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Autore: d r e e m    17/07/2013    5 recensioni
E’ il silenzio l’unico sovrano di casa Salvatore. Unica regola: non menzionare mai ciò che è successo undici anni prima, soprattutto in sua presenza. Una storia di legami ritrovati, di ricordi amari pronti a ricomparire, di amicizie fraterne, di ferite ancora aperte, di amori pronti a tutto. Anche se urla si levano nel cuore della notte, sangue macchia le pareti delle stanze, fantasmi del passato ritornano alla luce, nessun problema: stanno bene, sono tutti felici.
Dal Prologo:
«Tu menti!» gridò e affondò le unghie sul collo della vampira che un tempo aveva amato con l’intento di farla tacere per sempre.
«So il nome-» gracchiò con quel filo di voce che le rimaneva «- so il nome della bambina».
Quelle parole scossero Stefan che lasciò subito la presa.
«Caroline, Caroline Forbes»

Dal capitolo 14:
C’era una strana sensazione che gli pervadeva il corpo - e non era solo nel sogno.
Il terreno sembrava trasudare quel siero, imbrattando di rosso tutto ciò che incontrava.
C’era un pregnante odore di ruggine tra le pareti di casa Salvatore, sui vestiti candidi di Stefan.
C’era del sangue sul collo niveo di Caroline, tanto sangue sulle labbra a mezza luna di una Katherine moderna.
E poi c’era il mostro e con esso anche la fame – di lei.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Caroline Forbes, Damon Salvatore, Katherine Pierce, Stefan Salvatore
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ATTENZIONE: In questa storia verranno sfiorati alcuni temi importanti come demenza mentale, stalking e abuso di minori* . Gli avvenimenti narrati sono riportati in una realtà un po’ diversa di The Vampires Diaries dove non si sono verificati i seguenti eventi: la morte dei genitori di Elena, l’incontro di Elena con i fratelli Salvatore, la morte di Lexi, l’amicizia di Elena, Caroline e Bonnie.

(*) per abuso di minori non si intende assolutamente abuso sessuale.

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16.Notte [la morte di Caroline]


