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Autore: SAranel    16/07/2013    13 recensioni
Non è la prima volta che succede e, forse, non sarà neppure l'ultima. L'unica cosa di cui è sicuro e che non incontrerà mai più nessuno uguale a loro.
"Ha bellissime labbra sottili, l’uomo della panchina di fronte.
Tese lungo la superficie dei denti bianchi quasi non si notano, ma scorgo chiaramente una nota rosata, quasi troppo accentuata per un uomo della sua età. Guarda continuamente in alto, tenendo la schiena ricurva contro lo schienale della panchina, senza permettere a nulla di smorzare la sua felicità. Mi chiedo cosa aspetti. Mi chiedo chi attenda."[...]
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buongiorno, fandom del mio cuore!
Non chiedetemi il perché di tutto questo. E' molto corta, almeno è un punto a favore. Iniziata ieri sera, ad un orario improponibile, e conclusa stamattina. Qualcosa mi diceva che dovevo, e io l'ho fatto. Perdonatemi!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.

 

Tales from a park bench
*

 

 

 

Ha begli occhi blu, l’uomo della panchina di fronte.
Occhi color del mare, dove tanto mi piace sguazzare d’estate. Hanno il colore scuro  di un cielo plumbeo riflesso su uno specchio d’acqua apparentemente infinito.
Ha un bel sorriso, l’uomo della panchina di fronte.
Sembra quello di mio padre, quello che gli illumina il viso quando gli salto al collo al suo ritorno da un viaggio di lavoro, cingendolo con le mie braccia e stringendolo a me forte forte. E’ dolcissimo e io sorrido a mia volta, quasi fosse contagioso.
E’ vecchio, l’uomo della panchina di fronte. Vecchio, ma allo stesso tempo giovane. Gli occhi belli sono infossati nel suo viso, incassati negli zigomi magri ma prominenti, che gli donano un’aria perennemente triste. Ringrazio che ci sia quel sorriso, a sfatare quella mesta impressione.
Ha mani molto grandi, l’uomo della panchina di fronte. Le accarezza, le lascia scivolare l’una sopra l’altra, ne percorre la pelle macchiata con i polpastrelli. Scorre su e giù lungo le vene sporgenti, sfiorando una piccola macchia di sangue rappreso. Sfiora i capelli bianchi, che ancora mi mostrano una parvenza di giallo chiaro, pallido riflesso della sfumatura color sabbia di un tempo. Dovevano essere meravigliosi, una volta. In un certo qual modo, lo sono anche adesso.
Ha bellissime labbra sottili, l’uomo della panchina di fronte.
Tese lungo la superficie dei denti bianchi quasi non si notano, ma scorgo chiaramente una nota rosata, quasi troppo accentuata per un uomo della sua età. Guarda continuamente in alto, tenendo la schiena ricurva contro lo schienale della panchina, senza permettere a nulla di smorzare la sua felicità. Mi chiedo cosa aspetti. Mi chiedo chi attenda.
Le luci del St. Barts sono tutte accese. Le finestre, che da qui mi appaiono piccole piccole come quelle di una casa di bambole, s’adombrano di quando in quando al passaggio di qualcuno, ritornando a risplendere nella sera calante appena un secondo dopo. L’uomo della panchina di fronte segue ognuna di quelle ombre con attenzione, come se ciascuna di esse significasse qualcosa d’importantissimo per lui, come se ciò che tanto ansiosamente sta aspettando dipendesse completamente dalla frequenza di quelle piccole intermittenze di luce. Sorrido nell’immaginare quel qualcuno saltellare fuori da una di quelle finestre con un balzo, atterrando dolcemente fra le braccia calorose dell’omino lì seduto.
Ho voglia di sedermi accanto a lui, adesso. Mi fa tenerezza, una tenerezza che non provo da tanto e che quasi mai ho provato intensamente come adesso. Ho desiderio di avvicinarmi, di abbracciarlo, di stringerlo a me rassicurandolo che andrà bene, che ciò che aspetta arriverà presto, prima di quanto possa immaginare. Non lo faccio, però.
Non posso, dopotutto. Mai.
L’uomo della panchina di fronte sembra felice di aspettare da solo.
