese al filo della prudenza di Arles. Come quelle dei milioni di esseri umani cui il Santuario continuava a fare la guerra.
La Conferenza della Pace interrotta in un bagno di sangue, gli attacchi terroristici, l’accanimento all’apparenza privo di senso contro Stati ormai in ginocchio…
Milioni di vite senza speranza di aiuto.
Saori sospirò, di dedicarsi alla sua mezz'ora d'aria non c'era tempo neppure quel giorno. Premette un tasto sul piccolo interfono accanto alla sua tazza, sorbita appena a metà.

 — Tatsumi? Tatsumi, contatta Altair, per favore. Ho bisogno di parlare con lei, il prima possibile. —


~.~


Quel maledetto sole non si ammorbidiva mai? Cuoceva i cervelli e rimbalzava sui marmi, impietoso, ferendo gli occhi nonostante ormai fosse autunno inoltrato.
Phaeton, novello Primo Ministro, si ritrovava a pensare sempre più spesso che il clima non fosse esattamente uno dei vantaggi della vita al Santuario di Atene. Anche se sì, poteva ritenersi sodisfatto di se stesso. La seconda poltrona più importante del Tempio era sua, ex-soldato semplice, ex-capitano di ronda, ex-consigliere del nobile Gigars, e poco importava quanto la misteriosa scomparsa del suo predecessore testimoniasse la transitorietà di quella carica. Lui si considerava ben più intelligente, e spietato, e sapeva bene come badare a se stesso.
Lui non avrebbe commesso gli stessi sciocchi errori, non avrebbe mai perduto la stima del Sommo Arles. Lui, che aveva lottato tutta la vita per questo obiettivo.
Si concesse una rapida analisi delle ultime ore, soddisfatto. I punti della sua personale lista si stavano completando con estrema rapidità: Misty della Lucertola, seppure di malavoglia, già si stava preparando a partire per la missione che gli aveva assegnato.
Il primo, il più importante compito da portare a termine era la morte di quei cinque miserabili di Tokyo, proprio quello che Gigars non era riuscito a completare, e farlo con efficiente rapidità: niente sarebbe servito meglio a consolidare la sua posizione. E un passo altrettanto importante  sarebbe stato sottomettere  tutti quei Santi boriosi che altrimenti l’avrebbero sempre guardato dall’alto in basso, e ribadire una volta per tutte il suo ruolo di potere. Phaeton sorrise appena, tra sé, e si diresse verso la sagoma dai capelli fulvi che intravedeva, come una macchia di colore, tra l’abbacinante biancore delle colonne di marmo.
Una donna che Phaeton conosceva bene, il cui orgoglio avrebbe sgonfiato con estremo piacere.
Un monito per tutti gli altri.
“Sì, tu farai proprio al caso mio…”

 — Marin dell’Aquila, fermati — l’apostrofò, costringendola a voltarsi. — Ho un compito per te. Andrai in Giappone con Misty della Lucertola, e mi porterai indietro la testa di Seiya. —



~.~


Si stava facendo tardi. Quel sole pallido e sbiadito sarebbe calato presto, sfumando verso quella che prometteva di diventare in una serata ventosa e umida. Kelly si sentì pervadere da una inspiegabile sensazione di malinconia. Non che temesse il freddo, quello no… ma il buio della notte stava giungendo troppo in fretta per i suoi gusti. Dave era scappato come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, appena s’era ricordato di un appuntamento con suo fratello, e li aveva piantati in asso senza ritegno, lei e l’altro ospite.
Sorrise appena, chiedendosi quanto tempo avrebbe resistito stavolta, prima di mandare Michael all’inferno con una scrollata di spalle. Accadeva anche a lei. Era tanto preoccupata per il suo Steve che non avrebbe mai voluto allontanarsi da lui per più di tre metri. Ma questo non escludeva che l’idiota borioso in cui si era trasformato la irritasse quanto neppure il Camus più ispirato riuscisse ad ottenere.
Lanciò un’occhiata in tralice alle proprie spalle. "A proposito di te…"
Strano fenomeno. Il Gran Maestro era diventato uno zombie. Non che fosse mai stato particolarmente vivace, ma due ore di mutismo assoluto erano sospette perfino per lui. E da quando Dave se n’era andato era rimasto immobile, nella stessa posizione, lo sguardo fisso sul nulla. Non ascoltava e non rispondeva, come perso in un piccolo mondo privato. Kelly si torceva dal desiderio di spedirlo a fare il prezioso a casa propria, ma la curiosità che quell’assurdo contegno le suscitava era troppa.
Sentiva puzza di bruciato: di Fenice appena risorta, per la precisione. Appena ne avesse avuto l’occasione, avrebbe messo sotto torchio quell’idiota vestito di piume di bronzo. Tanto dal sig. Iceberg non avrebbe ricavato nulla, e tutto sommato cominciava a farci l’abitudine. "Io so aspettare, maestro. Prenderti per fame, perché no?"
A quel punto si chiedeva se non le sarebbe convenuto farsi ibernare, per non rischiare che le venissero i capelli bianchi. "Potrei chiederlo a te. Scommetto che ti riprenderesti al volo…"

Riprese a guardare fuori. E si rabbuiò di colpo. Avrebbe riconosciuto ovunque quel nido di capelli castani perennemente arruffati. Di certo non se li era neppure pettinati, quella mattina, se non con le dita, tanto per mettere a posto la coscienza. E poi, quel passo inconfondibile. La camminata elastica di Tony Manero, lo stesso modo di ancheggiare come se il mondo gli appartenesse di diritto. E anche se non poteva vederlo, sapeva che aveva sulle labbra lo stesso sorriso a metà tra l’ingenuo e lo sfrontato.
"Mark…"
Non era solo. Non lo era mai, quando lo spiava mentre passeggiava sulla spiaggia. Rideva, lo vedeva chiaramente, e poggiava un braccio sulle spalle di quella Miho. Lei gli camminava accanto tutta rigida, emozionata. Kelly era convinta di sapere cosa stesse aspettando. "Non davanti ai miei occhi, per favore…"
Si diede della sciocca. "Che te ne importa? È finita. Non sarà mai come prima…"
Lo sapeva, lo sapeva eccome. "Solo che…"
La loro prima vacanza, e l’ultima lite. Mykonos – Atene, passando per la disabitata Kèa. Una spiaggia candida, un mare troppo azzurro e loro due soli, per una volta. Un consiglio di sua sorella, approvato da Jason con una strizzata d'occhio complice e da Dave con un ghigno significativo. Steve, quel maledetto che la conosceva meglio di chiunque altro, si era limitato a scrollare le spalle ed era andato a bersi una birra illegale in spiaggia, sicuro che si sarebbe trattato di tempo perso.
Troppo poco tempo. Troppe parole non dette, troppi sentimenti inespressi. Era stata davvero innamorata di lui?
Kelly si coprì il viso con le mani. Quei pensieri saltavano fuori nei momenti meno opportuni, ed era stanca di ricacciarli indietro. Dimenticò dov’era, dimenticò di non essere sola, per vedere soltanto lui. Quella mano che sfiorava la guancia di una ragazza che non era lei, che scostava una ciocca dal viso arrossato, che le sfiorava il naso quasi per caso, era la stessa che aveva stretto la sua per un tempo troppo breve.
“Non ho avuto il tempo di dirti addio…”
Erano passato così tanto tempo, dall’ultima volta che aveva pensato davvero a loro due.
A quando giocavano a nascondersi nei corridoi della base, a quei baci rubati e alle sue mani che la facevano sentire l'unica al mondo. Al cuore che batteva forte, e al desiderio di averne sempre un po' di più.
A quelle sveglie che le rendevano più sopportabili gli allenamenti quotidiani, a quelle dita che stringevano le sue a fine giornata.
Alle discussioni sugli argomenti più stupidi, che le lasciavano sul cuore grumi sempre più grandi, da non potersi più sciogliere con un sorriso.
E a quella sera, in cui lui era venuto ad augurarle la buonanotte, e lei gli aveva chiesto di non andare, emozionata e con indosso quella sottoveste bianca che la faceva sentire più grande.
Non era andata come aveva sperato.
Avevano litigato furiosamente. Per cosa, poi? Di giorno in giorno Kelly scopriva di ricordarlo sempre meno. Ricordava bene soltanto com’era finita.
Il suo piumone colorato. Un groviglio di braccia e di gambe. Le mani che curiosavano in tutte le direzioni, guidate solo dall’istinto. Nessuno dei due l’aveva mai fatto prima.
La prima volta non è un tappeto di rose, non è la sinfonia degli angeli. È imbarazzo, ignoranza, brividi che colgono di sorpresa, perché nelle tue fantasie non l’avresti mai immaginata così.
No, non era come nei romanzi d’amore. Nei film non capita mai che il tuo amante focoso ti strappi una ciocca di capelli tentando di abbracciarti. Non gli viene un crampo alla gamba proprio quando sembra che abbiate capito come si fa.
Sorrise della se stessa di allora, come se fosse diventata molto più saggia, come se da quel giorno fosse passata una vita. “In un certo senso è vero…” Aveva creduto davvero che stare insieme ‘da grandi’ li avrebbe messi al riparo dall’incomprensione e dal distacco? Nulla cambia il destino di un rapporto destinato a morire. Era stata ingenua e infantile, ma ci aveva sperato davvero.
Lo aveva pensato anche Mark, ne era sicura. Sapeva quel che gli passava per la testa e riusciva sempre a gestire le sue reazioni. Era rassicurante come un film di cui si conosce già il finale. Come suonare lo stesso giro di Do per tutta la vita.

