Buongiorno, fandom del mio cuore!
Non chiedetemi il perché di tutto questo. E' molto corta,
almeno è un punto a
favore. Iniziata ieri sera, ad un orario improponibile, e conclusa
stamattina.
Qualcosa mi diceva che dovevo, e io l'ho fatto. Perdonatemi!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
Tales from a park bench
*
Ha begli occhi blu, l’uomo della
panchina di fronte.
Occhi color del mare, dove tanto mi piace sguazzare d’estate.
Hanno il colore
scuro di un cielo
plumbeo riflesso su
uno specchio d’acqua apparentemente infinito.
Ha un bel sorriso, l’uomo della panchina di fronte.
Sembra quello di mio padre, quello che gli illumina il viso quando gli
salto al
collo al suo ritorno da un viaggio di lavoro, cingendolo con le mie
braccia e
stringendolo a me forte forte. E’ dolcissimo e io sorrido a
mia volta, quasi
fosse contagioso.
E’ vecchio, l’uomo della panchina di fronte.
Vecchio, ma allo stesso tempo giovane.
Gli occhi belli sono infossati nel suo viso, incassati negli zigomi
magri ma
prominenti, che gli donano un’aria perennemente triste.
Ringrazio che ci sia
quel sorriso, a sfatare quella mesta impressione.
Ha mani molto grandi, l’uomo della panchina di fronte. Le
accarezza, le lascia
scivolare l’una sopra l’altra, ne percorre la pelle
macchiata con i
polpastrelli. Scorre su e giù lungo le vene sporgenti,
sfiorando una piccola
macchia di sangue rappreso. Sfiora i capelli bianchi, che ancora mi
mostrano
una parvenza di giallo chiaro, pallido riflesso della sfumatura color
sabbia di
un tempo. Dovevano essere meravigliosi, una volta. In un certo qual
modo, lo
sono anche adesso.
Ha bellissime labbra sottili, l’uomo della panchina di
fronte.
Tese lungo la superficie dei denti bianchi quasi non si notano, ma
scorgo
chiaramente una nota rosata, quasi troppo accentuata per un uomo della
sua età.
Guarda continuamente in alto, tenendo la schiena ricurva contro lo
schienale
della panchina, senza permettere a nulla di smorzare la sua
felicità. Mi chiedo
cosa aspetti. Mi chiedo chi attenda.
Le luci del St. Barts sono tutte accese. Le finestre, che da qui mi
appaiono
piccole piccole come quelle di una casa di bambole,
s’adombrano di quando in
quando al passaggio di qualcuno, ritornando a risplendere nella sera
calante
appena un secondo dopo. L’uomo della panchina di fronte segue
ognuna di quelle
ombre con attenzione, come se ciascuna di esse significasse qualcosa
d’importantissimo per lui, come se ciò che tanto
ansiosamente sta aspettando dipendesse
completamente dalla frequenza di quelle piccole intermittenze di luce.
Sorrido
nell’immaginare quel qualcuno saltellare
fuori da una di quelle finestre
con un balzo, atterrando dolcemente fra le braccia calorose
dell’omino lì
seduto.
Ho voglia di sedermi accanto a lui, adesso. Mi fa tenerezza, una
tenerezza che
non provo da tanto e che quasi mai ho provato intensamente come adesso.
Ho
desiderio di avvicinarmi, di abbracciarlo, di stringerlo a me
rassicurandolo
che andrà bene, che ciò che aspetta
arriverà presto, prima di quanto possa
immaginare. Non lo faccio, però.
Non posso, dopotutto. Mai.
L’uomo della panchina di fronte sembra felice di aspettare da
solo.
Le mani grinzose sono sul suo ventre, adesso. Stringono la stoffa del
suo
maglione beige liso con vigore, tanto che nel silenzio che impera nel
piccolo
parco posso quasi sentire il fruscio della sua pelle contro la stoffa
morbida
dell’indumento. E’ impaziente, adesso ancora
più di prima. C'è un’ombra davanti
a una finestra, quella che non fa che fissare e che è
divenuta la prescelta
dopo una lunga osservazione. E’ lì che qualunque
cosa dovrà accadere,
succederà. Sente ciò che attende meno
lontano.
Sospira, l’uomo della panchina di fronte. Batte i piedi sul
terreno morbido
sotto di lui, con un’impazienza quasi infantile che lo fa
sembrare molto più
giovane, quasi più dei miei miseri quindici anni. La terra
sotto le scarpe non
si smuove, ma ai miei occhi è come se lo facesse.
