ATTENZIONE:
In questa storia verranno sfiorati alcuni temi importanti come demenza
mentale, stalking e abuso di minori* . Gli
avvenimenti narrati sono riportati in una realtà un
po’ diversa di The Vampires Diaries dove non si sono
verificati i seguenti eventi: la morte dei genitori di Elena,
l’incontro di Elena con i fratelli Salvatore, la morte di
Lexi, l’amicizia di Elena, Caroline e Bonnie.
(*) per abuso di minori non si intende assolutamente abuso sessuale.
16.Notte
[la morte di Caroline]
«Alza il volume della radio, Matt, non la sento»
biascicò tentando di mantenere inalterato il sorriso a
trentadue denti che
aveva tirato su all’inizio di quella serata e che adesso
minacciava di non
andarsene più comportando un intorpidimento dei muscoli
facciali con relativa
paralisi.
Matt roteò gli occhi aggrappandosi maggiormente al
volante e cercando di guidare con una velocità sostenuta.
Matt non era il tipo da festa, basicamente nei
suoi diciassette anni non era riuscito a divertirsi pienamente, a
godersi le
feste di compleanno dei compagni di scuola, a uscire con gli amici il
venerdì
sera, ad andare con la sua ragazza ad una festa. C’era sempre
qualcosa che lo
frenava prima di qualunque tipo di divertimento, come se da un momento
all’altro un agente di polizia dovesse sbucare fuori e
avvertirlo che sua madre
era stata trovata ubriaca in qualche angolo della strada o che sua
sorella
Vicki fosse dietro le sbarre in attesa che venisse pagata la cauzione.
E Matt viveva con l’ansia, sapendo di per sé che
ogni divertimento era motivo di preoccupazione.
Tyler fece capolino tra i due sedili anteriori e
tenendosi saldamente allo schienale del conducente allungò
il braccio fino a
raggiungere il bottone dello stereo.
La musica ad alto volume inondò l’abitacolo della
macchina sovrastando il rumore delle ruote e dei freni mal ridotti.
La bionda batté le mani squittendo dalla felicità
provocata dal gesto dell’amico, anche lui un po’
brillo, ma sicuramente più
lucido della Forbes.
«Ty non ti ci mettere anche tu, non la assecondare»
borbottò Matt scoccando attraverso lo specchietto
retrovisore un’occhiataccia
all’amico che occupava il sedile posteriore il cui volto era
illuminato da
balzi di luci provenienti dai lampioni che si susseguivano per un buon
tratto
della carreggiata.
Tyler serrò le labbra rimanendo indeciso per una
buona manciata di secondi se rimanere zitto e inghiottire il groppo o
sputare
l’indignazione anche a costo di mandare a quel paese il suo
migliore amico.
Alla fine la parte meno lucida ebbe la meglio.
«Sai che ti dico? Che hai passato un’estate intera
peggio di una mamma iperprotettiva, sempre a preoccuparti per gli
altri, a rimanere
sempre vigile e all’erta» sbottò tutto
d’un tratto il ragazzo dai capelli
corvini e Matt arricciò lievemente il naso per il tanfo di
birra misto ad alcol
che proveniva dall’amico il quale gli stava alitando quelle
parole a pochi
centimetri dal suo orecchio.
«E’ tardi,
andiamo a casa. No, stasera non bevo.
Non me lo posso permettere. Questa
è
la nostra ultima estate prima del diploma, manca solo un mese
all’inizio
dell’ultimo anno e io non intendo affatto
sprecarlo!» Tyler prese a
scimmiottarlo con il suo tipico modo di fare con il quale Matt aveva
imparato a
conviverci da quando entrambi avevano il sorriso bucherellato di spazi
neri e
le ginocchia sbucciate.
Il biondo s’impuntò sul freno e le ruote della
macchina stridettero contro l’asfalto umido delle quattro del
mattino.
Caroline, che apparentemente sembrava essere stata
assorbita dalla musica tanto da non prestare attenzione alla
conversazione dei
due ragazzi, inclinò leggermente il capo così da
mettere maggiormente a fuoco
la figura del suo ragazzo e, con gli occhi contornati di mascara,
rivolse uno
sguardo anche a Tyler il quale non
era
ben sicuro di ciò che stesse per fare l’amico.