 — Ragazzina… —

Kelly non riuscì a reagire, pur riconoscendo la voce che tentava di riportarla indietro. Si massaggiò le tempie con la punta delle dita. Faceva male pensarci. Ogni volta che metteva da parte quei ricordi si sentiva un poco più stanca. Cos’era che aveva creduto di provare, quel giorno? E perché soltanto adesso intuiva che nessuno dei loro sforzi avrebbe funzionato, che niente avrebbe allontanato la fine? “La solita musica alla lunga viene a noia… e in fondo lo sapevamo entrambi.”

 — Kelly, si può sapere cos’hai? —

Si riprese. “Toh, l’orso polare è uscito dal letargo.” — Niente… — si decise a rispondere, con una vocetta sottile. Aveva voglia di piangere, e neppure sapeva perché.

Camus aveva gettato un’occhiata oltre la finestra. Se pure era riuscito a indovinare il motivo del suo malumore, non pareva intenzionato a commentare, né a propinarle consigli non richiesti. Sembrava contrariato, però, ed era facile immaginare perché, lui che probabilmente non aveva mai preso in considerazione una distrazione in vita sua. “Ti prego, graziami. Non sono in grado di sorbirmi un’altra ramanzina sulle mie gravi responsabilità.”

 — Sto andando via — lo sentì proferire, e non riuscì a capire se fosse seccato o soltanto stanco quanto lei. Certo non l’aiutava se restava impalato, senza muovere un passo.

 — Di già? — Se era rimasto con lei per tutto quel tempo, un motivo doveva pur esserci. — C’era qualcosa di cui avremmo dovuto parlare, maestro? — tentò, senza troppa speranza. “Commediante da strapazzo. Avrò mai il bene di sapere cosa pensi davvero?”

Camus scrollò le spalle, come se quella domanda avesse un’importanza minima. — No, non credo. Personaggio… interessante, il tuo amico David. —

Lei sorrise appena. “Non hai ancora visto niente, maestro.” — Pensavo restassi a cena. — Un’idea dell’ultimo minuto. Non voleva che andasse via anche lui. “Non lasciatemi tutti stasera…”

Lui incrociò le braccia stancamente. Le scoccò un’occhiata indagatrice. — Ragazzina… —

Kelly lo interruppe, con poca grazia e uno sbuffo spazientito. — Ti avverto, un altro ‘ragazzina’ con quel tono e potrei aggredirti. —

L’ombra di un sorriso sul quel viso tanto bello quanto serio. — Potrei farlo proprio per allenare la tua scarsa pazienza… —

Gli voltò le spalle, tentando di dominare l’improvviso desiderio di mettergli le mani addosso. — Alle volte penso di detestarti, maestro… —

“Alle volte? Sei di buonumore, dopotutto.” — Potrei accettare l’invito, ma dipende da quello che offri. Sono molto esigente, riguardo al servizio… —

“Che razza di faccia tosta…” Kelly si voltò a passo di carica, ritrovandosi a sbattere contro qualcosa. Camus, o meglio, la maglietta di Camus con sotto quel tonico ben di dio che le faceva male alla vista e alle coronarie. E quello sguardo profondo, che faceva venire voglia di avvicinarsi di più, abbastanza da strappargliela via e scoprire il puro e semplice odore della sua pelle. Indietreggiò di un passo, arrossendo di vergogna. Camus intimidiva e attraeva come quella montagna su cui l’aveva cresciuta, ed era troppo impegnativo fingere in continuazione di non accorgersene.

 — Tu… tu… tu… —

Lui sollevò un solo, singolo sopracciglio, quello della condiscendenza divertita. Quello che, se solo fosse stata in possesso delle sue facoltà mentali, l’avrebbe mandata su tutte le furie. In quella circostanza… la ragazza deglutì, nervosa. Faceva troppo caldo, in quella stanza. Sissignore, troppo caldo.

 — Io cosa, ragazzina? —

 — Tu… non conosci la vergogna, lo sai? — lo rimbeccò, schiarendosi la voce e agitandogli un dito sotto il naso.

 — Sei stata tu ad invitarmi… — le fece notare lui, senza scomporsi. Di colpo, le sembrava quasi divertito. La seguì in cucina, in mano le tazze del pomeriggio, e incominciò a lavarle senza che glielo avesse chiesto. Gliele avrebbe incrinate, come minimo, e forse avrebbe fatto cadere tutti i piatti tentando di metterle a posto, ma lei non avrebbe mai avuto il coraggio di farglielo notare, non finché lui avesse conservato quell’accenno di sorriso. Da quando gli bastava scroccare una cena per sentirsi soddisfatto?

“Non ti capirò mai…”



~.~


Pel di Carota Sexy era tornata, finalmente. Alex osservò con curiosità e disagio crescenti le occhiate roventi che la loro improvvisata relatrice scambiava con la sua amica. Katie, d’altro canto, pareva furiosa e circospetta insieme, e lui e Max non potevano fare altro che fissarle entrambe, pregando che il mezzo sorriso beffardo della dama in tailleur non stesse per segnare l’inizio della catastrofe.
Jack Allen si schiarì la voce, rumorosamente, scoccando un’occhiata feroce alla sua accompagnatrice. Una di quelle occhiate incredibilmente espressive che l’avevano reso famoso, o meglio… orribilmente famigerato. Clara Galesi si ricompose, non era tipo da ignorare certi segnali. E diede fuoco alle polveri.