L’uomo della panchina di fronte non mi guarda, anche se lo
vorrei. Mi chiedo se
mi veda, così come io vedo lui. Non sono ancora del tutto
certo di come
funzioni.
Mi piacerebbe sapere come si chiama, ma non lo chiedo. Ho una sorta di
profondo
rispetto nei suoi confronti che non mi spiego, che non capisco, che non
trova
comprensione nella mia mente. Non lo conosco. L’ho incontrato
soltanto pochi
minuti fa e da allora non mi ha guardato nemmeno una volta. Invidio
quella
finestra, per un secondo. O chiunque si nasconda dietro di essa.
Posso immaginare, comunque. Costruire
la vita dell’uomo della
panchina di fronte come fosse una figura di carta senza nome e
identità,
animata dall'incrollabile desiderio di esser accolta sotto l'ala
protettrice di
un amico che creasse per lei un mondo in cui
finalmente vivere.
E’ un foglio bianco, che aspetta solo di esser lambito
dall’inchiostro.
Sorrido, e osservo le sue mani. Mi vengono in mente le mani di mio
padre
Charles, chiuse intorno al pennello con cui plasma le sue armoniose
figure
immaginarie. Piccole, forse troppo per raffrontarle con quelle
dell’uomo della
panchina di fronte. Non sono simili, in nessuna caratteristica, nemmeno
la più
misera.
Poi ricordo, come una strana e lucida allucinazione, il giorno in cui
mamma e
papà mi portarono in ospedale per ingessare un braccio
rotto. Ricordo le mani
del medico che mi prese in cura, quel giorno. Grandi, abili, gentili.
Esattamente come quelle dell’uomo che ancora osservo.
L’uomo della panchina di fronte è un medico.
Il braccio sinistro è leggermente ricurvo, e quel piccolo
particolare non fa altro
che alimentare in me la fame di ulteriori particolari. E’
sciocco da parte mia
fantasticare quando potrei parlare e, con qualche
probabilità, ricevere una
sicura risposta, ma mi piace così. Mi rende felice, colorire
un po’ la realtà.
Adoro costruirne una tutta mia.
Lo immagino vestito di tutto punto della sua bella uniforme militare.
Lo vedo
improvvisare un abile slalom tra le bombe per salvare un povero bambino
in
difficoltà e bisognoso di cure. E’ coraggioso,
nella mia testa, l’uomo della
panchina di fronte. L’uomo più coraggioso del
mondo, anche più di tutti i
supereroi dei miei fumetti.
Qualcosa cambia e i miei occhi non possono non notarlo, incollati come
sono
alla sua figura. S’inarca leggermente verso il lato vuoto
della panchina e
socchiude le labbra, lasciando svanire il bellissimo sorriso.
Un’espressione
impaziente lo sostituisce e una frenesia quasi palpabile lo pervade in
ogni più
remoto angolo del suo corpo, facendolo tremare leggermente come in
preda ai
brividi. Sospira, l’uomo della panchina di fronte, poi chiude
gli occhi. So che
l’attesa è agli sgoccioli, perché le
ombre davanti alla sua finestra si fanno
più frequenti, tanto da oscurare quasi completamente la luce
gialla, calda.
Trattiene il fiato.
Improvvisamente poi, e l’uomo sembra percepirlo un secondo
prima che accada, la
luce si spegne. L’uomo della panchina di fronte si abbandona
sul suo sedile di
legno e finalmente riprende a respirare, senza che il suo petto compia
alcun
movimento, senza che, effettivamente, egli ne abbia alcun bisogno.
Sembra
stremato eppur sollevato, perché i suoi tratti non divengono
più aspri, tristi
o malinconici. La sua fronte si fa immediatamente più
liscia, rilassata, e
l’uomo sembra ringiovanire ad ogni finto respiro, come se
assieme allo sbuffo
di fiato egli soffi via i propri acciacchi, le rughe marcate, il
candore di
ogni capello.
Man mano che riacquista le forze e piano si solleva sulle assi solide,
appare
diverso, adesso nello stato del suo abbigliamento, più
curato e meno liso, poi
nell’agilità degli arti e nei tratti del volto. I
suoi occhi sono gli stessi
che avevano illuminato il volto scavato del vecchio
fino a pochi istanti
fa, ma tutto è completamente diverso attorno ad essi.