Matt portò il pollice alla labbra torturandosi con
gli incisivi la pelle spessa del dito mentre gli occhi rimbalzavano
nervosamente da una parte all’altra della strada quasi come
se fossero dei
tergicristalli. Caroline alzò curiosamente un sopracciglio
non spiegandosi lo
strano comportamento del ragazzo.
Gonfiò le guance.
«Ok, volete dirmi che cosa mi sono persa? Matt che
succede?» esordì la bionda ritrovando precocemente
l’uso della mano e alzandola
dal vestito di seta verde che le arrivava un po’ sopra la
coscia per posarla
sopra i jeans strappati di Matt il quale muoveva nervosamente la gamba.
Quel tocco provocò in Matt un senso di torpore e
di sicurezza. Era quel gesto timido e inconsueto che Caroline, ragazza
espansiva e dagli abbracci facili, si risparmiava di fare solo in
intimità,
quando erano da soli, quando bastava quel tocco leggero per dire ci sono io con te.
Matt sospirò, estrasse le chiavi dal cruscotto
davanti agli occhi di un Tyler leggermente confuso e gliele
lanciò.
«Sai, forse hai ragione. Non puoi sprecare
quest’ultima estate prima del diploma e io per quanto ti
voglia bene non sono
tua madre. Quindi guida tu, io mi voglio godere solo il viaggio di
ritorno».
A quelle parole la mandibola del Lockwood si aprì
di poco meno quarantacinque gradi e gli occhi lievemente lucidi
osservavano la
figura zigrinata delle chiavi della macchina con tensione mista a
desiderio.
Il moro deglutì di botto il grumo di saliva che
gli si era addensato sotto la lingua e puntò lo sguardo
sugli occhi azzurri
appena accennati di rosso dell’amico il quale stava esibendo
un sorriso
furbesco seppur rassegnato.
Dopotutto Tyler era un po’ ubriaco, come poteva
non ammetterlo, e l’idea di sedersi al volante a guidare non
lo allettava di
certo, non dopo il ritiro della patente avvenuto solo un mese prima che
gli era
costato una discussione violenta con il padre e le crisi isteriche
della madre.
Tyler guardò l’amico e un moto di euforia gli
straripò dagli occhi tramutandosi in un urlo amichevole, di
quelli buoni, che
scosse l’abitacolo della macchina e i suoi viaggiatori. Matt
diede una leggera
pacca sulla spalla dell’amico e in un batter di ciglio
invertirono i ruoli,
facendo passare Tyler di fronte al volante al fianco di Caroline e Matt
scaraventandosi sul sedile posteriore ormai rassegnato a
quell’idea.
La bionda si sbrogliò dalla morsa della cintura e
si protese all’indietro per scoccare un bacio al suo ragazzo
mantenendo un
sorriso genuino che continuò a persiste anche nei successivi
venti minuti di
viaggio in auto.
Solo che accadde qualcosa, un tintinnio simile ad
un antifurto, simile al gesso raschiato sulla lavagna, un fischio, un
sibilo.
«Che ti succede Ty?» chiese Matt scostando lo
sguardo dal display illuminato del cellulare. Erano le 4:38.
«N-non lo sentite questo rumore?» chiese il
giovane mantenendo saldamente le mani al volante, con il collo
imperlato di
sudore per quello strano ronzio che, seppur lieve, lo infastidiva.
«Saranno i freni, alza la musica per non sentirlo»
concluse spicciola la bionda e Tyler
seguì il suo consiglio alzando notevolmente il volume dello
stereo. Ma mentre
Tyler combatteva con quel fischio persistente che gli pungeva i nervi
uno ad
uno, Caroline si rilassò contro lo schienale del sedile,
stanca e soddisfatta
della serata. Pensava a cosa avrebbe fatto una volta a casa, come si
sarebbe
tolta le scarpe per raggiungere in punta di piedi la sua camera.