Le mani grinzose sono sul suo ventre, adesso. Stringono la stoffa del suo maglione beige liso con vigore, tanto che nel silenzio che impera nel piccolo parco posso quasi sentire il fruscio della sua pelle contro la stoffa morbida dell’indumento. E’ impaziente, adesso ancora più di prima. C'è un’ombra davanti a una finestra, quella che non fa che fissare e che è divenuta la prescelta dopo una lunga osservazione. E’ lì che qualunque cosa dovrà accadere, succederà. Sente ciò che attende meno lontano.
Sospira, l’uomo della panchina di fronte. Batte i piedi sul terreno morbido sotto di lui, con un’impazienza quasi infantile che lo fa sembrare molto più giovane, quasi più dei miei miseri quindici anni. La terra sotto le scarpe non si smuove, ma ai miei occhi è come se lo facesse.
L’uomo della panchina di fronte non mi guarda, anche se lo vorrei. Mi chiedo se mi veda, così come io vedo lui. Non sono ancora del tutto certo di come funzioni.
Mi piacerebbe sapere come si chiama, ma non lo chiedo. Ho una sorta di profondo rispetto nei suoi confronti che non mi spiego, che non capisco, che non trova comprensione nella mia mente. Non lo conosco. L’ho incontrato soltanto pochi minuti fa e da allora non mi ha guardato nemmeno una volta. Invidio quella finestra, per un secondo. O chiunque si nasconda dietro di essa.
Posso immaginare, comunque. Costruire la vita dell’uomo della panchina di fronte come fosse una figura di carta senza nome e identità, animata dall'incrollabile desiderio di esser accolta sotto l'ala protettrice di un amico che creasse per lei un mondo in cui finalmente vivere.
E’ un foglio bianco, che aspetta solo di esser lambito dall’inchiostro.
Sorrido, e osservo le sue mani. Mi vengono in mente le mani di mio padre Charles, chiuse intorno al pennello con cui plasma le sue armoniose figure immaginarie. Piccole, forse troppo per raffrontarle con quelle dell’uomo della panchina di fronte. Non sono simili, in nessuna caratteristica, nemmeno la più misera.
Poi ricordo, come una strana e lucida allucinazione, il giorno in cui mamma e papà mi portarono in ospedale per ingessare un braccio rotto. Ricordo le mani del medico che mi prese in cura, quel giorno. Grandi, abili, gentili. Esattamente come quelle dell’uomo che ancora osservo.
L’uomo della panchina di fronte è un medico.
Il braccio sinistro è leggermente ricurvo, e quel piccolo particolare non fa altro che alimentare in me la fame di ulteriori particolari. E’ sciocco da parte mia fantasticare quando potrei parlare e, con qualche probabilità, ricevere una sicura risposta, ma mi piace così. Mi rende felice, colorire un po’ la realtà. Adoro costruirne una tutta mia.
Lo immagino vestito di tutto punto della sua bella uniforme militare. Lo vedo improvvisare un abile slalom tra le bombe per salvare un povero bambino in difficoltà e bisognoso di cure. E’ coraggioso, nella mia testa, l’uomo della panchina di fronte. L’uomo più coraggioso del mondo, anche più di tutti i supereroi dei miei fumetti.
Qualcosa cambia e i miei occhi non possono non notarlo, incollati come sono alla sua figura. S’inarca leggermente verso il lato vuoto della panchina e socchiude le labbra, lasciando svanire il bellissimo sorriso. Un’espressione impaziente lo sostituisce e una frenesia quasi palpabile lo pervade in ogni più remoto angolo del suo corpo, facendolo tremare leggermente come in preda ai brividi. Sospira, l’uomo della panchina di fronte, poi chiude gli occhi. So che l’attesa è agli sgoccioli, perché le ombre davanti alla sua finestra si fanno più frequenti, tanto da oscurare quasi completamente la luce gialla, calda. Trattiene il fiato.
Improvvisamente poi, e l’uomo sembra percepirlo un secondo prima che accada, la luce si spegne. L’uomo della panchina di fronte si abbandona sul suo sedile di legno e finalmente riprende a respirare, senza che il suo petto compia alcun movimento, senza che, effettivamente, egli ne abbia alcun bisogno. Sembra stremato eppur sollevato, perché i suoi tratti non divengono più aspri, tristi o malinconici. La sua fronte si fa immediatamente più liscia, rilassata, e l’uomo sembra ringiovanire ad ogni finto respiro, come se assieme allo sbuffo di fiato egli soffi via i propri acciacchi, le rughe marcate, il candore di ogni capello.