E’ un viso giovane, più levigato, incorniciato da
corti capelli biondi, quello
che le due gemme blu ravvivano, adesso. Sono le mani forti e ferme di
un uomo
nel vigore degli anni quelle che adesso stringono i poggioli della
panchina,
trovando in essi sostegno e appiglio.
E’ un altro uomo eppur lo stesso di poco fa, quello della
panchina di fronte.
E’ meraviglioso.
Ed è proprio seguendo i movimenti di quella mano, saldamente
avvolta intorno al
ferro battuto, che mi accorgo di un'altra figura, comparsa accanto a
quella del
mio dottore.
Il volto dell’uomo della panchina di fronte, quello a destra
stavolta,
guarda quello del dottore con un’espressione gravida di un
sentimento quasi doloroso.
I suoi occhi, diversi da quelli dell’uomo biondo ma
bellissimi in egual misura,
non riescono a separarsi da quelli blu e profondi che li fissano a loro
volta,
beandosi della loro meraviglia come se non avessero mai visto nulla di
tanto
bello.
Il viso dell’uomo a destra è il più
particolare che io abbia mai visto. E’
spigoloso ma delicato allo stesso tempo, quasi alieno nelle fattezze.
Riccioli
scuri fanno a pugni con il suo colorito pallido ma questo non riesce,
nemmeno
lontanamente, a rendere quel volto meno interessante ai miei occhi.
Sembra che
i due uomini si conoscano, comunque. Dal modo in cui dottore
guarda uomo
sulla destra, è quell’uomo colui che
aveva aspettato con tanta
trepidazione. Dottore sembra vicino alle lacrime,
pericolosamente
sull'orlo del pianto. Guarda uomo sulla destra
tenendo una mano
sollevata di fronte al suo viso, come se volesse toccarlo ma non
riuscisse a
racimolare il coraggio necessario neppure per sfiorarlo.
L’uomo dai capelli
scuri, dal canto suo, sembra godere della vista sul viso di dottore
tanto da non sembrare bisognoso di nient’altro.
La mia mente viaggia ancora, inevitabilmente.
E’ un reincontro, quello a cui sto
assistendo. La riunione di due uomini
rimasti troppo a lungo lontani, che incrociano nuovamente le rispettive
strade
dopo tanto tempo. Dottore è stato il
primo, ad andare via. Uomo sulla
destra quello rimasto solo.
Uomo sulla destra ha indosso una camicia viola scuro, che si tinge di
altri
mille colori alla luce del lampione sopra di loro. La giacca nera
ricade curva
sulle spalle, ma non sembra curarsene più di tanto. Entrambi
gli indumenti sono
troppo larghi, come se non gli appartenessero o, comunque, come se
fosse
dimagrito così tanto da non riempire più i suoi
stessi abiti.
Dal modo in cui studia ogni particolare di dottore,
la mia mente
costruisce abilmente intorno a lui un’altra storia.
E’ un detective privato, lui, uno diverso
da tutti gli altri. Unico al
mondo.
Dotato dell'abilità di riuscire a conoscere
un uomo ancor prima
d’incontrarlo. Abituato a vedere dove
ogni altro non riuscirebbe a
distinguere alcunché di rilevante. Addestrato a leggere
laddove le
pagine risultano, all’apparenza, intonse e mai toccate da
mano umana.
Sta leggendo dottore, adesso. Deducendo dai suoi
occhi, la sua bocca, le
sue mani, ogni parola non detta, ogni gesto non compiuto, tutto
ciò che l’uomo
che ha di fronte vorrebbe fare e ancora non fa.
Dottore lo ama. Questo, però, non
l’ha dedotto da nessun particolare
visibile. Lui lo sa. Da sempre.
Il cuore salta, quando tento di immedesimarmi in detective.
Non ho mai
amato nessuno in vita mia, ma ho abbastanza fantasia per tentare di immaginare
cosa si proverebbe, nel tenere a qualcuno più della propria
vita.
Sento le lacrime salire nel pensarlo in completa solitudine, magari
nell’appartamento diviso con dottore per
una vita intera, vuoto
senza l’altro. Una lacrima scende indomita,
nell’immaginare il cuore di dottore
ugualmente spezzato, costretto da un volere superiore ad abbandonare
l’amore di
una vita.