Probabilmente
sua madre non c’era, ma lei lo avrebbe fatto comunque,
adorava quel genere di
azioni, l’entrare di soppiatto, come se ci fosse stato
qualche genitore
arrabbiato che, in giacca da camera, la stesse aspettando con tanto di
punizioni e sequestro del cellulare. Ma la sua casa era vuota, e di
genitori
non se ne vedeva neanche l’ombra.
Il picchiettio dei tasti del cellulare di Matt si
fece molto più acuto, segno che probabilmente stava
massaggiando con la
sorella, ancora sveglia a quell’ora.
Ad un certo punto Care affilò lo sguardo. Non ne
era completamente sicura ma ciò che vedeva erano due
lucciole. Probabilmente si
erano posate sul vetro ed erano rimaste incollate. La bionda sorrise
meravigliandosi di quello spettacolo.
«Oh le lucciole» mormorò ma nessuno
sembrò badare
alle sue parole. Eppure quelle lucciole si facevano sempre
più grandi, si
ingigantivano fino a diventare delle vere palle al neon. Caroline non
aveva mai
visto una razza simile di lucciole. Emettevano luce bianca, chiara, e
sembravano avvicinarsi sempre di più.
«Ma che…» borbottò qualcosa
Tyler che, così come
lei, si stava strofinando insistentemente gli occhi annebbiati dai fumi
dell’alcol.
«Dove sono le lucciole?» chiese Matt avendo
finalmente finito di mandare messaggi e alzando lo sguardo insonnolito.
E di lucciole e lampadine vide solo i fari del
camion.
Il dito tremante sembrava non avere
alcuna intenzione
di pigiare il bottone del caffè espresso che lo sceriffo
Forbes richiedeva da
quel distributore posto nel corridoio dell’ospedale adiacente
alla camera della
figlia la quale era ancora in bilico tra la vita e la morte.
Elisabeth tirò un sospiro nervoso e si tamponò le
meningi e gli occhi stanchi e iniettati di miriadi di capillari, segno
di notti
insonne e ipertensione alle stelle.
Ci provò di nuovo e questa volta si tenne ben
stretto il polso sottile, ma una voce alle sue spalle le fece cambiare
traiettoria
con il risultato di pigiare un bottone sbagliato e di un odore
nauseante di
limone e tè liofilizzato.
Lo sceriffo imprecò per quel misero tè
– per
giunta deteinato – e per il dollaro che aveva sprecato, ma
alla fine riprese il
controllo e si voltò per esaminare chi e cosa
l’avesse disturbata.
Una timida infermiera dai capelli neri raccolti in
una coda bassa e una voglia sotto il mento squadrò Lizzie
con fare
compassionevole notando i contorni violacei sotto gli occhi e il
colorito cereo
che la confondeva con il colore dei capelli, mal curati e di uno spento
giallo
paglierino.
Non appena mise a fuoco la figura minuta
dell’infermiera di fronte a lei,
«Sceriffo Forbes?» chiese l’infermiera
rivolgendosi
allo sceriffo, non tanto per verificare l’identità
della donna, di quello ne
era certa, quanto più per accertarsi delle sue effettive
condizioni visti gli
occhi sbarrati e l’aria assente.
«Si, sono io» riuscì a mormorare, ma
sembrava che
il tremore della mano si fosse diffuso in tutto il corpo raggiungendo
la sua
lingua, intorpidita e anestetizzata dai troppi caffè.
L’infermiera le sorrise con un sorriso che sapeva
di madre e Lizzie si sentì semplicemente rincuorata prima
ancora di udire le
parole della donna.
Per tre giorni aveva aspettato tra i corridoi
dell’ospedale, dietro quei muri che odoravano di
disinfettanti e di malati.
Prima aveva aspettato che Caroline uscisse dalla sala operatoria ed
erano state
ore di ansia, ore di scuse da parte di Tyler, ore di bestemmie, di
litigi, di
lacrime, di paura. Poi quando finalmente aveva visto sua figlia passare
sulla
barella, con i punti ancora freschi sotto il mento e macchie blu al
posto del
rosa delle guance, aveva aspettato che la sua bambina si svegliasse e
attendeva
una notizia, un segno che vedeva in ogni dottore, in ogni infermiera
che in
camice rigorosamente blu le passava accanto. A volte le fermava, a
volte
rimaneva seduta. Adesso aspettava soltanto che qualcuno le dicesse che
cosa ci
facesse ancora lì.