Caroline non era assolutamente certa se fossero cinque o sei i bicchieri che aveva mandato giù a quella festa clandestina organizzata dalla scuola in un capannone in mezzo ai boschi a venti minuti da Mystic Falls, ciò di cui era relativamente certa era che se avesse provato a camminare sui suoi tacchi probabilmente non avrebbe retto più di dieci secondi.
«Alza il volume della radio, Matt, non la sento» biascicò tentando di mantenere inalterato il sorriso a trentadue denti che aveva tirato su all’inizio di quella serata e che adesso minacciava di non andarsene più comportando un intorpidimento dei muscoli facciali con relativa paralisi.
Matt roteò gli occhi aggrappandosi maggiormente al volante e cercando di guidare con una velocità sostenuta.
Matt non era il tipo da festa, basicamente nei suoi diciassette anni non era riuscito a divertirsi pienamente, a godersi le feste di compleanno dei compagni di scuola, a uscire con gli amici il venerdì sera, ad andare con la sua ragazza ad una festa. C’era sempre qualcosa che lo frenava prima di qualunque tipo di divertimento, come se da un momento all’altro un agente di polizia dovesse sbucare fuori e avvertirlo che sua madre era stata trovata ubriaca in qualche angolo della strada o che sua sorella Vicki fosse dietro le sbarre in attesa che venisse pagata la cauzione.
E Matt viveva con l’ansia, sapendo di per sé che ogni divertimento era motivo di preoccupazione.
Tyler fece capolino tra i due sedili anteriori e tenendosi saldamente allo schienale del conducente allungò il braccio fino a raggiungere il bottone dello stereo.
La musica ad alto volume inondò l’abitacolo della macchina sovrastando il rumore delle ruote e dei freni mal ridotti.
La bionda batté le mani squittendo dalla felicità provocata dal gesto dell’amico, anche lui un po’ brillo, ma sicuramente più lucido della Forbes.
«Ty non ti ci mettere anche tu, non la assecondare» borbottò Matt scoccando attraverso lo specchietto retrovisore un’occhiataccia all’amico che occupava il sedile posteriore il cui volto era illuminato da balzi di luci provenienti dai lampioni che si susseguivano per un buon tratto della carreggiata.
Tyler serrò le labbra rimanendo indeciso per una buona manciata di secondi se rimanere zitto e inghiottire il groppo o sputare l’indignazione anche a costo di mandare a quel paese il suo migliore amico.
Alla fine la parte meno lucida ebbe la meglio.
«Sai che ti dico? Che hai passato un’estate intera peggio di una mamma iperprotettiva, sempre a preoccuparti per gli altri, a rimanere sempre vigile e all’erta» sbottò tutto d’un tratto il ragazzo dai capelli corvini e Matt arricciò lievemente il naso per il tanfo di birra misto ad alcol che proveniva dall’amico il quale gli stava alitando quelle parole a pochi centimetri dal suo orecchio.
«E’ tardi, andiamo a casa. No, stasera non bevo. Non me lo posso permettere. Questa è la nostra ultima estate prima del diploma, manca solo un mese all’inizio dell’ultimo anno e io non intendo affatto sprecarlo!» Tyler prese a scimmiottarlo con il suo tipico modo di fare con il quale Matt aveva imparato a conviverci da quando entrambi avevano il sorriso bucherellato di spazi neri e le ginocchia sbucciate.
Il biondo s’impuntò sul freno e le ruote della macchina stridettero contro l’asfalto umido delle quattro del mattino.
Caroline, che apparentemente sembrava essere stata assorbita dalla musica tanto da non prestare attenzione alla conversazione dei due ragazzi, inclinò leggermente il capo così da mettere maggiormente a fuoco la figura del suo ragazzo e, con gli occhi contornati di mascara, rivolse uno sguardo anche a Tyler il quale non  era ben sicuro di ciò che stesse per fare l’amico.
Matt portò il pollice alla labbra torturandosi con gli incisivi la pelle spessa del dito mentre gli occhi rimbalzavano nervosamente da una parte all’altra della strada quasi come se fossero dei tergicristalli. Caroline alzò curiosamente un sopracciglio non spiegandosi lo strano comportamento del ragazzo.
Gonfiò le guance.
«Ok, volete dirmi che cosa mi sono persa? Matt che succede?» esordì la bionda ritrovando precocemente l’uso della mano e alzandola dal vestito di seta verde che le arrivava un po’ sopra la coscia per posarla sopra i jeans strappati di Matt il quale muoveva nervosamente la gamba.