Li vedo amici, prima di amanti. Li vedo vivere come due metà
separate per anni,
consci del proprio sentimento ma incapaci di esternarlo. Li vedo cedere
poi,
alla fine. Abbandonarsi a quel sentimento palese e innegabile,
lasciandosi
finalmente andare senza alcuna restrizione.
La mano di dottore è vicina a quella di detective
adesso. Sono
vicine a sfiorarsi ma vedo nei loro sguardi, indissolubilmente ancora
legati,
la paura che sia tutto un sogno insperato, un illusione fragile come il
cristallo che inevitabilmente s’infrangerà, al
minimo tocco.
Si avvicinano ancora, tanto che il più flebile sussurro
sarebbe udibile da
entrambi adesso, e le difese inevitabilmente crollano, distruggendo
l’iniziale
paura e abbattendo il muro di timore eretto da entrambi.
Si stringono con forza, con un tipo di violenza che tutto ha di buono,
con
esigenza e frustrazione allo stesso tempo. E’ un intreccio di
braccia, anime e
vite, separate troppo a lungo e adesso ritrovatasi, finalmente, alla
fine di un
lungo viaggio. E il silenzio che impera tra i due è quasi
assordante, tanto che
sarei tentato di stringere la testa tra le mani per non sentire le loro
voci,
mute e fragorose, urlarsi l'un l'altro quanto la
mancanza fosse stata
dolorosa, quanto la vita fosse stata difficile, quanto l'attesa fosse
stata insopportabile.
Sono convinto di una cosa, in cuor mio. Se mai verrò
ritenuto degno di vivere
un amore intenso anche la metà di quello tra dottore
e detective,
nient’altro chiederò alla vita che la
capacità di tenerlo stretto a me.
Ed è forse l'intensita del mio desiderio, quasi tangibile, a
spingerli a
separarsi.
Rimangono qualche secondo a contemplarsi, ancora increduli di poter
finalmente
guardare avanti incrociando lo sguardo dell'altro, e poi lentamente si
voltano,
piano, pianissimo.
Come se davvero attratti dai miei pensieri, o forse resisi conto solo
adesso
della mia presenza, incontrano simultaneamente il mio sguardo, che li
accontenta entrambi come può.
Dovrei essere spaventato ma sono ormai addentro abbastanza a queste
stranezze
da capire, percepire, l’assenza di
qualunque pericolo. Non ho paura di
loro, comunque, nemmeno un po’. Qualcuno capace di tanto
amore non sarebbe mai
capace di nuocere a qualcun altro senza una giusta motivazione.
Detective ha un sorriso che non riesco a decifrare,
all’inizio. Dottore
gli stringe la mano e mi osserva con dolcezza, con uno sguardo
confortante che
sembra dire 'sei al sicuro'.
Forse dovrei parlare ma non lo faccio, perché le parole al
momento sembrano
superflue.
Spero che non vadano mai via.
“Io sono John” poi Dottore
dice, e la sua voce è amorevole quasi quanto
il suo viso, “Lui è Sherlock”.
Detective china il capo, in un gesto riverente nei miei confronti.
Io faccio lo stesso, poi sorrido.
“Io sono Arthur” rispondo, perché sono
educato ed è quello che andava fatto. E’
la prima volta che parlo con uno di loro.
E’ emozionante, più di quanto
avrei mai immaginato.
Loro annuiscono, senza smettere un secondo di sorridere. Le loro mani
sono
ancora intrecciate e non sembrano affatto intenzionate a lasciarsi
andare. Mi
piace pensare che forse, ovunque andranno dopo,
nulla potrà più
separarle.
“Dirai a qualcuno di noi, Arthur?” John poi mi
chiede, e l’uomo dallo strano
nome, Sherlock, sembra incuriosito dalla domanda.
Non ho dubbi, sulla risposta. Non adesso, che mi
sembra quasi di
conoscerli come fossero miei amici.
Annuisco, perché è la cosa giusta da fare, quello
che cercavo e che adesso ho
trovato.
“A tutti” esclamo, ancora annuendo, “A
chiunque vorrà ascoltarmi”.
E forse è esattamente questo che anche
loro avrebbero voluto sentire.
Non rispondono e nemmeno mi accorgo della loro assenza, in un primo
momento.