Il tocco leggero dell’infermiera sulle dita, che
ancora artigliavano il bicchiere di carta con un tè ormai
freddo, risvegliò
nuovamente lo sceriffo.
«Sua figlia si è svegliata, può andare
a vederla»
annunciò e teneramente tolse dalle mani il bicchiere
riversando il contenuto in
una pianta lì vicino.
Lizzie fu come rianimata da quella notizia e le
ore di sonno perse, la fame, la stanchezza, lo stress evaporarono come
acqua
sotto il sole cocente.
Si drizzò sulle ginocchia allontanandosi da quelle
sedie bianche e troppo scomode e si lasciò guidare
dall’infermiera nella camera
d’ospedale dove riposava la sua Caroline.
Notò l’esile figura di sua figlia adagiata sulle
lenzuola grigiastre attraverso le veneziane che ricoprivano la porta a
vetri
della stanza. Per un attimo si pentì di non aver risposto
alla chiamata di Bill
e cacciò indietro quel pensiero mordicchiandosi il labbro
inferiore. Era suo
padre dopotutto.
Sospirò lievemente ancora indugiando su quel
pensiero, ma non si accorse che la sua mano si era già mossa
e si era
aggrappata alla maniglia facendo scattare la serratura.
Si sentì il passo troppo pesante, così come
quando,
ancora giovane e con i capelli lunghi, sbirciava la sua bambina, di
pochi mesi
e ancora infagottata, da un lato della culla ed aveva il cuore in gola,
come se
la sua piccola fosse munita di un udito fuori dal normale e sentisse lo
strascichio lento delle scarpe. E così Lizzie era entrata,
senza fare rumore
come se fosse tornata indietro di diciassette anni, come se
lì in quel letto ci
fosse la sua Caroline appena nata.
Un respiro forse troppo affrettato e la massa di
capelli color paglia si mosse e con lei anche i due piccoli occhi giada
appena
stropicciati dal sonno.
«Mamma?» gracidò lievemente muovendo
appena le
labbra, senza sorridere perché i punti tiravano ancora.
Lo sceriffo si sciolse nel vedere la sua creatura
in quello stato: la fronte pallida ricamata dai punti che si
estendevano lungo
tutto il sopracciglio destro per poi scendere fino al mento, le labbra
striminzite, le guance prive di spessore. Notò poi quelle
piccole cose che solo
una mamma sarebbe stata in grado di vedere: la spalla destra era
leggermente
scoperta e se qualcuno non le avesse rimboccato subito le coperte
avrebbe preso
sicuramente freddo dato il sistema di condizionamento presente nella
struttura;
dalla posizione rigida della mascella stava sicuramente scomoda con
quei tre
cuscini sotto la nuca, ma essendo troppo pigra e stanca probabilmente
non aveva
fatto nulla per sistemarsi meglio; negli occhi aveva ancora la paura di
quella
notte infernale.
«Ehi Care» rispose Lizzie aprendosi in un sorriso
e adagiando la mano su quella della figlia. Caroline si
sentì subito a casa.
Sbatté le ciglia intorpidite dalle troppe ore di
incoscienza e di brancolamenti nel buio e provò a
localizzare tutte le parti
del proprio corpo: a parte qualche muscolo indolenzito e la testa in
fiamme,
stava bene.
Fu la prima volta che Caroline Forbes si reputò
davvero essere una ragazza fortunata: fin da bambina era solita mettere
il
broncio crogiolandosi nella propria condizione di sfortuna, ma una
volta
cresciuta aveva imparato a tenerlo nascosto, a ingoiare
quell’odiato rospo e a
far finta di niente, ma lo sapeva, non era mai stata fortunata, non era
mai
stata la prima.
Caroline strapazzò le labbra in un sorriso che si
rivelò essere un vano tentativo data la smorfia di dolore
che se ne causò.
«Mi dispiace davvero tanto» mugugnò e
Lizzie si
sentì pungolare gli angoli degli occhi.
La madre la guardò con occhi colmi di gioia e non
trovò il coraggio di rimproverarla, di dirle che non sarebbe
dovuta andare a
quella festa, ma le parole si erano perse.