Man mano che riacquista le forze e piano si solleva sulle assi solide, appare diverso, adesso nello stato del suo abbigliamento, più curato e meno liso, poi nell’agilità degli arti e nei tratti del volto. I suoi occhi sono gli stessi che avevano illuminato il volto scavato del vecchio fino a pochi istanti fa, ma tutto è completamente diverso attorno ad essi.
E’ un viso giovane, più levigato, incorniciato da corti capelli biondi, quello che le due gemme blu ravvivano, adesso. Sono le mani forti e ferme di un uomo nel vigore degli anni quelle che adesso stringono i poggioli della panchina, trovando in essi sostegno e appiglio.
E’ un altro uomo eppur lo stesso di poco fa, quello della panchina di fronte.
E’ meraviglioso.
Ed è proprio seguendo i movimenti di quella mano, saldamente avvolta intorno al ferro battuto, che mi accorgo di un'altra figura, comparsa accanto a quella del mio dottore.
Il volto dell’uomo della panchina di fronte, quello a destra stavolta, guarda quello del dottore con un’espressione gravida di un sentimento quasi doloroso. I suoi occhi, diversi da quelli dell’uomo biondo ma bellissimi in egual misura, non riescono a separarsi da quelli blu e profondi che li fissano a loro volta, beandosi della loro meraviglia come se non avessero mai visto nulla di tanto bello.
Il viso dell’uomo a destra è il più particolare che io abbia mai visto. E’ spigoloso ma delicato allo stesso tempo, quasi alieno nelle fattezze. Riccioli scuri fanno a pugni con il suo colorito pallido ma questo non riesce, nemmeno lontanamente, a rendere quel volto meno interessante ai miei occhi. Sembra che i due uomini si conoscano, comunque. Dal modo in cui dottore guarda uomo sulla destra, è quell’uomo colui che aveva aspettato con tanta trepidazione. Dottore sembra vicino alle lacrime, pericolosamente sull'orlo del pianto. Guarda uomo sulla destra tenendo una mano sollevata di fronte al suo viso, come se volesse toccarlo ma non riuscisse a racimolare il coraggio necessario neppure per sfiorarlo. L’uomo dai capelli scuri, dal canto suo, sembra godere della vista sul viso di dottore tanto da non sembrare bisognoso di nient’altro.
La mia mente viaggia ancora, inevitabilmente.
E’ un reincontro, quello a cui sto assistendo. La riunione di due uomini rimasti troppo a lungo lontani, che incrociano nuovamente le rispettive strade dopo tanto tempo. Dottore è stato il primo, ad andare via. Uomo sulla destra quello rimasto solo.
Uomo sulla destra ha indosso una camicia viola scuro, che si tinge di altri mille colori alla luce del lampione sopra di loro. La giacca nera ricade curva sulle spalle, ma non sembra curarsene più di tanto. Entrambi gli indumenti sono troppo larghi, come se non gli appartenessero o, comunque, come se fosse dimagrito così tanto da non riempire più i suoi stessi abiti.
Dal modo in cui studia ogni particolare di dottore, la mia mente costruisce abilmente intorno a lui un’altra storia.
E’ un detective privato, lui, uno diverso da tutti gli altri. Unico al mondo.
Dotato dell'abilità di riuscire a conoscere un uomo ancor prima d’incontrarlo. Abituato a vedere dove ogni altro non riuscirebbe a distinguere alcunché di rilevante. Addestrato a leggere laddove le pagine risultano, all’apparenza, intonse e mai toccate da mano umana.
Sta leggendo dottore, adesso. Deducendo dai suoi occhi, la sua bocca, le sue mani, ogni parola non detta, ogni gesto non compiuto, tutto ciò che l’uomo che ha di fronte vorrebbe fare e ancora non fa.
Dottore lo ama. Questo, però, non l’ha dedotto da nessun particolare visibile. Lui lo sa. Da sempre.
Il cuore salta, quando tento di immedesimarmi in detective. Non ho mai amato nessuno in vita mia, ma ho abbastanza fantasia per tentare di immaginare cosa si proverebbe, nel tenere a qualcuno più della propria vita.