Quel tocco provocò in Matt un senso di torpore e di sicurezza. Era quel gesto timido e inconsueto che Caroline, ragazza espansiva e dagli abbracci facili, si risparmiava di fare solo in intimità, quando erano da soli, quando bastava quel tocco leggero per dire ci sono io con te.
Matt sospirò, estrasse le chiavi dal cruscotto davanti agli occhi di un Tyler leggermente confuso e gliele lanciò.
«Sai, forse hai ragione. Non puoi sprecare quest’ultima estate prima del diploma e io per quanto ti voglia bene non sono tua madre. Quindi guida tu, io mi voglio godere solo il viaggio di ritorno».
A quelle parole la mandibola del Lockwood si aprì di poco meno quarantacinque gradi e gli occhi lievemente lucidi osservavano la figura zigrinata delle chiavi della macchina con tensione mista a desiderio.
Il moro deglutì di botto il grumo di saliva che gli si era addensato sotto la lingua e puntò lo sguardo sugli occhi azzurri appena accennati di rosso dell’amico il quale stava esibendo un sorriso furbesco seppur rassegnato.
Dopotutto Tyler era un po’ ubriaco, come poteva non ammetterlo, e l’idea di sedersi al volante a guidare non lo allettava di certo, non dopo il ritiro della patente avvenuto solo un mese prima che gli era costato una discussione violenta con il padre e le crisi isteriche della madre.
Tyler guardò l’amico e un moto di euforia gli straripò dagli occhi tramutandosi in un urlo amichevole, di quelli buoni, che scosse l’abitacolo della macchina e i suoi viaggiatori. Matt diede una leggera pacca sulla spalla dell’amico e in un batter di ciglio invertirono i ruoli, facendo passare Tyler di fronte al volante al fianco di Caroline e Matt scaraventandosi sul sedile posteriore ormai rassegnato a quell’idea.
La bionda si sbrogliò dalla morsa della cintura e si protese all’indietro per scoccare un bacio al suo ragazzo mantenendo un sorriso genuino che continuò a persiste anche nei successivi venti minuti di viaggio in auto.
Solo che accadde qualcosa, un tintinnio simile ad un antifurto, simile al gesso raschiato sulla lavagna, un fischio, un sibilo.
«Che ti succede Ty?» chiese Matt scostando lo sguardo dal display illuminato del cellulare. Erano le 4:38.
«N-non lo sentite questo rumore?» chiese il giovane mantenendo saldamente le mani al volante, con il collo imperlato di sudore per quello strano ronzio che, seppur lieve, lo infastidiva.
«Saranno i freni, alza la musica per non sentirlo» concluse spicciola la bionda e  Tyler seguì il suo consiglio alzando notevolmente il volume dello stereo. Ma mentre Tyler combatteva con quel fischio persistente che gli pungeva i nervi uno ad uno, Caroline si rilassò contro lo schienale del sedile, stanca e soddisfatta della serata. Pensava a cosa avrebbe fatto una volta a casa, come si sarebbe tolta le scarpe per raggiungere in punta di piedi la sua camera. Probabilmente sua madre non c’era, ma lei lo avrebbe fatto comunque, adorava quel genere di azioni, l’entrare di soppiatto, come se ci fosse stato qualche genitore arrabbiato che, in giacca da camera, la stesse aspettando con tanto di punizioni e sequestro del cellulare. Ma la sua casa era vuota, e di genitori non se ne vedeva neanche l’ombra.
Il picchiettio dei tasti del cellulare di Matt si fece molto più acuto, segno che probabilmente stava massaggiando con la sorella, ancora sveglia a quell’ora.
Ad un certo punto Care affilò lo sguardo. Non ne era completamente sicura ma ciò che vedeva erano due lucciole. Probabilmente si erano posate sul vetro ed erano rimaste incollate. La bionda sorrise meravigliandosi di quello spettacolo.
«Oh le lucciole» mormorò ma nessuno sembrò badare alle sue parole. Eppure quelle lucciole si facevano sempre più grandi, si ingigantivano fino a diventare delle vere palle al neon. Caroline non aveva mai visto una razza simile di lucciole. Emettevano luce bianca, chiara, e sembravano avvicinarsi sempre di più.
«Ma che…» borbottò qualcosa Tyler che, così come lei, si stava strofinando insistentemente gli occhi annebbiati dai fumi dell’alcol.
«Dove sono le lucciole?» chiese Matt avendo finalmente finito di mandare messaggi e alzando lo sguardo insonnolito.
E di lucciole e lampadine vide solo i fari del camion.