 — Immagino che tutti voi abbiate appreso del nuovo incarico del vostro supervisore — esordì, con un’espressione che trasudava malafede. Espressione traducibile in molti modi, e nessuno particolarmente benevolo. — E che abbiate studiato con attenzione il materiale che vi è stato inviato. — Claire si soffermò un istante, giusto il tempo di valutare la reazione dei suoi astanti. Un secco cenno del capo, da parte della ragazzina. Occhi spalancati come padelle, da parte dei due maschietti. “E se questi sono i tuoi migliori, Martin…”
Sorrise di se stessa, prima ancora di aver finito di formulare quel pensiero. Le sue considerazioni non avevano importanza. Non importava se e quanto quei ragazzini fossero bravi sul campo, o quanto somigliassero a quello che lei stessa era stata alla loro età. Lei sapeva, sapeva sul loro conto molto più di quanto chiunque altro potesse supporre. Era rimasta in contatto con il suo amico, il suo mentore, in tutti quegli anni, senza che alcun estraneo lo venisse a sapere. Una sola telefonata, tutti i sabati, con qualunque fuso orario, a Washington, a Singapore, sotto copertura o su un campo di battaglia sperduto nel deserto.
Martin, il suo migliore amico. Sempre presente, nella buona e nella cattiva sorte.
E attraverso i racconti di Martin li aveva seguiti a distanza, tutti quei ragazzini, appassionandosi come ad una telenovela di dubbio gusto. Aveva riso come una pazza quando, da un accenno svogliato, aveva compreso che David ce l’aveva ancora con lei per quello scherzetto vecchio di tre anni buoni. Claire sapeva che Max era un hacker esperto, che Alex sperimentava la cannabis con lo stesso rigore scientifico che Sherlock Holmes riservava alla cocaina, e che quando Katie ti guardava in quel modo con un AK-47 in mano era meglio fuggire.
E sapeva anche quanto pesasse il vuoto degli assenti, quelle tazze abbandonate e quei letti vuoti nel cuore del suo amico. Martin era un soldato, e i soldati certe cose non le dicono. Ma lei sapeva. E non avrebbe mai lasciato perdere, proprio perché per lui era così importante. Avrebbe fatto quello che avrebbe dovuto fare lui, se Wood non lo avesse confinato chissà dove. E li avrebbe condotti al sicuro.
 — Avanti, a cosa ritenete che portino, quelle cartine? — li pungolò.
 
 — Oltre che a te, intendi? — sottolineò la ragazzina, con pesante sarcasmo.

“L’hai capito tutto da sola? Direi che ti ho sottovalutata.” — Forse dovrei scusarmi per la violazione del tuo armadietto — convenne Claire, con un sorriso che significava tutto tranne che delle scuse.

 — Non è con me che dovresti — ritorse Katie, tagliente. — Quanto a quel codice, sono stata io a trascurare alcuni protocolli di sicurezza, quindi… —

“Concreta e velenosa. Ruser ha scelto bene, per una volta.” — Bene. Se l’incidente è chiuso, possiamo arrivare al dunque. Ma forse dovrei cominciare dall’inizio. —

 — Non troppo dall’inizio, Galesi. Non abbiamo tutto il giorno — borbottò Allen, un’altra tazza di caffè già pronta e un’occhiata quantomai nervosa alla porta.

La donna scosse la testa, come se avesse assistito a quella scena troppe volte per replicare, o anche solo per prestarvi attenzione. — Sono circa quattro mesi che conduco indagini autonome sulla scomparsa dei vostri compagni di squadra. Non tanto sul come, quanto sul perché. Martin non lo sapeva. — Certo, lei non gliene aveva mai parlato, quindi lui doveva averlo scoperto quasi subito. — Nessuno dei miei tentativi ha avuto successo. Finché, un paio di settimane fa, ho avuto un colpo di fortuna. Il dipartimento a cui mi hanno assegnato quando ho lasciato Washington fa parte di un progetto molto particolare, sapete. —

 — Ma cosa mi dici mai… — interloquì Alex, pungente.

La donna decise per una sana indifferenza, e Allen si complimentò con se stesso per l’abilità con cui aveva sempre svicolato, alla larga da qualunque incarico da addestratore. Si chiese anche, distrattamente, come avesse fatto Rothstein a non diventare matto del tutto. Non più di quanto non fosse in origine, comunque.

 — Davvero molto particolare — riprese la donna, come se nessuno l’avesse interrotta — dal momento che svolge indagini su casi… speciali. Casi che vanno al di là dell’ordinaria comprensione umana. —

Una mano si sollevò, beffarda, attaccata al braccio di un aspirante suicida. — Dobbiamo chiamarti Agente Scully, adesso? —

 — No, se tenete alla pelle. E prima che tu me lo chieda, Alex — sbuffò, prima che le rubasse ancora la parola — l’Area 51 esiste. —

 — L’alieno che dovrebbero sottoporre ai più crudeli esperimenti? —

 — Ti avverto, Barzini, un’altra battuta e finirai a cantare da soprano ai Bar Mitzvah — si immischiò Jack Allen, con un’espressione peggiore di quella di Martin il giorno in cui avevano deciso di farlo smettere con le sigarette.

Il ragazzo alzò le mani in segno di resa, mentre i suoi compari alzavano gli occhi al cielo. — Il tuo.. reparto… conduce indagini su fenomeni paranormali? — chiese Katie, con interesse.

Claire esitò, poi la guardò diritto negli occhi. — Ti conviene non saperne troppo, McArthur, ma sappi che mi hanno associato ad un progetto innovativo e sperimentale quanto il vostro, anche se in… termini diversi. —

 — Insomma — riprese Alex, con un’occhiata guardinga ad Allen — Lavori con i men in black.

“È incredibile quanto il cinema di terz’ordine contribuisca alla formazione dei nostri agenti migliori…” La donna spiegò sul tavolo un’enorme mappa ad infrarossi, annuendo. — Una scelta di lessico davvero appropriata, non c’è che dire. Ma penso che sì, potresti spiegarlo così. Ora, se osservate questa cartina della penisola ellenica — indicò, aggiungendo un’altra foto satellitare — e questo ingrandimento della zona di Atene, forse osserverete due cose —

 — Cosa mi rappresenta questa sorta di “tornado” sulla destra? — Max, quello che Claire aveva sempre ritenuto il più sensato di tutti, aveva posto finalmente l’unica domanda intelligente di quella malaugurata conversazione, indicando con il dito una zona montuosa a est di Argiroupoli. Una zona che, almeno in teoria, avrebbe dovuto far parte di un sito archeologico pericolate, e dunque recintato e protetto. Fin troppo protetto, aveva scoperto. La donna annuì, un’occhiata a Jack.

 — Quello è il motivo per cui le vostre indagini, almeno fino ad ora, non hanno mai avuto successo. Ed è il motivo per cui forse, da oggi, le cose cambieranno. —

 — In che modo? —

 — Come sapete bene, i vostri amici sono scomparsi quattro mesi fa, ad Atene, durante la notte tra il tre e il quattro giugno, attorno alle due del mattino. Eravate usciti insieme, ma vi siete divisi presto. A piccoli gruppi, siete stati attirati fuori dalla folla, storditi con rapidità, e quando avete ripreso il controllo di voi stessi… era tardi. Sette di voi erano svaniti nel nulla. Soltanto Max ha potuto fornire un resoconto, seppure frammentario e a tratti contraddittorio. —

Annuirono, tutti, a capo chino, ciascuno perso per un istante in quel flusso di ricordi scomodi. Max ripensò, furente, ai resti della camicia di jason, al viso coperto di sangue di Kelly, un attimo prima di perdere i sensi, all’angoscia di non trovare traccia della sua Chris… e a quell’uomo imponente, avvolto in un mantello tanto fuori luogo in quella notte mite… alto, con i capelli lunghi… lanciò una lunga, colorita imprecazione in tedesco stretto, prima di ricordare che tutti i presenti erano in grado di capirlo perfettamente.
Come aveva potuto dimenticarlo?

 — L’uomo della foto — annunciò, funereo. Allen sollevò lo sguardo dai suoi documenti, fissandolo come se volesse espiantargli le informazioni direttamente dal cervello. — Il ‘ganzo’ di Wood … credo che quella sera fosse presente. Era uno dei rapitori. — Ripensò, con maggiore attenzione di quanto non avesse mai fatto, all’aspetto di quell’uomo, allo sguardo freddo del killer addestrato, all’atteggiamento di chi è abituato a prendere il controllo della situazione. “Quell’uomo è come noi.” — Probabilmente il capo — concluse, con un’occhiata di scuse.

