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Autore: ScleratissimaGiu    16/07/2013    10 recensioni
Il seguito della mia prima FF sui 1D, ovvero "Larry Stylinson - Noi Siamo Infinito"
Il padre di Louis è morto, Harry si è trasferito e ha preso una brutta strada.
Un incontro casuale potrà riportarli insieme?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Regola n.1:  devi divertirti
 
 
In memoria di Mark Tomlinson
1965 - 2013
Nella cattedrale del nostro cuore ci sarà sempre un cero acceso per te
Riposa in pace.
 
Conservo ancora quell’articolo tra le pagine di “Noi Siamo Infinito”, anche se, ormai, la foto della sua tomba di marmo bianco non mi fa più nessun effetto.
Non più.
Da quando ci siamo trasferiti qui per stare vicino alla clinica della mamma, niente mi fa più effetto.
Specialmente da quando ho iniziato a lavorare.
La strada è come un’università, che ti insegna a stare al mondo.
Non avrei mai pensato di finire qui, di essere reclutato nel giro di prostituzione più grande dell’Inghilterra.
Sia chiaro, sono uno dei migliori, anche se lavoro da soli tre mesi.
Per essere più precisi, tre mesi, una settimana e quattro giorni, esattamente il giorno del funerale di Frank.
L’ultima volta che ho visto Louis è stato lì, mentre teneva un braccio intorno alle spalle della madre e cercava di consolarla.
Entrambi portavano occhiali da sole con lenti enormi e spesse, ma si poteva facilmente notare che era solo lei che piangeva, mentre suo figlio rimaneva impassibile a fissare la bara di legno scuro.
Avrei voluto avvicinarmi, dirgli che mi dispiaceva tanto anche se non era vero, perché io me la ricordo quella sera, ricordo com’è venuto a scuola il giorno dopo, ricordo la voce da pazzo che aveva suo padre.
Ricordo tutto, sono uno che non dimentica troppo facilmente.
Ricordo anche la lettera.
Conservo anche quella, certo, ma non la apro mai, perché è una ferita ancora troppo profonda.
Ti amo.
Già, ti amo.
Facile da dire per lettera, quando lasci l’altro, vero?
Piansi per circa tre o quattro giorni di fila, rimanendo chiuso nella mia stanza, al buio.
Ammetto che, in quei momenti, non avrei disdegnato per niente un bel bicchiere di vino, ma gli avevo fatto una promessa.
Gli avevo promesso di non bere più, e anche se era finita non l’avrei deluso.
Perché io lo amavo ancora.
E forse lo amo ancora un po’ anche adesso, anche se ho ancora il cuore spezzato.
Ma il lavoro mi ha aiutato molto.
I primissimi tempi quando io e mia sorella abbiamo portato la mamma in clinica e ci siamo trasferiti qui, passavo le giornate alternando la mia camera con il tavolo della cucina e viceversa, con qualche sosta al bagno, ma solo occasionale.
Poi un giorno, mentre andavo in clinica a trovare mia madre, Vincent Anicetti mi si è avvicinato.
Non sapevo nemmeno chi fosse, all’inizio, ma poi ha iniziato a parlarmi del lavoro e mi sono subito appassionato.