 

Il dito tremante sembrava non avere alcuna intenzione di pigiare il bottone del caffè espresso che lo sceriffo Forbes richiedeva da quel distributore posto nel corridoio dell’ospedale adiacente alla camera della figlia la quale era ancora in bilico tra la vita e la morte.
Elisabeth tirò un sospiro nervoso e si tamponò le meningi e gli occhi stanchi e iniettati di miriadi di capillari, segno di notti insonne e ipertensione alle stelle.
Ci provò di nuovo e questa volta si tenne ben stretto il polso sottile, ma una voce alle sue spalle le fece cambiare traiettoria con il risultato di pigiare un bottone sbagliato e di un odore nauseante di limone e tè liofilizzato.
Lo sceriffo imprecò per quel misero tè – per giunta deteinato – e per il dollaro che aveva sprecato, ma alla fine riprese il controllo e si voltò per esaminare chi e cosa l’avesse disturbata.
Una timida infermiera dai capelli neri raccolti in una coda bassa e una voglia sotto il mento squadrò Lizzie con fare compassionevole notando i contorni violacei sotto gli occhi e il colorito cereo che la confondeva con il colore dei capelli, mal curati e di uno spento giallo paglierino.
Non appena mise a fuoco la figura minuta dell’infermiera di fronte a lei, la Forbes perse un battito e sentì le ginocchia cedere.
«Sceriffo Forbes?» chiese l’infermiera rivolgendosi allo sceriffo, non tanto per verificare l’identità della donna, di quello ne era certa, quanto più per accertarsi delle sue effettive condizioni visti gli occhi sbarrati e l’aria assente.
«Si, sono io» riuscì a mormorare, ma sembrava che il tremore della mano si fosse diffuso in tutto il corpo raggiungendo la sua lingua, intorpidita e anestetizzata dai troppi caffè.
L’infermiera le sorrise con un sorriso che sapeva di madre e Lizzie si sentì semplicemente rincuorata prima ancora di udire le parole della donna.
Per tre giorni aveva aspettato tra i corridoi dell’ospedale, dietro quei muri che odoravano di disinfettanti e di malati. Prima aveva aspettato che Caroline uscisse dalla sala operatoria ed erano state ore di ansia, ore di scuse da parte di Tyler, ore di bestemmie, di litigi, di lacrime, di paura. Poi quando finalmente aveva visto sua figlia passare sulla barella, con i punti ancora freschi sotto il mento e macchie blu al posto del rosa delle guance, aveva aspettato che la sua bambina si svegliasse e attendeva una notizia, un segno che vedeva in ogni dottore, in ogni infermiera che in camice rigorosamente blu le passava accanto. A volte le fermava, a volte rimaneva seduta. Adesso aspettava soltanto che qualcuno le dicesse che cosa ci facesse ancora lì.
Il tocco leggero dell’infermiera sulle dita, che ancora artigliavano il bicchiere di carta con un tè ormai freddo, risvegliò nuovamente lo sceriffo.
«Sua figlia si è svegliata, può andare a vederla» annunciò e teneramente tolse dalle mani il bicchiere riversando il contenuto in una pianta lì vicino.
Lizzie fu come rianimata da quella notizia e le ore di sonno perse, la fame, la stanchezza, lo stress evaporarono come acqua sotto il sole cocente.
Si drizzò sulle ginocchia allontanandosi da quelle sedie bianche e troppo scomode e si lasciò guidare dall’infermiera nella camera d’ospedale dove riposava la sua Caroline.