 — Sì, lo sospettavamo anche noi. Come sospettavamo che fosse quello, il motivo per cui a qualcuno piacerebbe tappare la bocca al nostro Max. Ma alcuni di voi ne erano già informati, non è così? —

Max roteò gli occhi a destra e sinistra, fino ad incontrare gli sguardi colpevoli e sfuggenti dei suoi due amici — E voi, quando pensavate di farmene partecipe? — sbottò, irato.

Claire sorrise, sardonica. — Martin sembrava convinto che non avresti apprezzato che i tuoi amici si trasformassero in angeli custodi, pare. —

“E aveva ragione.” Il ragazzo tornò a guardare la cartina. — Qualunque assurdo piano abbiate messo in opera, piantatela immediatamente. Non rischierò di perdere altri di voi, neppure se ve lo ordinasse il Segretario Generale in persona. —

“Non credo che tu abbia molta voce in capitolo, Max”. Claire gli dedicò uno sguardo colmo di ammirata compassione, cambiando discorso con agilità. — Ora, ragazzi… la ragione di quella perturbazione che potete intravedere nell’ingrandimento satellitare è un’insolita e persistente attività elettromagnetica nella zona interessata. — La donna proseguì, più concitata. Doveva arrivare al punto, finalmente. Tanto più che qualcosa le diceva che non avevano più molto tempo. — C’è un motivo, che interessa il mio dipartimento molto da vicino. —

Jack Allen ebbe un moto di nervosismo. —Questa parte me la risparmio, grazie. L’ho sentita una volta e mi è bastata. Prenderò un altro caffè — borbottò, uscendo nel corridoio, ma lasciando la porta socchiusa.

“Caffè, come no…” Katie era certa che tutti avessero notato un certo tramestio sotto il tavolo dell’ufficio che avevano preso in prestito. Un gesto familiare, che tutti loro associavano istintivamente ad armi da fuoco e sicure che venivano rimosse. La ragazza incrociò lo sguardo di Claire, che le restituì un’occhiata solidale e preoccupata. Per quanto la seccasse ammetterlo, c’era davvero molto da imparare da quella donna, agente esperto e amica di Martin prima di loro.

 — È ora di dare un senso a questa lezione. — Claire trasse da una borsa un libro dall’aria antica, e dalla copertina piuttosto rovinata. — Miei giovani padawan, spero che il vostro latino medievale sia buono quanto basta, perché non credo che avrò tempo di tradurvi quello che ho letto in questo volume. —

Katie tese una mano, e socchiuse gli occhi, tentando di decifrare i caratteri sbaditi sulla copertina. Poi comprese, e il volume quasi le sfuggì di mano. — Dove l’hai preso? — bisbigliò, colpita.

La donna le sorrise ancora, un sorriso aperto e compiaciuto. — Questo, al momento, non è importante. —

 — Ma di che diavolo si tratta? — intervenne Max, sorpreso.

Fu Katie a rispondere, scorrendo le dita sulla pelle lisa e consunta dal tempo. Il Santo Graal dei bibliofili, il volume che avrebbe fatto impazzire suo nonno, che le aveva trasmesso la sua passione, se fosse stato ancora lì per vederlo. Era prezioso, perché decorato d’oro. Ed era stato un amanuense a miniarla, perché aveva visto la luce molto, molto lontano dal torchio di Gutenberg. — Questo… questo è un volume che si credeva perduto da secoli. Se non si tratta di un falso… — e non lo era, almeno a giudicare dallo sguardo di Claire — questa è l’unica copia ancora in circolazione del Liber Mundi. —

Max fissò prima lei, poi il volume, tentando di attribuire un senso a quell’ultima rivelazione. “Rosencreutz… i suoi segreti sono davvero la chiave” — Il Liber Mundi? —

 — Il Libro del Mondo — sottolineò Alex, come se ce ne fosse stato bisogno.



~.~


Kelly prese un’altra molletta dal cesto, quindi provvide a fermare l’ultimo calzino. Rimase per qualche istante alla finestra, a godersi la quiete della notte. Le piaceva sbrigare certe faccende mentre tutto il resto del mondo pareva dormire, o essere in procinto di farlo: il silenzio l’aiutava a pensare. E qualche volta, persino a rilassarsi.
Certo, se la sarebbe cavata meglio se il vicino maniaco avesse smesso di tentare di spiarla con quel ridicolo binocolo, ma in fondo la vita poteva essere peggiore, da quando aveva ritrovato un altro dei compagni che aveva perso.
Camus se n’era andato da tempo, dopo essersi offerto di lavare i piatti, per la verità senza troppo entusiasmo. Lei aveva soppesato l’offerta per meno di un nanosecondo, quindi gli aveva offerto il bicchiere della staffa, scongiurandolo di stare alla larga dal suo lavandino. “Un’altra delle sue cortesie, e mi ritroverò a corto di stoviglie.”
Certo, era stato facile averlo attorno, serio come sempre, ma forse un po’ meno sostenuto del solito. E lei ancora non riusciva a capire come avesse fatto a sciogliersi tanto, a dimenticare finalmente per un paio d’ore il male e il ricordo del rapimento. Aveva incominciato a parlare senza quasi rendersene conto, versando il whisky made in Ireland in due bicchieri di vetro spesso e pesante, fingendo di non notare il suo sguardo di ferrea disapprovazione. Gli aveva raccontato della loro infanzia alla base, della morte dei genitori, dell’addestramento crudele, degli scherzi e delle risate, di come Dave le avesse rifilato quel ridicolo soprannome e del giorno in cui era finalmente riuscita a lanciarlo diritto tra le braccia di Katie.
Di suo fratello e sua sorella, di Martin e delle sue sigarette, di come avrebbe voluto almeno potergli dire di non preoccuparsi troppo.
Camus aveva parlato poco, ascoltato molto, e accennato un paio di sorrisi. Sembrava davvero interessato, a lei, al suo racconto, a tutti loro. Forse anche il suo maestro di ghiaccio stava cambiando, un pezzetto per volta. Chissà, forse un giorno sarebbe diventato qualcuno di cui potersi davvero fidare. Forse un giorno sarebbe riuscita a superare anche quello scoglio, e gli avrebbe chiesto di raccontarle di quella notte che aveva cambiato loro la vita. E forse lui le avrebbe risposto. Forse.
Un giorno.
Chissà.
Si voltò.

 — Resterai impalato ancora per molto, o verrai a sederti? —

David le dedicò il suo ghigno più amabile, uscendo dal cono d’ombra accanto alla porta, e accese la luce principale. Lei chiuse la finestra con attenzione, si tolse la maschera. E attese.

 — Come hai fatto a sentirmi? — si decise a chiedere lui, traendo due secchielli di gelato da un sacchetto di carta.

 — Hai fatto scattare la serratura — sorrise la ragazza, le mani nel cassetto delle posate.

 — Non insinuerai che sia arrugginito — David finse di indignarsi, lanciandole in mano il secchiello al cioccolato fondente.

Si scambiarono un’occhiata complice, un cucchiaio enorme lanciato con precisione nelle mani del suo amico. Kelly aprì la confezione, ridacchiando. — Non tu, la porta. Bisognerebbe oliarla da quando sono arrivata. Ma sai, credo proprio di preferirla com’è. —

 — Furba e malfidata — approvò Dave, prima di brandire il cucchiaio e sprofondare nella poltrona gonfiabile. Sì, tornare da lei era stata una buona idea. Quel posto, in qualche modo, sapeva di casa. Lo faceva sentire come se potesse ignorare la loro vita rivoltata come un calzino almeno per cinque minuti al giorno.

 — Allora, con tuo fratello è andata tanto male? — la ragazza si stese sul divano, la stanchezza della giornata appena trascorsa che cominciava a scioglierle i muscoli.