Sento le lacrime salire nel pensarlo in completa solitudine, magari nell’appartamento diviso con dottore per una vita intera, vuoto senza l’altro. Una lacrima scende indomita, nell’immaginare il cuore di dottore ugualmente spezzato, costretto da un volere superiore ad abbandonare l’amore di una vita.
Li vedo amici, prima di amanti. Li vedo vivere come due metà separate per anni, consci del proprio sentimento ma incapaci di esternarlo. Li vedo cedere poi, alla fine. Abbandonarsi a quel sentimento palese e innegabile, lasciandosi finalmente andare senza alcuna restrizione.
La mano di dottore è vicina a quella di detective adesso. Sono vicine a sfiorarsi ma vedo nei loro sguardi, indissolubilmente ancora legati, la paura che sia tutto un sogno insperato, un illusione fragile come il cristallo che inevitabilmente s’infrangerà, al minimo tocco.
Si avvicinano ancora, tanto che il più flebile sussurro sarebbe udibile da entrambi adesso, e le difese inevitabilmente crollano, distruggendo l’iniziale paura e abbattendo il muro di timore eretto da entrambi.
Si stringono con forza, con un tipo di violenza che tutto ha di buono, con esigenza e frustrazione allo stesso tempo. E’ un intreccio di braccia, anime e vite, separate troppo a lungo e adesso ritrovatasi, finalmente, alla fine di un lungo viaggio. E il silenzio che impera tra i due è quasi assordante, tanto che sarei tentato di stringere la testa tra le mani per non sentire le loro voci, mute e fragorose, urlarsi l'un l'altro quanto la mancanza fosse stata dolorosa, quanto la vita fosse stata difficile, quanto l'attesa fosse stata insopportabile.
Sono convinto di una cosa, in cuor mio. Se mai verrò ritenuto degno di vivere un amore intenso anche la metà di quello tra dottore e detective, nient’altro chiederò alla vita che la capacità di tenerlo stretto a me.
Ed è forse l'intensita del mio desiderio, quasi tangibile, a spingerli a separarsi.
Rimangono qualche secondo a contemplarsi, ancora increduli di poter finalmente guardare avanti incrociando lo sguardo dell'altro, e poi lentamente si voltano, piano, pianissimo.
Come se davvero attratti dai miei pensieri, o forse resisi conto solo adesso della mia presenza, incontrano simultaneamente il mio sguardo, che li accontenta entrambi come può.
Dovrei essere spaventato ma sono ormai addentro abbastanza a queste stranezze da capire, percepire, l’assenza di qualunque pericolo. Non ho paura di loro, comunque, nemmeno un po’. Qualcuno capace di tanto amore non sarebbe mai capace di nuocere a qualcun altro senza una giusta motivazione.
Detective ha un sorriso che non riesco a decifrare, all’inizio. Dottore gli stringe la mano e mi osserva con dolcezza, con uno sguardo confortante che sembra dire 'sei al sicuro'.
Forse dovrei parlare ma non lo faccio, perché le parole al momento sembrano superflue.
Spero che non vadano mai via.
“Io sono John” poi Dottore dice, e la sua voce è amorevole quasi quanto il suo viso, “Lui è Sherlock”.
Detective china il capo, in un gesto riverente nei miei confronti.
Io faccio lo stesso, poi sorrido.
“Io sono Arthur” rispondo, perché sono educato ed è quello che andava fatto. E’ la prima volta che parlo con uno di loro. E’ emozionante, più di quanto avrei mai immaginato.
Loro annuiscono, senza smettere un secondo di sorridere. Le loro mani sono ancora intrecciate e non sembrano affatto intenzionate a lasciarsi andare. Mi piace pensare che forse, ovunque andranno dopo, nulla potrà più separarle.
“Dirai a qualcuno di noi, Arthur?” John poi mi chiede, e l’uomo dallo strano nome, Sherlock, sembra incuriosito dalla domanda.
Non ho dubbi, sulla risposta. Non adesso, che mi sembra quasi di conoscerli come fossero miei amici.
Annuisco, perché è la cosa giusta da fare, quello che cercavo e che adesso ho trovato.
“A tutti” esclamo, ancora annuendo, “A chiunque vorrà ascoltarmi”.