Notò l’esile figura di sua figlia adagiata sulle lenzuola grigiastre attraverso le veneziane che ricoprivano la porta a vetri della stanza. Per un attimo si pentì di non aver risposto alla chiamata di Bill e cacciò indietro quel pensiero mordicchiandosi il labbro inferiore. Era suo padre dopotutto.
Sospirò lievemente ancora indugiando su quel pensiero, ma non si accorse che la sua mano si era già mossa e si era aggrappata alla maniglia facendo scattare la serratura.
Si sentì il passo troppo pesante, così come quando, ancora giovane e con i capelli lunghi, sbirciava la sua bambina, di pochi mesi e ancora infagottata, da un lato della culla ed aveva il cuore in gola, come se la sua piccola fosse munita di un udito fuori dal normale e sentisse lo strascichio lento delle scarpe. E così Lizzie era entrata, senza fare rumore come se fosse tornata indietro di diciassette anni, come se lì in quel letto ci fosse la sua Caroline appena nata.
Un respiro forse troppo affrettato e la massa di capelli color paglia si mosse e con lei anche i due piccoli occhi giada appena stropicciati dal sonno.
«Mamma?» gracidò lievemente muovendo appena le labbra, senza sorridere perché i punti tiravano ancora.
Lo sceriffo si sciolse nel vedere la sua creatura in quello stato: la fronte pallida ricamata dai punti che si estendevano lungo tutto il sopracciglio destro per poi scendere fino al mento, le labbra striminzite, le guance prive di spessore. Notò poi quelle piccole cose che solo una mamma sarebbe stata in grado di vedere: la spalla destra era leggermente scoperta e se qualcuno non le avesse rimboccato subito le coperte avrebbe preso sicuramente freddo dato il sistema di condizionamento presente nella struttura; dalla posizione rigida della mascella stava sicuramente scomoda con quei tre cuscini sotto la nuca, ma essendo troppo pigra e stanca probabilmente non aveva fatto nulla per sistemarsi meglio; negli occhi aveva ancora la paura di quella notte infernale.
«Ehi Care» rispose Lizzie aprendosi in un sorriso e adagiando la mano su quella della figlia. Caroline si sentì subito a casa.
Sbatté le ciglia intorpidite dalle troppe ore di incoscienza e di brancolamenti nel buio e provò a localizzare tutte le parti del proprio corpo: a parte qualche muscolo indolenzito e la testa in fiamme, stava bene.
Fu la prima volta che Caroline Forbes si reputò davvero essere una ragazza fortunata: fin da bambina era solita mettere il broncio crogiolandosi nella propria condizione di sfortuna, ma una volta cresciuta aveva imparato a tenerlo nascosto, a ingoiare quell’odiato rospo e a far finta di niente, ma lo sapeva, non era mai stata fortunata, non era mai stata la prima.
Caroline strapazzò le labbra in un sorriso che si rivelò essere un vano tentativo data la smorfia di dolore che se ne causò.
«Mi dispiace davvero tanto» mugugnò e Lizzie si sentì pungolare gli angoli degli occhi.
La madre la guardò con occhi colmi di gioia e non trovò il coraggio di rimproverarla, di dirle che non sarebbe dovuta andare a quella festa, ma le parole si erano perse.
«Anche a me» si limitò a dire come se avesse anche lei qualcosa per cui farsi scusare – e in fondo lo sapeva che era vero.