«Anche a me» si limitò a dire come se
avesse anche
lei qualcosa per cui farsi scusare – e in fondo lo sapeva che
era vero.
Naftalina. C’era odore di
naftalina in quella
camera d’ospedale dove Caroline stava trascorrendo
l’ennesima notte. Il letto
sembrava essere rovente tanto che la bionda si rigirava convulsamente
tra le
lenzuola, con gli occhi socchiusi – anzi sbarrati.
Lo vedeva, vedeva continuamente quel camion venire
verso di lei, le luci smettere di brillare, i vetri scartavetrarle il
viso e le
ossa piegarsi quasi come se fossero diventate di gomma. Risentiva
l’odore della
benzina, l’acre tanfo della miscela misto al sangue che
giù dal sopracciglio le
impiastricciava la faccia e i capelli.
Da tempo non si era sentita così: sporca, sudicia.
E più ripensava a quella sensazione più si
sentiva accapponare la pelle e la
bile rivoltarsi dall’interno.
La bionda si alzò a sedere e la lotta contro il
cuscino troppo alto fece cadere sul pavimento la rivista di gossip che
Care
aveva dimenticato aperta. La vista di quelle lettere colorate, i volti
conosciuti e invidiati delle star televisive le fece pensare a qualche
ora
prima quando Matt e Tyler erano venuti a salutarla e a tenerle
compagnia, insieme
a Victoria che si era sforzata quanto meno di essere gentile con lei.
Erano
state ore di risate, di scherzi, di luce dato il sole che
prepotentemente
entrava attraverso le finestre di quella stanza.
Ora che Caroline la osservava meglio di notte
quella stanza non era poi così accogliente come appariva di
giorno: le pareti
erano alte e avrebbe potuto giurare che in un angolo si fosse
incrostata della
muffa.
La bionda si slanciò per raccogliere la rivista,
ma il cigolio dell’asta con la flebo la fece desistere.
Scoccò un’occhiataccia
a quell’arnese e fissò per una quindicina di
secondi le finissime gocce del
farmaco che attraverso il tubicino di gomma sarebbe arrivato alla sua
vena
azzurrognola che risaltava tra le altre lungo il suo braccio sinistro.
Sospirò e arresasi dal prendere la rivista per
ingannare un po’ il tempo, cercò con lo sguardo
l’orologio le cui lancette
segnavano l’una e quattro minuti.
Si tirò su la coperta di lino grigio e sprofondò
la testa dentro il cuscino mettendo in moto il cervello per trovare
idee
allettanti da poter mettere in atto in quel frangente, almeno
finché
l’infermiera del turno delle tre non sarebbe entrata per
cambiarle la flebo.
Decise allora di concentrarsi sulla spia rossa ad
intermittenza dell’allarme antincendio posto sopra la porta.
Eppure più la
guardava più le spalle si irrigidivano, le pupille si
dilatavano: le tornava
alla mente la luce del camion, travisata a causa dei fumi
dell’alcol. Scosse la
testa cacciando via quel pensiero e allo stesso tempo biasimando se
stessa –
che idiota che era stata per l’aver confuso il faro di una
macchina, per giunta
di un camion, con delle lucciole.
Ma c’era qualcos’altro che le ricordava quella
spia rossa e oltre a lei se n’erano accorte le sue spalle e
soprattutto il suo
collo. Le mani cominciarono a formicolare e Caroline pensò
bene di mettersele
in bocca e morderle pur di non grattarsi quella zona vicino alla
giugulare. Il mostro non sarebbe
venuto, no? Di mostri
che poi neanche esistono.
E intanto Caroline inspirava ed espirava, non si
ricordava più l’ultima volta che aveva avuto una
crisi del genere, si ricordava
però che ancora doveva prendere lo sgabello per rifugiarsi
nel ripiano alto
dell’armadio, nascosta, in silenzio, al sicuro dal suo
carnefice.
Uno,
due, tre,
quattro.
Anche chiudendo gli occhi quella luce continuava
a lampeggiare, sempre più forte, penetrandole nelle cornee. Centosessantatre, centosessantaquattro,
centosessantacinque.