L’ho vista come un’opportunità di staccare la spina, di divertirmi… e di racimolare un bel po’ di soldi, che, nelle condizioni in cui eravamo io e mia sorella, non faceva certo male.
Da quando ho iniziato a lavorare, i problemi sono diminuiti drasticamente, e anche il fronte “Louis” è migliorato.
Mia sorella ha trovato un posto come infermiera all’ospedale e fa il turno di notte, come me, diciamo.
Non ho mai rimpianto la mia decisione, anche perché mi diverto molto nel mio lavoro.
Lo schermo del mio cellulare si illumina riproducendo Heroes dei Wallflowers. 
Mi riprometto di cambiare sveglia (mi ricorda troppo Louis) e prendo lo smoking dall’armadio.
Mentre annodo la cravatta, noto quanto somigli a mio padre.
Scuotendo la testa, prendo il cercapersone e chiudo a chiave la porta, dunque mi incammino verso l’hotel Doré, dove c’è il mio primo lavoro.
Vincent coordina bene o male quasi tutti i nostri compiti della nottata, dunque è impossibile sbagliare posto o persona.
Di solito cerca di metterci tutti a lavorare in un posto solo, in modo che se uno è assente per qualche motivo lo si possa sempre rimpiazzare senza troppi casini.
L’hotel Doré è il mio posto preferito, dato che è l’albergo più lussuoso della città.
Appena entro, vedo che nella hall è già seduta la mia prima cliente, Eleanor Calder.
Eleanor è stata la prima cliente del mio primo giorno, quindi si può dire che con lei ho un rapporto speciale.
Mi vede quasi subito, e mi sorride alzandosi dal divanetto dorato.
I suoi lunghi capelli castani ondeggiano graziosamente mentre si avvicina.
Passati tre minuti, dopo che siamo arrivati in camera e ci siamo scambiati i soliti convenevoli, inizio a lavorare sul serio.
Eleanor ha la classica faccia da “brava ragazza”, quella che fa sempre la morale a tutti, quella che non diresti che passa più tempo sulla strada a cercare compagnia che in ufficio a lavorare.
Con lei è tutto un record; anche la prima volta, appena mi ha visto, ha detto: quello più bravo è durato tre ore, pensi di potercela fare?
Così stabilimmo il primo record: quattro ore non-stop.
Da quel giorno, ha sempre cercato me, tra i ragazzi di Vincent.
E anche stavolta, come tutte le altre sere, il nostro record di quattro ore rimane imbattuto.
Scendiamo di nuovo nella hall, ridendo e scherzando, ma appena adocchio la porta d’entrata mi blocco improvvisamente.
- Che c’è? - mi chiede lei con la sua voce delicata, posandomi una mano sulla spalla, ma la sento distante migliaia di chilometri, centinaia…
La mia attenzione è tutta per la porta scorrevole a una decina di metri davanti a noi.
- Harry, va tutto bene?
La sua voce non è più che un sussurro ora, che riesco appena ad udire, perché c’è un altro suono assordante che la sovrasta: il mio cuore.
Il mio cuore che batte all’impazzata, mescolando rabbia, frustrazione, felicità, dolore, ansia.
Una sottile pellicola di sudore mi imperla la fronte mentre osservo Louis Tomlinson che fa il suo ingresso nella hall dell’hotel più lussuoso della città.
 