 

 

Naftalina. C’era odore di naftalina in quella camera d’ospedale dove Caroline stava trascorrendo l’ennesima notte. Il letto sembrava essere rovente tanto che la bionda si rigirava convulsamente tra le lenzuola, con gli occhi socchiusi – anzi sbarrati.
Lo vedeva, vedeva continuamente quel camion venire verso di lei, le luci smettere di brillare, i vetri scartavetrarle il viso e le ossa piegarsi quasi come se fossero diventate di gomma. Risentiva l’odore della benzina, l’acre tanfo della miscela misto al sangue che giù dal sopracciglio le impiastricciava la faccia e i capelli.
Da tempo non si era sentita così: sporca, sudicia. E più ripensava a quella sensazione più si sentiva accapponare la pelle e la bile rivoltarsi dall’interno.
La bionda si alzò a sedere e la lotta contro il cuscino troppo alto fece cadere sul pavimento la rivista di gossip che Care aveva dimenticato aperta. La vista di quelle lettere colorate, i volti conosciuti e invidiati delle star televisive le fece pensare a qualche ora prima quando Matt e Tyler erano venuti a salutarla e a tenerle compagnia, insieme a Victoria che si era sforzata quanto meno di essere gentile con lei. Erano state ore di risate, di scherzi, di luce dato il sole che prepotentemente entrava attraverso le finestre di quella stanza.
Ora che Caroline la osservava meglio di notte quella stanza non era poi così accogliente come appariva di giorno: le pareti erano alte e avrebbe potuto giurare che in un angolo si fosse incrostata della muffa.
La bionda si slanciò per raccogliere la rivista, ma il cigolio dell’asta con la flebo la fece desistere. Scoccò un’occhiataccia a quell’arnese e fissò per una quindicina di secondi le finissime gocce del farmaco che attraverso il tubicino di gomma sarebbe arrivato alla sua vena azzurrognola che risaltava tra le altre lungo il suo braccio sinistro.
Sospirò e arresasi dal prendere la rivista per ingannare un po’ il tempo, cercò con lo sguardo l’orologio le cui lancette segnavano l’una e quattro minuti.
Si tirò su la coperta di lino grigio e sprofondò la testa dentro il cuscino mettendo in moto il cervello per trovare idee allettanti da poter mettere in atto in quel frangente, almeno finché l’infermiera del turno delle tre non sarebbe entrata per cambiarle la flebo.
Decise allora di concentrarsi sulla spia rossa ad intermittenza dell’allarme antincendio posto sopra la porta. Eppure più la guardava più le spalle si irrigidivano, le pupille si dilatavano: le tornava alla mente la luce del camion, travisata a causa dei fumi dell’alcol. Scosse la testa cacciando via quel pensiero e allo stesso tempo biasimando se stessa – che idiota che era stata per l’aver confuso il faro di una macchina, per giunta di un camion, con delle lucciole.
Ma c’era qualcos’altro che le ricordava quella spia rossa e oltre a lei se n’erano accorte le sue spalle e soprattutto il suo collo. Le mani cominciarono a formicolare e Caroline pensò bene di mettersele in bocca e morderle pur di non grattarsi quella zona vicino alla giugulare. Il mostro non sarebbe venuto, no? Di mostri che poi neanche esistono.
E intanto Caroline inspirava ed espirava, non si ricordava più l’ultima volta che aveva avuto una crisi del genere, si ricordava però che ancora doveva prendere lo sgabello per rifugiarsi nel ripiano alto dell’armadio, nascosta, in silenzio, al sicuro dal suo carnefice.

Uno, due, tre, quattro. Anche chiudendo gli occhi quella luce continuava a lampeggiare, sempre più forte, penetrandole nelle cornee. Centosessantatre, centosessantaquattro, centosessantacinque. Solo a centosessantacinque le rughe di troppo che solcavano la fronte di Caroline scomparvero così come la sua paura.
Riempì i polmoni d’aria arricciando il naso per l’odore persistente di naftalina che le stava facendo venire il capogiro. Si rimise nuovamente seduta, arrotolando le coperte fin sotto le ginocchia.
Qualcosa catturò il suo sguardo alla sua sinistra.
Lanciò un’occhiata in tralice all’ombra dell’asta con la flebo e le sembrò tutto normale. Aguzzò meglio la vista e quando si rese conto di cosa fosse anomalo in quella situazione si cacciò una mano sulla bocca per soffocare il grido di disgusto che la stava pervadendo.
La sacca conteneva un liquido, liquido scarlatto che continuava il suo lento fluire attraverso tutto il tubicino che conduceva direttamente al suo polso.
Era sangue.
Quando e come fosse stato inserito all’interno della sua flebo poco importava, ciò che più allarmava Care era la vicinanza di quel siero.
Un brivido sconvolse la bionda e con le mani sudaticcie provò a staccare il cerotto dal sottile strato di pelle, grattò con le unghie la colla che saldava per bene l’ago alla garza.
Un rumore. Caroline smise di respirare.
«Chi c’è?» balbettò ma ciò che ottenne fu il rimbalzare della sua voce tra le pareti.
Il suo cuore batteva ad un ritmo irregolare, un ritmo ben conosciuto.
Le pupille schizzarono veloci all’orologio.
Erano le 01:27*, troppo presto per la visita notturna dell’infermiera.
Un’ombra e Caroline soffocò le urla addentando il cuscino.
Fino a che il suo cuore non si zittì.