Solo a centosessantacinque le rughe di troppo che solcavano la fronte
di
Caroline scomparvero così come la sua paura.
Riempì i polmoni d’aria arricciando il naso per
l’odore persistente di naftalina che le stava facendo venire
il capogiro. Si
rimise nuovamente seduta, arrotolando le coperte fin sotto le ginocchia.
Qualcosa catturò il suo sguardo alla sua sinistra.
Lanciò un’occhiata in tralice all’ombra
dell’asta
con la flebo e le sembrò tutto normale. Aguzzò
meglio la vista e quando si rese
conto di cosa fosse anomalo in quella situazione si cacciò
una mano sulla bocca
per soffocare il grido di disgusto che la stava pervadendo.
La sacca conteneva un liquido, liquido scarlatto
che continuava il suo lento fluire attraverso tutto il tubicino che
conduceva
direttamente al suo polso.
Era sangue.
Quando e come fosse stato inserito all’interno
della sua flebo poco importava, ciò che più
allarmava Care era la vicinanza di
quel siero.
Un brivido sconvolse la bionda e con le mani
sudaticcie provò a staccare il cerotto dal sottile strato di
pelle, grattò con
le unghie la colla che saldava per bene l’ago alla garza.
Un rumore. Caroline smise di respirare.
«Chi c’è?» balbettò
ma ciò che ottenne fu il
rimbalzare della sua voce tra le pareti.
Il suo cuore batteva ad un ritmo irregolare, un
ritmo ben conosciuto.
Le pupille schizzarono veloci all’orologio.
Erano le 01:27*, troppo presto per la visita
notturna dell’infermiera.
Un’ombra e Caroline soffocò le urla addentando il
cuscino.
Fino a che il suo cuore non si zittì.
Di tutti i luoghi pubblici presenti
in un qualsiasi
luogo abitato – che esso fosse una piccola cittadina o una
grande metropoli –
di sicuro gli ospedali erano i preferiti di Damon. Persone che
nascevano,
persone che morivano. Il ciclo della vita era tutto concentrato in
quelle
stanze. E poi c’erano i sopravvissuti,
coloro che erano stati a un passo dalla morte ma grazie ai miracoli
della
medicina avevano continuato a percorrere la strada della vita.
Patetico.
Damon non riusciva a trovare un aggettivo migliore per la loro
condizione di
precaria esistenza.
Ma il motivo – se mai ce ne fosse stato uno – per
cui il Salvatore si trovasse lì nel parcheggio di
quell’ospedale a distanza di
sicurezza dal lampione della luce a neon non è che fosse
così chiaro anche per
un vampiro come lui.
Non aveva ancora intenzione di rivelare la sua
presenza lì a Mystic Falls ben che meno a suo fratello il
quale continuava a
crogiolarsi nel suo dolore nella loro vecchia casa, creduta disabitata
dalla
maggior parte degli abitanti del quartiere.
«Oh beh tanto vale aspettare qualche infermiera»
mugugnò il Salvatore fra sé e sé
infilandosi le mani nelle tasche anteriori dei
jeans logori e appoggiando la nuca sul tabellone pubblicitario dietro
le sue
spalle.
Dopotutto aveva un certo languorino.
Cacciò veloce lo sguardo in direzione del cielo
stellato e per un attimo si beò di quel cielo scuro e denso
come l’inchiostro,
che non regalava la ben che minima luce se non una falce sottilissima
di
bagliore lunare.
«No»
Un lamento. Anzi più che un lamento a Damon parve
un rantolo di non sapeva quale specie di animale.
Il vampiro corrugò la fronte in direzione
dell’oscurità ancora più tetra alla sua
destra a una decina di metri dal
lampione a cui era distante solo di qualche centimetro.
Ora che ci pensava per bene, vi era un non so che
di spettrale quella sera.
Damon fece schioccare violentemente la lingua e si
sarebbe dato volentieri un pugno in faccia per quelle insolite paure
che
nient’affatto lo caratterizzavano.
«Respira, Caroline. Non sta succedendo per davvero».
Una voce strozzata da due o tre singulti prima di
sprofondare in quella sorda litania che Damon si accorse lo stava
accompagnando
già da una buona mezz’ora.