Dave lasciò andare il cucchiaio con stizza. — È convinto che i nostri genitori siano sepolti nel cimitero di Aoyama —

Lei quasi si strangolò, incredula. — Sul serio? E quando andate a trovarli? — tentò di scherzare.
Lunga, lunga pausa. “Non dirmi che…”

 —Domani — brontolò lui, irritato. — Domani andiamo a porgere i nostri omaggi all’ossessione di mio fratello. L’amnesia non bastava, evidentemente. —

Kelly annuì, comprensiva. Il cervello ottenebrato, la sensazione di impotenza e di non avere memoria di se stessi… E la tua stessa mente che ti tradiva, e generava dei ricordi che riempissero il vuoto di quello che ti avevano strappato. — Lo so. Steve… anche lui… — si interruppe. Stava per toccare un tasto troppo doloroso, e per quella sera non se ne sentiva in grado.

Il ragazzo chinò lo sguardo, vergognandosi. Certo che la conosceva, la storia della mamma morta e intatta nelle acque gelide del mare siberiano. Gliel’aveva strappata dalla mente per distruggergliela, un giorno di non troppo tempo prima. E non è che ne andasse esattamente fiero. — Ancora non ricorda nulla di Christine, vero? —

 — No. — Kelly scosse la testa brevemente, quindi appoggiò il gelato sul pavimento. — E lei fa finta che non importi, dà il buon esempio, come sempre. —

David alzò al cielo il cucchiaio, in un silenzioso gesto d’onore. “Cambiamo discorso…” — Tua sorella è sempre stata una roccia. Ricordo… —

 — Ricordi anche cosa hai blaterato, oggi pomeriggio, quando sei rimasto solo con Camus? — lei lasciò cadere la bamba, un sorrisetto pestifero e colmo d’ironia.

Colpito e affondato, quando meno se lo aspettava. Se solo fosse stato meno stanco di essere sempre in guardia se la sarebbe cavata meglio, ma, in quelle condizioni, David annaspò per qualche fragile, incerto secondo. Che bastò per ritrovarsela addosso.

 — Su, dimmi la verità, vecchio mio — sussurrò lei, da un punto imprecisato dietro la sua nuca, le mani saldamente aggrappate alle sue spalle. Nel giro di un solo istante Ikki di Phoenix tornò a galla, furioso e letale, facendogli provare l’istintivo desiderio di spezzarle. — Vedrai che dopo ti sentirai meglio. —

“Ne sono certo.” L’istinto feroce e testardo tentò di prendere il sopravvento, di stringere le dita attorno a quei polsi sottili e sentire gridare. Un paio di secondi, non di più, che lo lasciarono spossato e triste. Il demone si arrese con un ultimo ringhio, e con esso anche la voglia di spiattellarle la verità. La verità, come no. Sapeva cosa avrebbe dovuto raccontarle, senza dubbio. Era quello che la sua parte più razionale, pressoché inascoltata, urlava a gran voce che si dovesse fare. Era il desiderio della sua amica, che non meritava quella reticenza. Era evidente. Com’era evidente, e il suo istinto raramente sbagliava, che quel particolare segreto non suo era ancora necessario, in qualche modo. E lui sapeva quanto danno potesse derivare da parole intempestive. “Non farmene pentire, Camus dell’Acquario.”

 — Gli ho detto che spero sappia cosa sta facendo — si decise a rispondere, augurandosi di suonare sincero quanto bastava per chiudere quella porta una volta per tutte. Lei lo lasciò andare, girando attorno alla poltrona. Strinse gli occhi, dubbiosa. — E gli ho anche ricordato che la Terra non è un posto abbastanza grande per nascondersi da una spia inferocita. —

 — Tu l’hai… l’hai minacciato? — insistette lei, le mani incrociate sul petto e un’espressione assolutamente incredula.

 — Se vuoi vederla così… —

La ragazza gli diede le spalle, le mani fra i capelli. Solo quando il tremolio si diffuse su tutto il corpo, Dave comprese che stava ridendo. “Ti diverti con poco…”

 —L’hai minacciato. — Lei si lasciò cadere di nuovo sul divano, riprendendo in mano il suo gelato. — Tu, pazzo spaccone, hai promesso ad un Cavaliere d’Oro di fargli la pelle. Dave… sei davvero tornato. E sei completamente fuori di testa. —

“Non proprio. Sarai tu ad inseguirlo fino in capo al mondo, Kelly, se è vero che ti conosco. E io ti conosco bene.” — Perché, credi che non ne sarei capace? — ribatté lui, affettando la faccia tosta d’ordinanza.

Lei lo guardò con il cucchiaio ancora stretto tra le labbra, sorrise ancora. — Se c’è qualcuno capace di fare cose folli, David Ruser, quello sei tu. — “Sei la Fenice. Lo sei sempre stato.”

 — Io? Ne sei certa? — David ci mise tutto il sarcasmo di cui era capace, e anche quello che non credeva di possedere. “Sei quasi morta per me, Chiappe Secche.”

 — Oh, chiudi il becco — tagliò corto lei. Doveva averlo capito alla perfezione. — Sei tu quello dei numeri da circo, non cercare di tirar dentro anche me. —

 — Già. — David si interruppe, distolse lo sguardo. “Incoscienti e testardi, è questo che siamo stati io e te. Senza mai riflettere su quanto poco tempo potessimo avere a disposizione.”

 — Lei ti manca, vero? —

Katie. Nessun dubbio che si riferisse a lei. Non che gli mancasse, non precisamente. Era piuttosto la sensazione che l’aria contenesse la metà dell’ossigeno, come un perenne mal di montagna, constante ma sopportabile. Tranne quando un dettaglio gliela riportava alla mente, e allora la sensazione di vago malessere si tramutava in una martellata alla bocca dello stomaco. Quanto tempo era passato, dall’altra parte? E lei, lei cosa stava pensando? — E di Mark, cosa mi dici? — ritorse, affettando un’aria innocente e falsa come poche.

 — Mark? — Kelly lo guardò incerta, come se la terra le stesse franando sotto i piedi. — Che diavolo c’entra lui, adesso? —

“Un bel niente, ovvio.” — Sembra che quella istitutrice gli piaccia parecchio —

“Lo spii anche tu, adesso?” — Se stai tentando di rendermi la pariglia, Ruser, non lo trovo divertente. —

 — Ovvio… e non sembra neanche che la cosa ti tocchi più di tanto. —

La ragazza scrollò le spalle, di fronte a quella osservazione fuori luogo. — Non avrebbe senso, non ricorda. — Nulla, non ricordava nulla, né i giochi da bambini, né i rossori né i primi baci. E niente di quello che era seguito. Seiya di Pegasus aveva seguito un’altra strada, e di loro due rimaneva un ricordo che non potevano neppure condividere.

 — Non credo che questo farebbe differenza, dal tuo punto di vista — le fece notare David, lasciando andare il cucchiaio nel contenitore ormai vuoto. — A meno che… —

 — Eri tu a sostenere che non eravamo fatti l’uno per l'altra — lo interruppe lei, atona, come se parlasse da un luogo molto distante.

L’amico le dedicò un sorrisetto colmo di sarcasmo. Non l’avrebbe messo nel sacco, proprio no. — Già, e tu di solito mi minacciavi di evirazione solo a sentirmelo dire. Cos'è cambiato? —

"Io.. e anche lui, Dave. Ma immagino che sia superfluo sottolinearlo." Sarebbe stato molto più facile elencare quei pochi, pochissimi punti fermi che erano rimasti, nella loro nuova vita oltre quel maledetto portale. Peccato che in quel momento non gliene venisse in mente nessuno. La ragazza scrollò le spalle, senza degnarlo di un risposta.

 — Forse… hai visto qualcosa che ti piace di più —azzardò lui, con un’occhiata maliziosa. — Magari più vicino di quanto si possa credere. —

Lei scoppiò a ridere, un po’ forzatamente. — Ma davvero? — lo prese in giro. —Dave, per quanto possa solleticarti l'idea di un harem, la mia risposta è esattamente quella che ti aspetti. Neanche morta. —

“Certo, stiamo proprio parlando di me...” Il ragazzo chinò appena la testa, quindi decise di lasciar perdere. Anche se da qualche ora aveva l'impressione di aver afferrato il bandolo della matassa. Anche se sarebbe stato divertente sbatterle in faccia quello che pensava davvero. “Non solo a lei, in effetti.” No, non era il momento giusto, forse non lo sarebbe mai stato. Se solo avessero avuto abbastanza tempo… pensò, osservando distrattamente la sua amica che si alzava, pensosa quanto lui, e spariva dietro la porta della camera da letto.