 
 
Regola n.2:  non devi assolutamente affezionarti a chi potresti perdere
 
 
Il suo sguardo, dopo aver attraversato tutta la sala, finalmente si posa su di me.
Quegli occhi, Dio quegli occhi… sono ancora più belli di quanto ricordassi.
Noto che le sue guance si sono colorite di rosso, e avverto che anche le mie stanno avvampando velocemente.
Mi giro verso Eleanor, che sembra visibilmente preoccupata.
Mi sforzo di sorriderle.
- Vuoi scusarmi un momento? - le dico gentilmente, e lei appare più sollevata, e annuisce.
Prima di andarmene le bacio la mano, da vero gentiluomo.
Poi, torno a fissare Louis, che adesso ha assunto una vaga espressione interrogativa.
Scendo molto lentamente gli ultimi gradini, e mi avvicino a lui con un’ombra di sorriso a metà tra il gentile e il divertito, il tutto ovviamente condito con una dose generosa di falsità.
Il mio cuore accelera ulteriormente; un battito più, uno meno, non noto neanche la differenza, ormai.
- Ciao, - gli dico, ma il tono mi esce un po’ troppo impastato di risentimento.
Mi schiarisco la voce.
- C-ciao.
Balbetta.
- Che hai, adesso? - sbotto - Credevi che non ci saremmo più rivisti?
Ok, forse è meglio che mi dia una calmata, soprattutto perché una scenata qui si ripercuoterebbe negativamente (eccome!) sul mio lavoro, ma le parole non ne vogliono sapere di ubbidirmi.
- Credevi che una lettera avrebbe cancellato tutto?
Forse questa era un po’ pesante.
Un po’ troppo.
Perché sappiamo entrambi che non è stata colpa sua, per quella fottuta lettera.
Perché il vero responsabile ha già pagato, e sappiamo bene che siamo stati tutt’e due più che felici, di questo.
Il bruciore assale i miei occhi, e le lacrime mi appannano la vista per un attimo.
Allora chiudo gli occhi e scuoto la testa, ricacciandole indietro.
Quando li riapro, Louis è ancora in piedi davanti a me, con un espressione triste che quasi mi fa impietosire.
Quasi.
In quel momento, attraverso la porta a vetri, vedo il riflesso di Eleanor dietro di me, che osserva tutta la scena a distanza di sicurezza.
Sta valutando se intervenire o meno, rifletto.
Torno a guardare Louis, che apre la bocca come per dire qualcosa, ma io sono più svelto di lui.
- Mi dispiace per tuo padre, - e me ne vado.
Prendo per mano Eleanor e usciamo dalla porta che da sul parco, e lei mi segue senza obiettare.
Intuisco che vorrebbe chiedermi chi era quel ragazzo, perché ho gli occhi un po’ rossi, perché la mia stretta è così forte, ma rimane in silenzio, e gliene sono grato.
Camminiamo nel parco sotto la fievole luce dei lampioni, osservando le ombre intorno a noi come se non esistessero, continuando a rimanere zitti.
Ci sediamo su una panchina davanti alla piccola fontana, e osserviamo i 
deboli getti d’acqua che ci schizzano un po’.
- Stai bene? - mi chiede lei, posando una mano sopra la mia.
Non reggo, e scoppio a piangere.
Eleanor mi abbraccia, ma anche quella scena mi è troppo familiare, perché così ci eravamo baciati per la prima volta io e Louis, e mi allontano.
Rimane comunque lì a guardarmi, anche se l’ho allontanata dalla sua presa amichevole.
Mi calmo dopo parecchi minuti, e mi avvicino nuovamente a lei.
- Adesso mi vuoi dire che cos’è successo? - mi chiede dolcemente.
E le racconto tutto.
Ogni cosa.
Tutto quello che è successo tra di noi, tutto quel che eravamo noi.
Il mio cercapersone vibra parecchie volte, ma lo ignoro ripetutamente, anche se dovesse costarmi caro: adesso ho bisogno di una spalla su cui piangere.
Il mio racconto finisce con la lettera, che recito a memoria, e con un sospiro di amarezza che mi strugge il cuore.
Mi abbandono sulla panchina, e il suo commento arriva qualche momento dopo.
- Non dovremmo mai affezionarci a chi potremmo perdere.
Annuisco, ripetendomi in testa “sei un idiota Harry, un emerito idiota”.
- … ma questo significherebbe che non dovremmo amare affatto, e secondo me è un male - continua lei.
La guardo: sorride.
Non come se volesse prendermi in giro, ma come si sorride ad un amico.
La abbraccio; il primo vero segno d’affetto che c’è stato tra di noi.
- C’è un’altra cosa… - sussurro, sentendo una stilettata al cuore che interpreto come senso di colpa.
- Cosa?
Esito: avrebbe senso dirle che sento di provare ancora qualcosa, per Louis?
Che è stata la prima persona a cui ho detto il primo vero “ti amo”?
Che sento che se il mio cuore sembrava essersi rimesso a posto ora era più rotto che mai?
Concludo che è meglio tacere.
- … niente, non ha importanza, adesso.
Annuisce, come a dire “quando sarai pronto a parlarne io ci sarò”.
E sono sicuro che ci sarebbe stata, se una macchina non l’avesse investita e uccisa sul colpo due giorni dopo.
 
