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Autore: Dzoro    16/07/2013    0 recensioni
Angelo è un ex marine veterano della guerra del golfo. Vive in una città americana, da solo, il suo unico amico è un barista di colore. Angelo è un assassino a pagamento. Questa è la sua storia.
Per fan di Cormac McCarthy, Quentin Tarantino e Garth Ennis.
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Angelo Strano'
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Buck, articoli sportivi.

L’insegna era scrostata e ammaccata, troppo perché il negozio fosse gestito ancora da Buck, chiunque egli fosse stato. Aveva perlomeno la stessa età dell’edificio, un grumo di cemento intonaco, incastrato in una delle strade meno trafficate della città. La luce del sole non poteva nemmeno entrarci, se non scomposta in una patina biancastra e frammentata dai vetri della porta e dell’unica vetrina, che non avevano ragion d’esistere se non un valore affettivo o la mancanza di denaro per comprarne di nuovi. Erano quei vetri spessi e irregolari, dall’aria antica, erano talmente opachi che era difficile dire se erano sporchi o meno. Nella penombra del negozio, sedeva un uomo in una canottiera arancione, che lasciava intravedere sopra un ciuffo di pelo nerastro, sotto un mezzo ombelico grassoccio. Sedeva con le gambe appollaiate sul bancone, lanciando di tanto in tanto un “ma che cazzo” contro la radio lì vicino, che sbraitava una telecronaca di corse di cavalli, mentre si faceva aria con ventaglio ricavato da un cartone della pizza. Era ormai più di un ora che passava il tempo in quel modo, quando le campanelle che aveva appeso sopra la porta, e che trillavano tutte le rare volte che un cliente entrava nel suo negozio emisero il loro suono di latta, dandogli il segnale di sedersi composto, abbassare il volume, e incollarsi in faccia il sorriso delle grandi occasioni:

- Buongiorno.- Fece quindi.

- Buongiorno.- rispose Angelo. Il sorriso scivolò via dalla faccia del commesso, non appena il nuovo arrivato, dopo essersi dato un’occhiata intorno, riaprì la porta e girò il cartellino con scritto “Aperto” sull’altro lato. Fatto ciò, Angelo si avvicinò al bancone, lanciando intanto qualche occhiata agli scaffali. Arrivato, vi si appoggiò sopra con i gomiti, e fissò negli occhi l’uomo davanti a lui:

- Ehi, sei tu Buck?-

L’uomo rimase in silenzio per un po’, prima di rispondere, con una voce scossa da uno di quei timori irrazionali, che l’istinto ci fa soffrire di tanto in tanto.

- No.-

- Infatti. Tu sei Dave, giusto?-

- Sì.-

- Bene, Dave. Hai un bel negozietto, qui.-

Dave stava per rispondere “grazie”, ma improvvisamente si sentì un po’ un idiota a continuare il dialogo. Si domandò nuovamente cosa volesse quell’uomo. Se era un rapinatore, sarebbe stato un problema. Aveva una pistola sotto al bancone, ma era scarica. Poi, sapeva per esperienza che la gente minacciata con una pistola tende, se in possesso a sua volta di una pistola, a sparare. Fece scivolare la sua mano vicino al cassetto in cui teneva gli incassi: c’erano dentro cento dollari e qualcosa. Gli sarebbe dispiaciuto separarsene, ma mai quanto gli sarebbe dispiaciuto ritrovarsi in corpo un gallone di sangue in meno e nove millimetri di piombo in più. Rimase in silenzio. Angelo aspettò la risposta, ma accorgendosi che essa non voleva arrivare, continuò:

- Senti, un ragazzo, giù al porto, mi ha detto che sei amico di un tizio, tale Edward Turner.- pronunciò quel nome come se l’avesse appena letto da qualche parte. – Dimmi, diceva la verità?-

Dave restò un attimo in silenzio prima di rispondere.

- No.-

- No non lo conosci?- incalzò Angelo, continuando a fissarlo negli occhi, nonostante Dave avesse già rivolto da tempo lo sguardo al pavimento.