 

Di tutti i luoghi pubblici presenti in un qualsiasi luogo abitato – che esso fosse una piccola cittadina o una grande metropoli – di sicuro gli ospedali erano i preferiti di Damon. Persone che nascevano, persone che morivano. Il ciclo della vita era tutto concentrato in quelle stanze. E poi c’erano i sopravvissuti, coloro che erano stati a un passo dalla morte ma grazie ai miracoli della medicina avevano continuato a percorrere la strada della vita.
Patetico. Damon non riusciva a trovare un aggettivo migliore per la loro condizione di precaria esistenza.
Ma il motivo – se mai ce ne fosse stato uno – per cui il Salvatore si trovasse lì nel parcheggio di quell’ospedale a distanza di sicurezza dal lampione della luce a neon non è che fosse così chiaro anche per un vampiro come lui.
Non aveva ancora intenzione di rivelare la sua presenza lì a Mystic Falls ben che meno a suo fratello il quale continuava a crogiolarsi nel suo dolore nella loro vecchia casa, creduta disabitata dalla maggior parte degli abitanti del quartiere.
«Oh beh tanto vale aspettare qualche infermiera» mugugnò il Salvatore fra sé e sé infilandosi le mani nelle tasche anteriori dei jeans logori e appoggiando la nuca sul tabellone pubblicitario dietro le sue spalle.
Dopotutto aveva un certo languorino.
Cacciò veloce lo sguardo in direzione del cielo stellato e per un attimo si beò di quel cielo scuro e denso come l’inchiostro, che non regalava la ben che minima luce se non una falce sottilissima di bagliore lunare.
«No»
Un lamento. Anzi più che un lamento a Damon parve un rantolo di non sapeva quale specie di animale.
Il vampiro corrugò la fronte in direzione dell’oscurità ancora più tetra alla sua destra a una decina di metri dal lampione a cui era distante solo di qualche centimetro.
Ora che ci pensava per bene, vi era un non so che di spettrale quella sera.
Damon fece schioccare violentemente la lingua e si sarebbe dato volentieri un pugno in faccia per quelle insolite paure che nient’affatto lo caratterizzavano.
«Respira, Caroline. Non sta succedendo per davvero».
Una voce strozzata da due o tre singulti prima di sprofondare in quella sorda litania che Damon si accorse lo stava accompagnando già da una buona mezz’ora.
Il Salvatore si morse la lingua, ma dopo averci riflettuto un po’ su roteò gli occhi e girò i tacchi deciso a farsi avvolgere dalle tenebre puntando a quello che senza alcun dubbio doveva essere un essere ferito.
Per quella notte le infermiere potevano stare tranquille. Aveva trovato la sua cena.
«Ti consiglio di vedere qualche psicanalista, amico. Sai, non è che sia così normale parlare da solo» sbottò Damon con una linea marcata di sarcasmo sottolineando l’ultima parola, tentando di conferire un non so che di macabro.
La sua vittima trasse un sospiro di paura appoggiandosi al cassonetto della spazzatura accanto a lei ma dopo aver messo di respirare per ben dieci secondi l’aria tornò a riempirle i polmoni.
«Non sono sola. Sto aspettando una persona» disse la sagoma nera allacciando velocemente le braccia al petto, avendo intuito le intenzioni di quello sconosciuto.
«E comunque non mi serve uno psicanalista» continuò con una punta di irritazione.
A detta di Damon quella voce acuta e sottile poteva appartenere solo a una donna, ad una ragazza per la precisione dato anche il corpo snello e slanciato che si poteva intravedere dalla luce soffusa del lampione alle sue spalle.
Il Salvatore inarcò un folto sopracciglio nero e per poco non si aprì in un sorriso data l’insolenza – e stupidità - di quella ragazza.