Scompaiono nel tempo di un battito di ciglia, di uno schiocco di dita,
di un
rapido respiro. Sono andati via silenziosamente, così come
sono apparsi, e
anche se non ci sono posso vederli incamminarsi insieme, le mani
allacciate,
sul sentiero che conduce ai cancelli del parco.
Avrei voluto chiedere loro ancora tante cose, ma forse è
meglio che sia andata
così.
Mi sarebbe piaciuto sedermi accanto a John, anche se consapevole di non
poterlo
sfiorare, chiedendogli, con la dovuta delicatezza, quando
fosse
successo. Avrei voluto, con tutto il cuore, guardare Sherlock nei suoi
begli
occhi per chiedergli cosa avesse provato, il giorno in cui John
l’aveva
lasciato. E soprattutto, se fosse felice adesso.
Non mi pento di non avergliela posta. Sarebbe stata scontata,
inutile,
prevedibile quanto domandare ad un uomo il colore del cielo.
Esattamente come la risposta che forse mi avrebbe
concesso.
Mi accorgo in questo momento, comunque, di non aver bisogno di tutte
queste
risposte. Mi basta ripensare a quello che ho visto per capire,
per
scoprire di essere già perfettamente a conoscenza di
ciò che tanto mi premeva
sapere.
Mi basta chiudere gli occhi e rivedere l’uomo della panchina
di fronte, mentre
attende il ritorno dell’altra metà della sua
anima, che vede, sente,
imminente.
Tutto quello che mi serve è rivedere con l’occhio
della mente la luce di quella
finestra diventare più flebile fino a scomparire,
inghiottita da quell'ombra
che prima l'aveva solo sfiorata, dandole un assaggio di ciò
che sarebbe
accaduto di lì a poco.
Forse ho solo sognato, non so dirlo. Magari tutto questo non
è mai accaduto e
fra poco la mamma verrà a svegliarmi, sussurrandomi
all'orecchio che è ora di
alzarsi e prepararsi per la scuola. Non ne ho idea. Per quanto adori i
sogni,
preferirei che tutto questo rimanesse reale, pur nella sua
irrealtà.
Un pensiero mi addolcisce l'animo, più di tutti i ricordi
legati a questo
giorno che probabilmente mi accompagneranno per tutta la vita. La promessa
che ho fatto loro.
Ho un grande quaderno a casa, un regalo dello zio Micheal, con una
bella
copertina di pelle. "Per i tuoi racconti" aveva
detto, quando
l'avevo scartato.
Non avevo mai voluto usarlo, in attesa di qualcosa di speciale. Questa
è
l'occasione che aspettavo.
Potrei buttar giù un progetto, una volta tornato nella mia
stanza. Cominciare a
scrivere qualcosa e vedere come va.
Ho un bel po' di immagini nella mia testa. I loro volti, per prima
cosa, e
stralci di vita magari mai appartenuti a nessuno dei due. Personaggi di
contorno, amici, luoghi. Un'appartamentino
in centro, bussa alle
porte della mia fantasia. Uno di quelli vicino Marylebone, che mi
piacciono
tanto e che non so se potrò mai permettermi. Forse una
padrona di casa dolce ma
brontolona come la nostra, quella che un giorno si lamenta con la mamma
per le
mie esercitazioni al violino e quello dopo sale da noi tutta contenta,
mostrandomi la custodia nuova acquistata per il mio compleanno.
Infine storie, così tante da farmi
girare la testa, e avventure. Mille,
anzi, mille e una.
Sorrido, afferrando la mia giacca e imboccando il piccolo sentiero
erboso che mi
condurrà all'uscita. Non guardo neppure quello che calpesto,
immerso come sono
nel mio oceano di immaginarie linee d'inchiostro.
Verrà fuori un bel lavoro, se mai riuscirò a
portarlo a termine. L' incontro
di oggi è la cosa più buona che mi sia mai
capitata e non vorrei, non voglio,
lasciarmela sfuggire.
Quel quaderno, rimasto abbandonato troppo a lungo e mai sfiorato da
un'idea,
sarà molto più bello completamente pieno di
scarabocchi, cancellature e frasi
di un inglese più o meno corretto. Chissà se
quando sarò grande penserò ancora
ad oggi, assecondando la voglia di rimettere mano a quel quaderno per
correggere gli errori di un bambino.
Ci proverò, comunque, il tempo di correre a casa
più veloce che posso.
Una promessa, dopotutto, è una promessa.
*