 — Chiappe Secche? — la chiamò, incuriosito dal tramestio che avvertiva dietro la porta chiusa. — che diavolo stai facendo lì dentro? —

Kelly riemerse in quel momento, le braccia straripanti di lenzuola e coperte. — Non pretenderai di rubarmi il mio letto, spero — lo canzonò, gli occhi che ridevano, spingendogli la biancheria tra le mani. — Quel divano si apre — bisbigliò con aria complice.

David si sentì stringere il petto, una morsa improvvisa e velenosa. La schivò con una mossa rapida. Troppo rapida. Le lenzuola caddero a terra, senza quasi far rumore, in un mucchio scomposto. — Non… non sono qui per restare — replicò in fretta, alzandosi per riportare le posate in cucina.

 — No? E allora dove vuoi andare? — replicò lei, colta alla sprovvista.

“Dove nessuno sappia chi sono.” — Non sei la mia balia, Kelly — riemerse dal cucinino con un’espressione feroce, afferrando dalla spalliera della poltrona il giubbotto che portava più per convenzione che per effettiva necessità. Fissò gli occhi confusi della sua amica, non sapeva bene cosa dirle, ma il solo pensiero di fermarsi in un posto, quella notte, gli rivoltava lo stomaco.

 — Dimmi cosa c’è, David. Qualunque… —

 — Non posso restare — la fermò lui, tra irritazione e un vago senso di colpa. “Non riesco, tutto questo è ancora troppo. E tu dovresti saperlo.” Un’occhiata all’angolo cui era appoggiata la Fender bianca, un sorriso appena accennato. — Ma sono contento di vedere che le vecchie abitudini non sono morte. —
 
 — Dimmi solo come hai intenzione di passare la notte… —

 — So badare a me stesso, mammina — la beffeggiò lui, di nuovo simile al suo amico di sempre.

La vide sorridere e gettare sul divano lenzuola e coperte. — Almeno non scappare come un ladro — la sentì sussurrare. David rimase in piedi, appoggiato alla porta chiusa, in attesa.

La sua amica sedette a terra a gambe incrociate, con la chitarra tra le braccia, per un istante identica a quei ricordi in cui trascorreva interi pomeriggi cantando con suo fratello Michael. La morsa furiosa di Ikki di Phoenix cedette il passo di frontea quel pensiero felice, ritirandosi in un angolo profondo dell’animo di David Ruser. Forse aveva solo chinato il capo per un po’, forse era sceso a patti, accettando di divenire parte di quello che sarebbe stato il suo nuovo io. Non era stato domato, no, e lui lo sapeva. Ma, almeno per quella notte, desiderò che non avesse più importanza.

If you're lost you can look and you will find me
Time after time
If you fall I will catch you I'll be waiting
Time after time…

Pensò a Christine, sola sulla sua isola, ma sempre presente tra loro, come un fantasma benevolo. Pensò a suo fratello, e agli altri, ignari ma vivi, raggiungibili. “Poteva andare molto peggio.” Dave scivolò piano fuori dalla porta, appena più sereno, accompagnato da quelle note delicate e dalla voce non proprio all’altezza della sua amica d’infanzia. Forse, anche lui avrebbe trovato un posto in cui riposare, ora che c’era di nuovo qualcuno da cui tornare.



~.~


Altra occasione, altra miscela. Per la conversazione che l’attendeva, Saori aveva chiesto che venisse servito darjeeling pregiato e pasticcini al burro bavarese. Il nonno glielo aveva insegnato, nei lunghi pomeriggi in cui le permetteva  assistere mentre lui presiedeva le sue riunioni d’affari: atteggiamento cordiale, contatto visivo e logica stringente erano il succo della sua strategia di vittoria. E anche, perché no, profumata e fragrante corruzione culinaria. L’aveva dimenticato per lungo tempo, tratta in inganno dalla costante e gratuità fedeltà di Tatsumi, dalla compiacenza mercenaria della servitù e degli impiegati della Fondazione, ma adesso comprendeva che non tutto le era dovuto, e la fedeltà dei suoi guerrieri avrebbe dovuto guadagnarla. Solo ora iniziava a comprendere che è l’amore, e non la paura, a spingere gli uomini verso le imprese impossibili, e tutti loro avrebbero dovuto imparare a compiere miracoli, prima della fine. E davvero, non sapeva se questi pensieri glieli avesse instillati la saggezza imprenditoriale di nonno Mitsumasa, oppure l’anima onnisciente e immortale che si stava impossessando di lei, ma dopotutto non era importante.
Saori guardò l’orologio, lisciando inesistenti pieghe nella tovaglia candida ricamata ad intaglio. Sentì bussare alla porta proprio quando si stava chiedendo se la sua visitatrice avrebbe tardato, e trattenne a stento una risata di fronte all’espressione funerea del suo braccio destro che l’annunciava con circospezione e vaga minaccia nella voce. Lo congedò con un cenno, salutando la sua ospite.
Altair chinò il capo, avanzando nella stanza, abiti informali e maschera d’ordinanza. E sedette di fronte a lei.

 — Mi hai mandato a chiamare — esordì, la voce studiatamente compita. — Sarà importante… —

Saori sorrise brevemente, allungando le dita verso la teiera. Kelly notò con una punta di curiosità che la piccola, impeccabile tavola era apparecchiata per due.

 — Accomodati, ti prego. Latte? Zucchero? —

“D’accordo, facciamo a modo tuo…” Kelly sedette con grazia, scoprendo di ricordare finanche le noiose lezioni di galateo che le avevano impartito alla Base. In omnia paratus, era il motto dei loro addestratori. Che dopo il tè con i biscotti, di solito, impartivano lezioni di resistenza alla tortura.

 — Altair? —

Doveva smettere di pensarci. Anche se in quel periodo i ricordi, i buoni, i cattivi e i peggiori, sembravano tornare alla carica con entusiasmo raddoppiato, lasciandola a volte confusa e stordita. Si mescolavano, e a volte non ricordava più chi le avesse insegnato e cosa, persino che differenza ci fosse, in fondo, tra Martin e Camus. A parte quella più ovvia.
Martin non le aveva mai fatto salire la pressione ai livelli di guardia, dopotutto.

 — Saori, non che non apprezzi la cortesia, ma questa maschera non ha aperture per sorbire le bevande. —

 — Il nonno aveva una regola. Mai lasciare un invitato a stomaco vuoto. — “Soprattutto se stai per chiedergli un favore importante.” — Siamo sole, e nessuno ci disturberà. —

 — Non si tratta di questo, Saori-san… —

Saori si chinò elegantemente di lato, traendo da una tasca un foulard di seta. Lo piegò alcune volte, fissandola con uno sguardo penetrante e un sorrisetto furbo. — Sono pronta anche a bendarmi, se necessario —

“Potrei lasciarglielo fare. Anche così, sarebbe capace di sorbire elegantemente il suo tè e sbranare una di quelle millefoglie senza rovesciarsi addosso neppure un briciola” rifletté pigramente la guerriera, lasciandosi andare ad una sorrisetto nervoso. “Ma la Dea non vorrebbe che la prendessi con tanta leggerezza” concluse, stupefatta di se stessa.
In fondo, c’era altro in quella richiesta, che la mettesse a disagio. La prima cosa che le era stata insegnata era che, di fronte al nemico, la maschera era freddezza e vantaggio tattico. Scegliere di non accontentare Saori significava chiarirle che non sarebbe stata lei a dettare i termini di quell’incontro, e la logica suggeriva che fosse la scelta migliore. Nessuno che non conoscesse il suo segreto l’aveva mai vista toglierla, e a lei stava bene così. Ripensandoci, c’era una sola persona davanti alla quale avrebbe scelto volontariamente di stare a viso scoperto, a parte Chris e Dave. Qualcuno cui stava dedicando un po’ troppi pensieri, concluse, mentre Saori incalzava con quello sguardo quasi affettuoso e una teiera dal celestiale profumo in mano.