- N…no.- Fece ancora lui. Ma Angelo sentì un balbettio di troppo per convincersi che fosse vero. Si alzò dal bancone, fischiettando una melodia indefinibile, e guardando di nuovo tutta la merce esposta, dando le spalle a Dave.

- È un peccato, sai? Io ci tenevo molto a conoscerlo, il vecchio Edward. Ma se dici che non lo conosci.- sospirò -.vuol dire che non lo conosci. Giusto Dave?- si voltò di scatto verso Dave.

- Sì!- esclamò lui, colto alla sprovvista.

- Allora non me lo puoi davvero dire.- Angelo scosse la testa. Poi rialzatola, disse:

- Beh, lasciamo stare. Dimmi, piuttosto, non è che per caso hai una di quelle mazze della Nike. Sai, quelle della pubblicità. Dorata, con le scritte nere. Mio figlio l’adora.-

Dave, esitante come al solito, si abbassò sotto il bancone. Tornò in superficie con una mazza cinese color platino, pregando che andasse bene lo stesso. Angelo fece un sorriso soddisfatto, e la prese in mano. La soppesò, la osservò alzandola sopra la testa. Borbottò un “non male”, quindi, rivolgendosi nuovamente a Dave, chiese:

- Bella. Posso provarla?-

- P…prego.-

Angelo la portò dietro la schiena, pronto a sferrare il colpo. Sembrava davvero concentrato, come se fosse allo stadio, nel bel mezzo di una partita. Ma di tanto in tanto, trafiggeva Dave con uno sguardo, lanciato con la coda dell’occhio. Quindi sferrò un colpo a vuoto, facendo gemere l’aria circostante con un sibilo. Lo fece una seconda volta, e una terza. E ogni volta che lo faceva, Dave stringeva i denti. E rimaneva fermo, senza il coraggio di sbattere le palpebre. Quando Angelo parve aver finito, abbassò la mazza:

- Grandiosa, la amo già. Senti Dave, a quanto me la fai?-

- Sono venti.- Angelo assunse un’espressione stupita e fasulla.

- Dave. Non sono ne un morto di fame ne un…- rise -…ne un rapinatore, eh? Avanti, quanto?-

- Cento… centotrentotto.- farfugliò Dave – E novantanove centesimi.- quindi inghiottì un groppo di saliva.

Angelo prese il portafoglio di tasca, e ne tirò fuori centocinquanta dollari.

- A te, Dave.- appoggiò le banconote sul bancone. Dave appoggiò la sua mano sudaticcia sulla superficie levigata del bancone. La fece strisciare lentamente, e raggiunte le banconote, vi appoggiò timidamente sopra le dita.

- Bene. E ora, dato che abbiamo capito che siamo entrambi due adulti onesti e responsabili, cominciamo da capo. Dov’è Turner?- fece Angelo.

- Cosa?-

La mazza si abbatté sulla sua mano.

***

- Diosanto Henry, stiamo parlando della fottuta Corea! Io non sono stato fortunato come te, che ti sei beccato una pallottola nel culo il primo giorno dopo lo sbarco in Francia! Tu te ne sei tornato a casa, e tanti saluti all’esercito. Io mi sono fatto anche la maledetta Corea!-

- Smettila con le parolacce, Ed! Lo sai che a Molly non piace.-

- Mi hai chiamato, Henry?-

- No Molly, tranquilla, va tutto bene.-

I tre anziani sedevano ormai da una buona ora al tavolo di quel piccolo ristorante, dopo aver cenato insieme. C’erano Henry, sua moglie Molly, ed infine il pluridecorato Ed.

- Ma andiamo, Henry, Molly non sente più un cazzo da almeno tre anni!- sbottò Ed, irritato dal rimprovero dell’amico.

- Oh, grazie Ed, magari più tardi.- gli rispose Molly mentre sorrideva ad un vaso di orchidee davanti al loro tavolo.

- Lo so, accidenti a te, ma puoi soltanto tentare di fingere un minimo di gentilezza nei suoi confronti? E poi mi hai davvero martoriato le palle con questa cantilena della Corea, non possiamo parlare d’altro, perdio? Del Superbowl, di quello che hanno dato in televisione ieri, di come va la tua artrite.- Gli disse allora Henry, con voce sconsolata.