 
 
Regola n.3:  il cuore va sulle guance, e non in mano
 
 
Sono le tre del mattino, e fuori è buio.
In strada non si sente quasi niente, ad esclusione di qualche motorino e sirene della polizia in lontananza.
Mia sorella stacca alle cinque.
E allora chi è quel rincretinito che bussa a quest’ora?
Rimango a letto ancora qualche secondo, per vedere (più che altro sentire) se è solo qualche ragazzino che si diverte a fare uno scherzo, ma visto che chiunque sia non demorde mi alzo pigramente e, dopo aver acceso tutte le luci possibili e immaginabili, apro la porta dell’appartamento.
Louis è lì in piedi, immobile, bianco come un cadavere.
Mi ricordo solo in quel momento che indosso solamente un paio di boxer, ma non do troppo peso a questo fatto.
- Ciao - dice, stavolta senza balbettare.
- Ehi, - la mia voce è ancora assonnata, benché la sorpresa dell’incontro mi abbia svegliato di colpo.
- Posso entrare?
Un assordante campanello d’allarme mi risuona nelle orecchie, ricordandomi una scena già vista.
L’ultima volta che avevamo avuto un dialogo simile eravamo finiti a baciarci sul mio divano ormai fidanzati, e poi non era finita bene per nessuno.
- Meglio di no, - gli dico, appoggiandomi allo stipite della porta.
Annuisce, probabilmente anche lui memore di quella mattina.
- Perché sei venuto qui? - gli chiedo, cercando di controllare il più possibile le mie emozioni.
Sospira, credo che stia cercando le parole adatte.
Un sacco di frasi mi stanno risuonando in testa, e in sottofondo sento i Wallflowers che dicono che potremmo essere noi, solo per un giorno.
Potremmo essere eroi, solo per un giorno.
- Perché ti amo, Harry.
Il mio cuore sprofonda nel petto, dove non riesco più a recuperarlo né a sentirlo, così in profondità che penso che probabilmente non lo sentirò più.
I suoi occhi si velano di lacrime, il suo labbro trema leggermente.
Sta rivivendo quella sera.
Quella sera in cui è cambiato tutto, quella sera in cui avremmo potuto essere noi.
Solo noi.
Una serie di immagini attraversa la mia mente a una velocità supersonica: noi due sul divano, suo padre, quelle minacce, i pugni, i suoi lividi che l’avevano reso irriconoscibile, la lettera bagnata di lacrime, quella calligrafia piena di zampe di gallina che avevo amato così tanto… e che mi aveva fatto così male.
Dal pavimento, il mio sguardo si posa di nuovo su di lui.
Vedo che una lacrima solitaria gli solca la guancia destra, e sento che anche io sto per cedere, ma non voglio ricacciarle indietro.
Stavolta non devo nascondermi da nessuno.
Posso essere me stesso.
Posso decidere per me stesso.
E decido che, anche se amo Louis con tutto il mio cuore, non voglio soffrire ancora.
- Va’ a casa, Louis.
E gli sbatto la porta in faccia.
Dopo un quarto d’ora, quando sento i suoi passi scendere le scale, torno nella mia stanza e ricomincio a piangere.
 
 
 