E forse è esattamente questo che anche loro avrebbero voluto sentire. Non rispondono e nemmeno mi accorgo della loro assenza, in un primo momento. Scompaiono nel tempo di un battito di ciglia, di uno schiocco di dita, di un rapido respiro. Sono andati via silenziosamente, così come sono apparsi, e anche se non ci sono posso vederli incamminarsi insieme, le mani allacciate, sul sentiero che conduce ai cancelli del parco.
Avrei voluto chiedere loro ancora tante cose, ma forse è meglio che sia andata così.
Mi sarebbe piaciuto sedermi accanto a John, anche se consapevole di non poterlo sfiorare, chiedendogli, con la dovuta delicatezza, quando fosse successo. Avrei voluto, con tutto il cuore, guardare Sherlock nei suoi begli occhi per chiedergli cosa avesse provato, il giorno in cui John l’aveva lasciato. E soprattutto, se fosse felice adesso.
Non mi pento di non avergliela posta. Sarebbe stata scontata, inutile, prevedibile quanto domandare ad un uomo il colore del cielo.
Esattamente come la risposta che forse mi avrebbe concesso.
Mi accorgo in questo momento, comunque, di non aver bisogno di tutte queste risposte. Mi basta ripensare a quello che ho visto per capire, per scoprire di essere già perfettamente a conoscenza di ciò che tanto mi premeva sapere.
Mi basta chiudere gli occhi e rivedere l’uomo della panchina di fronte, mentre attende il ritorno dell’altra metà della sua anima, che vede, sente, imminente.
Tutto quello che mi serve è rivedere con l’occhio della mente la luce di quella finestra diventare più flebile fino a scomparire, inghiottita da quell'ombra che prima l'aveva solo sfiorata, dandole un assaggio di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
Forse ho solo sognato, non so dirlo. Magari tutto questo non è mai accaduto e fra poco la mamma verrà a svegliarmi, sussurrandomi all'orecchio che è ora di alzarsi e prepararsi per la scuola. Non ne ho idea. Per quanto adori i sogni, preferirei che tutto questo rimanesse reale, pur nella sua irrealtà.
Un pensiero mi addolcisce l'animo, più di tutti i ricordi legati a questo giorno che probabilmente mi accompagneranno per tutta la vita. La promessa che ho fatto loro.
Ho un grande quaderno a casa, un regalo dello zio Micheal, con una bella copertina di pelle. "Per i tuoi racconti" aveva detto, quando l'avevo scartato.
Non avevo mai voluto usarlo, in attesa di qualcosa di speciale. Questa è l'occasione che aspettavo.
Potrei buttar giù un progetto, una volta tornato nella mia stanza. Cominciare a scrivere qualcosa e vedere come va.
Ho un bel po' di immagini nella mia testa. I loro volti, per prima cosa, e stralci di vita magari mai appartenuti a nessuno dei due. Personaggi di contorno, amici, luoghi. Un'appartamentino in centro, bussa alle porte della mia fantasia. Uno di quelli vicino Marylebone, che mi piacciono tanto e che non so se potrò mai permettermi. Forse una padrona di casa dolce ma brontolona come la nostra, quella che un giorno si lamenta con la mamma per le mie esercitazioni al violino e quello dopo sale da noi tutta contenta, mostrandomi la custodia nuova acquistata per il mio compleanno.
Infine storie, così tante da farmi girare la testa, e avventure. Mille, anzi, mille e una.
Sorrido, afferrando la mia giacca e imboccando il piccolo sentiero erboso che mi condurrà all'uscita. Non guardo neppure quello che calpesto, immerso come sono nel mio oceano di immaginarie linee d'inchiostro.
Verrà fuori un bel lavoro, se mai riuscirò a portarlo a termine. L' incontro di oggi è la cosa più buona che mi sia mai capitata e non vorrei, non voglio, lasciarmela sfuggire.
Quel quaderno, rimasto abbandonato troppo a lungo e mai sfiorato da un'idea, sarà molto più bello completamente pieno di scarabocchi, cancellature e frasi di un inglese più o meno corretto. Chissà se quando sarò grande penserò ancora ad oggi, assecondando la voglia di rimettere mano a quel quaderno per correggere gli errori di un bambino.
Ci proverò, comunque, il tempo di correre a casa più veloce che posso.
Una promessa, dopotutto, è una promessa.

 

 

 

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