- Certo che no! Che cazzo, Pensi a me faccia piacere ricordarmi di quell’inferno?-

- E pensi che a me faccia piacere sentirmelo descrivere a cena?-

- Ma ascolta, maledizione, quello che volevo dire e che io vorrei dimenticarmene, ma non ci riesco! Sono cinquant’anni che mi sogno di notte i fottuti comunisti che ci sparano addosso. Quelli ci volevano…- la frase di Ed venne interrotta dall’amico:

- Stammi a sentire vecchio, non intendo stare ad ascoltare l’ennesima volta i tuoi racconti sulla guerra! Ma porca miseria, la vuoi finire di vivere nel passato? Siamo nel duemila, Ed! Piantiamola con questa caz…- Henry si morse la lingua prima che l’ultima sillaba della parola fosse pronunciata. Per fortuna la moglie non stava ascoltando, fissava assorta il ritratto di una donna grottescamente grassa, appeso sul muro lì vicino.

- Senti.- continuò allora Henry – Ti prego, non farti dire certe cosa da un rudere come me! Anch’io ho la mia età, e so che da vivere non mi resta poi molto, ma almeno quel poco che mi rimane della mia vita tento di godermelo. E dovresti farlo anche te, Cristosanto!-

- Non bestemmiare, Henry!- lo rimproverò Molly, con uno strillo acuto.

- Scusa.- Mugolò il vecchio, come un cane rimproverato dal padrone. Poi tornò a fissare negli occhi il suo amico: ed stava guardando nel vuoto.

- Ed? Ci sei?- Gli domandò.

- Senti, io una storia però te la devo raccontare.- rispose lui, con un filo di voce.

- Ah, ottimo. Quale?- sospirò, ormai rassegnato, Henry.

- No, no, non è una delle solite! Io. beh, lo ammetto, con i mie racconti ho rotto più coglioni io che tutti i fottuti testimoni di Jeovha della città.- l’ammissione di colpa del vecchio strappò un sorriso all’amico -.ma questa… questa non l’ho mai raccontata a nessuno, te lo giuro. Tu sei il primo, e spero tu la capisca.- Ed si appoggiò sul tavolo con i gomiti, leggermente assorto. Iniziò quindi a raccontare:

- Al tempo ero sergente, mi avevano affidato un gruppo di cinque soldati, freschi d’addestramento. Me li ricordo bene, quei ragazzi. Uno di loro non aveva ancora compiuto i diciassette. Quel giorno ci trovavamo circa a venti miglia dal confine tra Corea del nord e del sud. Persi. E circondati dai maledetti cinesi.-