Regola n.4:  devi sembrare puro
 
 
Non vedo Louis da tre giorni.
Ho il cuore a pezzi.
Eleanor, quando mi ha chiamato per avvertirmi che stava venendo da me, mi ha detto “se lo ami, non devi aver paura di soffrire ancora, Harry. Ricorda che se non ti avesse amato non sarebbe venuto nel cuore della notte a dirtelo! Adesso preparati perché sto arrivando. Ti voglio bene”.
Cinque minuti dopo un tir l’ha tirata sotto.
È morta sul colpo.
Secondo il medico legale non ha provato dolore, e di questo sono felice.
Sono sicuro che mi sta guardando, da lassù.
Che mi protegge.
Perché come mi voleva bene lei non me lo voleva nessun altro.
La mamma si sta lentamente riprendendo, e sono felice anche di questo.
Sto passando sempre più tempo alla clinica, anche perché al lavoro, dalla notte all’hotel Doré quando ho avuto quella piccola scenetta con Louis, le cose non vanno granché bene.
Vincent mi ha convocato a casa sua, una grande villa con piscina, per parlare di “quel ragazzo con un cappello strano con cui hai parlato al lavoro”.
- Allora, chi era? - mi ha chiesto, versandomi una tazza di caffé forte - un vecchio amico del college? 
- Più o meno, qualcosa del genere… - ho commentato, versandomi due cucchiaini generosi di zucchero.
Lui ha grugnito, non ho capito se fosse un grugnito d’approvazione o che altro.
Sono più propenso a pensare che fosse un “che altro”.
- Come sta tua madre, Harry?
- Si sta riprendendo, - ho risposto, con un tono sospettoso.
Altro grugnito, stavolta sicuramente d’approvazione.
- Sai che c’è? Ho un’idea - ha detto all’improvviso, sistemandosi sulla sua poltroncina rossa.
Ho annuito, chinandomi leggermente verso di lui.
- Perché non passi qualche giorno in clinica con lei? Non ti sto licenziando, - ha aggiunto frettolosamente, sorridendo beffardo - ma potrebbe essere una mossa strategica per il tuo lavoro.
Ho abbassato il capo verso destra, in evidente confusione.
- Se la gente vede che sei legato a tua madre, - ha continuato lui, in tono concitato - darai quell’aria da “bravo ragazzo” che permetterà ai tuoi affari di decollare di nuovo. 
Ho annuito, anche se continuavo a non capire del tutto.
- Sarò onesto con te, - ha detto ancora Vincent, sospirando - da quando ti hanno visto con quel tipo in quegli atteggiamenti… la gente ha iniziato a mormorare.
Oh, adesso è tutto chiaro, ho pensato.
- Allora, affare fatto, Vince - ho detto, alzandomi.
- Affare fatto, - ha ripetuto lui, stringendomi la mano.
 
E così eccomi qui, a camminare verso la clinica come un ragazzo qualunque che va a trovare sua madre.
Oltrepasso indifferente decine di negozi d’abbigliamento, calzature, panifici, soffermandomi qualche secondo a guardare la strada dove è stata investita Eleanor.
Mi faccio il segno della croce fissando la pozza di sangue rappreso sull’asfalto e la mia camminata riprende.
La mamma oggi sta ancora meglio.
Ogni giorno è sempre più lucida, ricorda cose di quand’era ancora una bambina, mi racconta aneddoti di quando io e mia sorella Gemma eravamo piccoli, qualcosa di buono anche su papà.
Torno all’appartamento un po’ più rinfrancato.
Quando apro la porta, noto che per terra c’è una busta bianca con le mie iniziali.
La raccolgo e mi siedo al tavolo della cucina, dove cautamente la apro.
Dentro c’è un disco blu dalla scritta argento.
The Wallflowers - Heroes
Dietro al disco, fissato con un pezzettino di scotch, un bigliettino scritto in una calligrafia a dir poco atroce.
Scritte ad inchiostro nero, solo due parole.
Mentre le lacrime scorrono silenziose lungo le mie guance, gli rispondo ad alta voce, consapevole del fatto che non può sentirmi.
- Anche io ti amo.



Angolino dell'autrice ^.^

Ehy, gente!
Ribadisco ancora una volta che non sono una delle fan più sfegatate dei 1D, dunque mi scuso per qualsiasi errore possa aver commesso nello scrivere questa fanfiction (che, come la precedente e quella che seguirà, è dedicata alla mia mitica Marti).
Ricordate che recensioni, positive, negative o neutre, sono graditissime!
Alla prossima!
  
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