 — Niente latte e niente zucchero, grazie — decise, rimuovendo la sua prigione portatile e rivelando due occhi stanchi e provati dall’ennesima notte agitata.

 Saori approvò la scelta con un grazioso cenno del capo. — Hai ragione, le aggiunte rovinano un buon tè. Posso offrirti anche un biscotto? —

“Oh cielo, vuole giocare alle signore…” Kelly sorrise, scoprendo i denti un attimo più del necessario. “Ma dovrai arrivare al dunque.” In effetti, non sapeva se augurarselo davvero. I Kido non erano esattamente noti come latori di buone notizie.

 — Prendi uno di questi, Altair. Sono deliziosi. — Saori era calata perfettamente nella parte, ma la occhieggiava con un interesse che non aveva nulla a che fare con i suoi doveri di padrona di casa. La soppesava educatamente, guatandola come un elegante cane da caccia, e lei moriva dalla voglia di scoprire il perché. Oltre che la ricetta di quei favolosi macarons al limone.

 — Saori… —

 — Ti starai chiedendo perché ti ho invitata, oltre che per offrirti la merenda e dei frivoli convenevoli. — la interruppe la Piccola Lady.

Kelly ne doveva convenire. — Beh, apprezzo l’invito e soprattutto i dolci, ma tu sei una persona molto occupata. — “E anche io, cosa di cui forse qualcuno dei tuoi ti ha messo al corrente.”

 — In effetti non abbiamo avuto un istante di respiro, tra l’annullamento del Torneo, il mio rapimento, l’incendio della villa e dello chalet, il crollo delle azioni della Fondazione e la ricerca costante del nostro misterioso nemico. — E qui la piccola Kido la fissò con intenzione, quasi potesse leggerle in volto l’informazione che, per il bene di tutti, continuava a nascondere accuratamente. Ce lo vedeva, Mark, partire lancia in resta alla volta delle Dodici Case, e finire in polpette. “No, grazie.”

 — Comunque — riprese Saori, dopo aver sorbito un sorso di tè. — Sì, ho chiesto di te per un motivo. Che io sappia, tu sei l’unica dei miei Cavalieri a non essere apparsa in video. —
 
“Sull’essere tua avrei qualcosa da ridire.” — A onor del vero, non è che tu non ci abbia provato… —  

— Il solo fatto che i nostri nemici non siano al corrente del tuo aspetto, e forse neppure della tua identità, ci conferisce un grande vantaggio. — Saori le riempì nuovamente la tazza, senza raccogliere la provocazione. — Vedi, ho intenzione di affidarti un compito, se acconsenti. Posso chiederlo soltanto a te, perché vedi… è necessario che sia portato a termine nel più totale segreto. —

“Bene, se quello che cercavi era la mia attenzione, ora ce l’hai.” Kelly portò la tazza alle labbra, fissandola attentamente. Le fece cenno di proseguire.

Saori si schiarì educatamente la voce, un sorrisetto furbo all’angolo delle labbra. Glielo disse.
E la sua fedele guerriera dovette chiederle di ripeterlo.



~.~


 — Tu non stai parlando sul serio, vero? —

Claire sospirò, forse per la centesima volta. Radunò le mappe, la foto del ‘ganzo’ ripreso insieme al caro Generale Wood, e si dispose a controbattere ancora al fuoco di fila di obiezioni.
C’era già passata, oh sì. Anche le sue convinzioni erano state messe a dura prova, benché il suo lavoro l’avesse da tempo abituata a considerare l’improbabile come parte integrante dell’esistenza. Aveva discusso anche con Allen, quando l’aveva cercata dopo il misterioso incarico di Martin. Neppure lui ci aveva creduto, non subito e certo non del tutto. Con ogni probabilità stava dando credito soltanto a quella parte  della storia che faceva comodo alla sua indagine sul criminale che aveva dato il la a quella incredibile catena di eventi.

 — D’accordo, cerchiamo di riassumere la situazione. — Max la fissava con gli occhi fuori dalle orbite, forse ripromettendosi di non bere mai più nulla sopra i cinque gradi alcolici. — Tu lavori all’interno dell’Area 51, o una struttura simile, non c’interessa. — Claire annuì, una gomitata ad Alex, materializzatosi accanto a lei, che tentava di interrompere. — Hai sentito puzza di bruciato già quattro mesi fa, quando Martin ti ha raccontato che la sua squadra era stata decimata, quindi hai deciso di sfruttare il tuo accesso privilegiato ad informazioni altamente classificate. Non sei approdata a nulla, esattamente come noi, ma poi, qualche settimana fa, ti è stato chiesto di indagare su una misteriosa attività elettromagnetica che si è verificata fuori Atene la scorsa estate. Guarda caso, la stessa sera della scomparsa dei nostri amici. —

 — Corretto — approvò la donna.

 — Quindi — intervenne Katie — hai messo in relazione la loro scomparsa con l’evento misterioso, e hai scoperto che la zona coincide con quella di un tempio greco in rovina, dove da secoli girano voci di eventi inesplicabili, sparizioni, e tutto il campionario di una sbornia collettiva ben riuscita. —

“Signore, salvami dal materialismo degli adolescenti…” — Ancora esatto. —

 — Così, piuttosto che pensare che il luogo sia soltanto il teatro perfetto per un rave periodico, hai cercato informazioni sulla zona, il culto di Athena Parthenos e alla fine hai ripescato un libro datato diverse migliaia di anni, tradotto da Rosekreutz nel quindicesimo secolo… dove l’hai trovato, a proposito? —

 — Questa informazione, se non vi spiace, procurerebbe a tutti noi un biglietto di sola andata per il penitenziario di massima sicurezza più vicino, quindi ve la risparmierò. Sappiate soltanto che, tanto per restare nella metafora cinematografica, gli sceneggiatori di Indiana Jones non hanno mentito proprio su tutto — sorrise Claire, con intenzione.

 — Detto questo, il Liber Mundi, almeno nella versione ‘riveduta e corretta’ dai Rosacruciani, parla di una misteriosa ‘porta’ che condurrebbe ad un mondo parallelo, fornendo anche istruzioni per il viaggio, purtroppo comprensibili quanto i deliri del nostro Alex quando ha fumato troppo — riprese Max, ricambiando il sogghigno.

 — Ehi… —

 — Chiudi il becco, Barzini, la virilità oltraggiata la vendichiamo dopo — sibilò Katie, minacciosa.

 — E per finire, una settimana fa Jack mi ha contattato, sapendo quanto l’argomento mi stesse a cuore. Uno dei suoi ha bucato il firewall della postazione di Wood durante una indagine di natura amministrativa, e insieme a misteriose donazioni ad un non meglio specificato ente di carità, ha scoperto dove è stato destinato Martin. Abbiamo anche scoperto che da ieri non fa rapporto — concluse Claire, occhieggiando la porta con preoccupazione. Allen non tornava ancora, e le possibilità che avesse semplicemente rimorchiato alla macchinetta del caffè erano le stesse  che aveva lei di trovare la pace dei sensi in un convento di clausura. — Adesso sapete anche perché sono qui: sono venuta a prendervi. È ora che anche voi facciate la vostra parte, prima che Martin finisca davanti ad un plotone d’esecuzione in qualche buco sperduto nella giungla, dove la Convenzione di Ginevra non sia altro che una favola per vecchie comari. —

Uno scalpiccio sospetto, il familiare suono del silenziatore, troppo vicino, che scattava a ripetizione. Jack Allen irruppe nella stanza, la camicia schizzata di sangue, l’arma d’ordinanza stretta in pugno.