- Vorrai dire coreani. In Corea.-

- Non trattarmi come uno stupido, so quello che ho detto. Cinesi, volontari. O almeno così diceva quello stronzo di Mao. Volontari il mio cazzo, ti dico, sperò stia bruciando all’inferno quel maledetto macellaio. Comunque, dicevo, stavamo proseguendo per una strada sterrata. Aveva appena piovuto, affondavamo tutti nel fango fino alle caviglie. I ragazzi avevano i nervi a fior di pelle, e in fondo come potevo biasimarli? Sentivamo l’alito freddo della morte proprio qui- si diede due colpi sul collo -Era come se avessimo la consapevolezza, che la nostra vita sarebbe terminata da un momento all’altro, al suono di una scarica di mitra. E non ci stupimmo troppo, quando quella raffica si fece sentire davvero. Il bastardo era appostato sul tetto di un edificio, poco distante dalla strada. Aveva un mitragliatore. Io faccio solo in tempo a urlare “Al riparo!”, e a buttarmi dietro un vecchio muro, quello che restava di una casa dilaniata da una bomba, mentre sentivo i proiettili fischiarmi a una spanna dalla testa, come uno sciame di calabroni. Fu solo quando riuscì a raggiungere il riparo, che mi accorsi di essere rimasto solo. Stringevo il Thompson così forte che pensavo non sarei più riuscito a staccare le dita dal manico. Volevo saltare fuori di lì, e svuotare tutto il fottuto caricatore addosso a quel maledetto muso giallo. Ma sapevo che era una stupidaggine dettata dalla rabbia. Dovevo aspettare. Appoggiai a terra il mio orologio, e gli buttavo addosso un’occhiata, ogni tanto. Eppure non mi ricordo quanto tempo passò effettivamente. Pochi minuti, o qualche ora. Intanto il mitragliatore non sparava più. Continuai ad aspettare, fino a quando non sentii le loro voci. Erano dietro il muro. Non ho mai capito cosa fosse successo, perché non si fossero accorti di me. Forse uno dei mie uomini aveva colpito il mitragliere, e la ferita lo aveva ucciso in seguito allo scontro. Non lo so. Ma loro erano lì, e non sapevano che io mi trovavo proprio dietro la loro schiena. Saltai fuori dal mio nascondiglio, e svuotai tutto, te lo giuro, ogni singolo proiettile nel caricatore addosso al più vicino. Ce n’era un altro: io avevo la mia pistola a portata di mano, e un colpo in testa mandò all’inferno pure lui. Morirono tutti e due senza un gemito: ero stato veloce. Ne rimaneva uno: Dio, era solo un ragazzino, tremava tanto per la paura che non riusciva a far stare fermo il fucile. Io mirai alla testa: mi presi tutto il tempo necessario affinché il proiettile gli trapassasse il cranio. Premetti quindi il grilletto e merda! Quella stronza della mia colt si era inceppata. Imprecai contro me stesso, e… e cosa potevo fare? Quello lì era proprio davanti a me, e poteva spararmi, poteva perfino prendere per bene la mira. E diamine, lo avrebbe fatto. Ero sicuro lo avrebbe fatto! Alzò il fucile.-

Un colpo di tosse, uno di quelli che si emettono per attirare l’attenzione, fece voltare entrambi i vecchi: non avevano notato l’uomo che si trovavano davanti entrare nel locale. Sembrava comparso dal nulla.

- Desidera?- chiese Henry.

- Lei è Ed? Edward Turner?- domandò Angelo, in direzione del reduce. Il vecchio Ed lo fissò incuriosito, togliendosi gli occhiali, come se volesse fissarlo direttamente negli occhi. Sentì una strana sensazione, come d’inquietudine. Cosa mai poteva volere da lui quell’uomo? Si impastò la bocca di saliva, come per dover fare un lungo discorso. Ma dalla sua bocca non uscirono che poche parole:

- Io sono Edmund. Edward è il cuoco, è. in cucina.-

- Ah, allora mi scusi. Anche per aver interrotto il suo racconto, scusi davvero. Buona serata.- Dopo queste poche, frettolose parole di scusa, Angelo si allontanò da loro, scomparendo dietro la porta della cucina. Contento di aver chiarito l’equivoco, Ed si voltò di nuovo verso Henry, con tutta l’intenzione di finire il racconto.

- Dove. dove ero arrivato? Ah, certo, che stupido, il cinese.-

- Henry, sono stanca. Torniamo a casa?- disse sommessamente la vecchia al marito, tirandolo un po’ per la manica della camicia.

- Cosa? Oh, certo, subito Molly. Un attimo, che vado a prendere i cappotti.- Henry si alzò da tavola, sotto lo sguardo attonito di Ed.

- Ma… ma porca… Henry, Diosanto, stavo finendo! Era importante!-

- Domani Ed, domani. Molly è stanca, e se devo dire il vero, lo sono anch’io. Avanti, non prendertela.-

Ed inspirò, si irrigidì e stette zitto. Mille insulti, imprecazioni, bestemmie gli volevano uscire dalla bocca: tutto quello che aveva provato, tutto quello che aveva vissuto, tutto quello che era. Ingoiò tutto, e non proferì una sola delle parole che voleva dire. Non sarebbe servito a niente in fondo.

- È stata una bella serata, Edmund!- gli disse Molly, con un sorriso stampato da una parte all’altra della faccia. Lei non si ricordava nemmeno quello che gli era successo il giorno prima. “ Possibile che sia più felice di me?” si domandò Ed. Sorrise anche lui, di risposta, e chiunque, se non una vecchia svampita, si sarebbe accorto di tutta la tristezza di quel sorriso.


 

   
 
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