Il Salvatore si morse la lingua, ma dopo averci
riflettuto un po’ su roteò gli occhi e
girò i tacchi deciso a farsi avvolgere
dalle tenebre puntando a quello che senza alcun dubbio doveva essere un
essere
ferito.
Per quella notte le infermiere potevano stare
tranquille. Aveva trovato la sua cena.
«Ti consiglio di vedere qualche psicanalista,
amico. Sai, non è che sia così normale parlare da
solo» sbottò Damon con una
linea marcata di sarcasmo sottolineando l’ultima parola,
tentando di conferire
un non so che di macabro.
La sua vittima trasse un sospiro di paura appoggiandosi
al cassonetto della spazzatura accanto a lei ma dopo aver messo di
respirare
per ben dieci secondi l’aria tornò a riempirle i
polmoni.
«Non sono sola. Sto aspettando una persona» disse
la sagoma nera allacciando velocemente le braccia al petto, avendo
intuito le
intenzioni di quello sconosciuto.
«E comunque non mi serve uno psicanalista»
continuò con una punta di irritazione.
A detta di Damon quella voce acuta e sottile
poteva appartenere solo a una donna, ad una ragazza per la precisione
dato
anche il corpo snello e slanciato che si poteva intravedere dalla luce
soffusa
del lampione alle sue spalle.
Il Salvatore inarcò un folto sopracciglio nero e
per poco non si aprì in un sorriso data
l’insolenza – e stupidità - di quella
ragazza.
«E perché non aspetti quella persona sotto la
luce?» chiese avanzando di un passo ma non notò
alcuna reazione di paura da
parte della ragazza e questo lo incuriosì molto. Sembrava
piuttosto
infastidita.
«Perché quella dannata luce è
decisamente troppo
forte che per poco non accecava i miei occhi. Ma dico, con che diamine
di neon
li fanno queste insegne? Sono così luminose
che mi danno un fastidio assurdo» sbottò
più che irritata e calciò il bidone
alla sua sinistra il cui contenuto maleodorante si riversò
sull’asfalto del
parcheggio dell’ospedale.
In quel preciso istante Damon si pentì di essere
venuto in quel luogo.
Stava per ribattere e affilare i canini così da
chiudere quella bocca pronta solo a sputare malcontenti, ma ancora una
volta la
lingua veloce della ragazza lo precedette.
«E poi ho una gran sete.
Ho la gola letteralmente in fiamme» pronunciò con
voce roca
trattenendosi la trachea con le dita affusolate.
A Damon quella situazione non piaceva, non piaceva
per niente specialmente perché se i suoi calcoli fossero
stati giusti – e di
rado si sbagliava – in città c’era un
nuovo vampiro in circolazione.
Il vampiro si preparò al momento cruciale della
rivelazione.
«E’ naturale, principessa.
Il tuo corpo ha smesso di funzionare, il tuo cuore di battere per un
po’ e abracadabra hai
bisogno di sangue per
sopravvivere. Se la vie».
Caroline strabuzzò gli occhi ponderando le strane
parole che quel perfetto sconosciuto le aveva appena rivelato.
Katherine, la ragazza che aiutava la madre
all’ospedale, l’aveva trovata ancora in stato
confusionale e profondamente
scossa. Le aveva detto di vestirsi, di prendere la propria roba e di
aspettarla
sul retro. Non sapeva il perché le avesse dato ascolto,
sapeva solo che lei era
a conoscenza di cosa le era realmente successo e aveva dato tutta
l’impressione
di sapere anche come curarla.
Aveva semplicemente detto che aveva bisogno di
sangue, le stesse parole che quell’uomo ora le stava dicendo.
Forse che avevano
scoperto qualche strano farmaco a base di sangue? Il solo pensiero le
arroventava la gola e le faceva accapponare la pelle.
«In che senso il mio cuore ha smesso di battere?»
Adesso Damon aveva voglia di lanciare un bel
gancio sinistro a quel musetto sprovvisto di alcuna materia grigia.