 — Sono già qui — ringhiò, rivolgendo a Claire uno sguardo eloquente  — e voi, preparatevi. Sembra che dovremo verificare se Rothstein sapesse fare il suo lavoro. —

 



~.~


 — É come ti dico, Pegasus. Fa’ un favore a tutti, e completa il lavoro da solo. Suicidati. Non ho alcuna intenzione di sporcarmi le mani con te, e se mi costringerai ti garantisco che non sarà altrettanto piacevole. —

Seiya ascoltava attonito, stupito, irritato e tutto sommato più intimidito di quanto ritenesse giusto. Il suo avversario, uno spilungone dalla chioma dorata e dall’armatura talmente lucida da potercisi specchiare, tutto mossette vezzose e virile autocelebrazione, era comparso soltanto qualche istante prima, giusto in tempo per mandare zampe all’aria il suo appuntamento con Miho. Oltre che la sua speranza di andare prima o poi in buca, naturalmente.
Lasciò scorrere lo sguardo dall’uomo alla ragazza che l’accompagnava, resistendo all’impulso di strofinarsi gli occhi con le mani per mandare via quella visione certamente ingannevole. Marin dell’Aquila era qualche anno più vecchia di lui, ed era stata la sua maestra, la sua aguzzina, la donna cui doveva tutto e che, lo sapeva, aveva sempre tenuto a lui con quel genere di affetto ruvido e tenace che si nega innanzitutto a se stessi. Su ordine del Gran Sacerdote Marin lo aveva accolto, gli aveva insegnato il greco e il potere delle stelle, l’aveva quasi ucciso perché sopravvivesse, e alla fine aveva fatto di lui il custode dell’armatura di Pegasus. E infine, e questo non glielo aveva ordinato nessuno, l’aveva salvato da Shaina dell’Ofiuco, quella pazza decisa ad ucciderlo, per ben due volte.
Ed ora si presentava a Tokyo, rivestita della sua corazza rituale, in compagnia di un baldo effeminato incaricato di fargli la pelle. Per conto di chi? A quali ordini stava ubbidendo?
Il mondo era impazzito, senza dubbio.
Il travestito socchiuse gli occhi,  l’aura argentea del suo potere che si allargava ancora attorno alla sua figura ammantata di bianco, una prova di forza che estingueva in un attimo qualsiasi desiderio di prenderlo in giro. E Seiya sentì il timore salire dalla punta dei piedi, senza permettergli di muovere un passo: era come avere le estremità affondate nella melassa. Nessun dubbio che quel Misty non scherzasse sulle sue intenzioni.

 — Marin, com’è possibile? —

La risposta, indifferente e perciò tanto più crudele, lo lasciò impietrito. E lo strappò al suo stato ipnotico. — Ciò che hai fatto della tua investitura non è affar mio, Seiya, e chi tradisce il Santuario paga. Misty della Lucertola è qui per riscuoterne il prezzo. —

Seiya si obbligò ad assumere la posizione di guardia, occhieggiando preoccupato le scale che dal lungomare portavano alla battigia e sperando che Miho fosse già riuscita ad allontanarsi abbastanza da sfuggire allo scontro.

Misty sorrise, un sorriso spietato che rendeva grotteschi quei lineamenti da ragazzina. — Oh, per Athena, hai davvero intenzione di resistere? — lo canzonò. — Povero bamboccio, se davvero conoscessi la differenza tra noi ti passerebbe la voglia di provarci. —

“Questo pomposo megalomane comincia a darmi sui nervi…” — E forse quando tu avrai preso un pugno sul quel faccino depilato ricorderai che è da sciocchi sottovalutare il nemico — Rispondergli a tono, tanto per cominciare. E forse quella fastidiosa tremarella l’avrebbe lasciato in pace.

Misty socchiuse gli occhi, apparentemente più divertito che innervosito dalla sua uscita. E attaccò, quasi svogliato,  con un’espressione crudele e la chiara intenzione di giocare al gatto e al topo. Ciononostante, Seiya lo evitò per miracolo.
Alla periferia del suo campo visivo, Marin seguiva i loro scambi senza che nulla, nella sua postura, lasciasse trasparire una pur minima emozione. Per quella donna, lui era già morto. “Misty della Lucertola è qui per riscuoterne il prezzo… E tu, tu cosa sei venuta a fare, Marin?”

Quasi a leggergli nel pensiero, la donna si portò alle sue spalle con una rapidità che non le aveva mai visto, bloccandolo senza sforzo, la candida maschera spietata come non mai.

 — Non è necessario che sia tu a sporcarti le mani, Misty. Metterò fine io alla sua vita. —

E dopo, tutto si fece dolore.



~.~










Angolo della vergogna™



Vergogna ce n'è davvero, questa volta, considerato quanto ho trascurato questa storia, le storie che seguivo e anche alcune persone. A mia discolpa, l'aver vissuto, e in parte stare vivendo ancora, un periodo davvero orrendo. Forse, questo capitolo nuovo, di cui tanto per cambiare NON sono per nulla soddisfatta, è un po' il modo più semplice di sentirmi di nouvo in pista, padrona della mia vita e degli hobby che amo.

Ciononostante, porgo scuse ufficiali ed ufficiose a tutti coloro che ho trascurato, compresa la cara Melantò che mi ha scritto recensioni spassosissime cui non ho ancora risposto, la fantastica Sara che mi avrà data un po' per morta, ed i miei quattro lettori, che probabilmente avranno pensato che intendessi mollare questa storia per la seconda volta.
Non ne ho alcuna intenzione, e, anche se a passo di lumaca zoppa, vedrete la conclusione di questa follia. So che non riavrò il mio armadio finché tutto questo non sarà finito, ecco. E sì, Camus, parlo con te, dovresti farti una vita tua e smetterla di fare il fantasma di Eirienville.

E ho anche altre notizie, avendo da (troppo) tempo in cantiere alcune one-shot, tendenzialmente demenziali, che raccontano alcuni missing moments della mia storia. Quella che è quasi pronta, ad esempio, farà finalmente luce sugli anni di Camus e Kelly sul K2 e sulla misteriosa orticaria che affligge il nostro eroe ogni volta che deve recarsi a far spese al villaggio più vicino. Non ha torto, poveretto, spesso le insidie peggiori hanno l'aria più inoffensiva. E vestono lana di capra.


Ultima considerazione, non meno importante: condoglianze alla povera Iri, novella coinquilina e, per forza di cose, ghignante beta reader delle mie idee più dementi. Se c'è qualcosa di buono, in questo capitolo, è anche merito suo.


E ora un paio di note, che non fanno mai male:

Aoyama: Il nome di un quartiere e del più antico cimitero di Tokyo. Anche se ignoro assolutamente se sia ancora possibile essere sepolti lì.

Cuompagno AK-47: il fucile d’assalto più popolare tra i guerrafondai non poteva mancare nell’arsenale delle mie spie. Devo ammettere che l'idea di un kalashnikov nelle tenere manine della cara Katie non mi rassicura del tutto. Ma non importa, male che vada chiuderò anche lei nell'armadio.

Liber Mundi, Christian Rosencreutz e i Rosacroce: Ho fatto un piccolo salto nella tradizione dei Rosacroce per il mio esclusivo vantaggio, lo ammetto. Il libro misterioso, che conterrebbe tutte le verità sul mondo e sul senso della vita, molto probabilmente è soltanto una metafora, per ammissione stessa dei praticanti del movimento. Ho però approfittato biecamente del passo del “Fama Fraternitatis”, uno dei testi liberamente reperibili in rete, in cui si racconta che Rosencreutz a Damcar “Imparò lì ancora meglio la lingua araba, così che l'anno seguente tradusse il Libro M. in un buon latino, e poi lo portò con sé” per  dare per buona l’ipotesi che il Liber Mundi esistesse sul serio.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Eirien