«C-come? Ricordo di aver visto del sangue nella
flebo, un rumore e poi qualcuno mi ha messo un cuscino in faccia
e-» blaterò la
ragazza non riuscendo a leggere l’ovvietà delle
sue stesse parole.
Una macchina svoltò l’angolo e i fari inchiodarono
i due sul posto, illuminandoli a giorno.
Un ragazzo li squadrò con aria sbigottita ma
entrambi non se ne curarono.
Il Salvatore scoccò un’occhiata obliqua alla
ragazza: era poco più giovane di lui, con una cascata di
capelli biondi, ma non
riuscì a scorgere il viso.
«Sono morta?» chiese nervosamente portandosi una
mano davanti agli occhi. Stava soffrendo e anche parecchio.
Damon scrollò le spalle come per volersi scrollare
quel problema di dosso.
«Decisamente»
concluse franco lasciando la neo-vampira al suo triste destino.
Se mai ne avesse avuto uno.
*
Riferimento al
capitolo 3.Ospite
[sei mesi prima] riguardo all’ora del
decesso di Caroline.
***
Salve
miei cari
lettori,
come avevo
promesso ho fatto presto presto ad aggiornare! Ormai stiamo giungendo
al
termine e un po’ mi dispiace dovermi intrufolare in queste
situazioni un po’
brutte, ma la resa dei conti è più che vicina.
Dunque come vi avevo anticipato
già la volta scorso questo capitolo è un altro
dei tanti flashback solo che a
differenza degli altri contrassegnati con il [sei mesi prima]
questa tratta esclusivamente la notte dell’incidente
e la notte della morte di Caroline. Ammetto che i parallelismi con il
telefilm
era doveroso farli quindi ho inquadrato i tre adolescenti come di
ritorno da
una festa e come sempre il più responsabile è
Matt. Forse ho un po’
estremizzato i vari personaggi ma rendetevi conto che ho cercato di
descriverli
come dei ragazzi normalissimi pronti a fare stupidaggini e anche un
po’ brilli.
Mi sono calata nei personaggi e ho cercato di vedere il mondo da
“ubriaca” ecco
il perché delle lucciole viste da Caroline e del fatto che
invece erano i fari
di un camion. Anche Tyler che sente quel rumore, non ha nulla a che
vedere con
la licantropia o cose del genere, è tutto frutto di
allucinazioni uditive a
causa dell’alcol. Andando avanti, ci tenevo a ritagliarmi uno
spazietto per
Lizzie Forbes e per il suo lato materno. Quando Care ha avuto
l’incidente nel
telefilm ce l’hanno fatta vedere pochissimo così
mi sono cimentata anche in lei
e a sentire un po’ come una mamma in trepidazione per sua
figlia. La notte in
cui è morta Caroline è stata anche la notte in
cui la paura del sangue ha
cominciato a riaffacciarsi e questo l’ha turbata moltissimo.
Anche qui è morta
per soffocamento ma il sangue di vampiro le è stato
direttamente iniettato
nelle vene attraverso la flebo. Chi sarà stato? La risposta
sembra più che
logica anche se chissà…potrebbe essere Katherine
così come potrebbe essere
qualche altro vampiro, lascio il beneficio del dubbio a voi. E alla
fine chi
poteva esserci se non quel muso duro del Salvatore dagli occhi blu.
Come si
suol dire, si è trovato nel posto sbagliato al momento
sbagliato e il fatto che
era particolarmente buio ha impedito al vampiro di vedere chi fosse la
sua cena
alias interlocutrice. La macchina che ha illuminato i due come potete
immaginare è quella di Tyler, ecco perché afferma
di aver visto Caroline con
Damon. Ma Damon effettivamente non ricorda chi fosse o se
l’è tenuto per sé? E
vi lascio un po’ in sospeso così.
Il
prossimo
capitolo è quasi pronto quindi penso che la prossima
settimana mi vedrete di
nuovo qui. Sarà un capitolo molto amaro, con le urla di
Caroline a tutto spiano
ma anche momenti divertenti per i fratelli Salvatore. Si
intitolerà Escamotage:
secondo voi che cosa si
inventeranno per salvare la bionda?
Grazie mille per
le bellissime recensioni che mi lasciate, dico davvero.
Un bacio,
Sil.