«E perché non aspetti quella persona sotto la luce?» chiese avanzando di un passo ma non notò alcuna reazione di paura da parte della ragazza e questo lo incuriosì molto. Sembrava piuttosto infastidita.
«Perché quella dannata luce è decisamente troppo forte che per poco non accecava i miei occhi. Ma dico, con che diamine di neon li fanno queste insegne? Sono così luminose che mi danno un fastidio assurdo» sbottò più che irritata e calciò il bidone alla sua sinistra il cui contenuto maleodorante si riversò sull’asfalto del parcheggio dell’ospedale.
In quel preciso istante Damon si pentì di essere venuto in quel luogo.
Stava per ribattere e affilare i canini così da chiudere quella bocca pronta solo a sputare malcontenti, ma ancora una volta la lingua veloce della ragazza lo precedette.
«E poi ho una gran sete. Ho la gola letteralmente in fiamme» pronunciò con voce roca trattenendosi la trachea con le dita affusolate.
A Damon quella situazione non piaceva, non piaceva per niente specialmente perché se i suoi calcoli fossero stati giusti – e di rado si sbagliava – in città c’era un nuovo vampiro in circolazione.
Il vampiro si preparò al momento cruciale della rivelazione.
«E’ naturale, principessa. Il tuo corpo ha smesso di funzionare, il tuo cuore di battere per un po’ e abracadabra hai bisogno di sangue per sopravvivere. Se la vie».
Caroline strabuzzò gli occhi ponderando le strane parole che quel perfetto sconosciuto le aveva appena rivelato.
Katherine, la ragazza che aiutava la madre all’ospedale, l’aveva trovata ancora in stato confusionale e profondamente scossa. Le aveva detto di vestirsi, di prendere la propria roba e di aspettarla sul retro. Non sapeva il perché le avesse dato ascolto, sapeva solo che lei era a conoscenza di cosa le era realmente successo e aveva dato tutta l’impressione di sapere anche come curarla.
Aveva semplicemente detto che aveva bisogno di sangue, le stesse parole che quell’uomo ora le stava dicendo. Forse che avevano scoperto qualche strano farmaco a base di sangue? Il solo pensiero le arroventava la gola e le faceva accapponare la pelle.
«In che senso il mio cuore ha smesso di battere?»
Adesso Damon aveva voglia di lanciare un bel gancio sinistro a quel musetto sprovvisto di alcuna materia grigia.
«C-come? Ricordo di aver visto del sangue nella flebo, un rumore e poi qualcuno mi ha messo un cuscino in faccia e-» blaterò la ragazza non riuscendo a leggere l’ovvietà delle sue stesse parole.
Una macchina svoltò l’angolo e i fari inchiodarono i due sul posto, illuminandoli a giorno.
Un ragazzo li squadrò con aria sbigottita ma entrambi non se ne curarono.
Il Salvatore scoccò un’occhiata obliqua alla ragazza: era poco più giovane di lui, con una cascata di capelli biondi, ma non riuscì a scorgere il viso.
«Sono morta?» chiese nervosamente portandosi una mano davanti agli occhi. Stava soffrendo e anche parecchio.
Damon scrollò le spalle come per volersi scrollare quel problema di dosso.
«Decisamente» concluse franco lasciando la neo-vampira al suo triste destino.
Se mai ne avesse avuto uno.

 

* Riferimento al capitolo 3.Ospite [sei mesi prima] riguardo all’ora del decesso di Caroline.

 

***

 

Salve miei cari lettori,
come avevo promesso ho fatto presto presto ad aggiornare! Ormai stiamo giungendo al termine e un po’ mi dispiace dovermi intrufolare in queste situazioni un po’ brutte, ma la resa dei conti è più che vicina. Dunque come vi avevo anticipato già la volta scorso questo capitolo è un altro dei tanti flashback solo che a differenza degli altri contrassegnati con il
[sei mesi prima] questa tratta esclusivamente la notte dell’incidente e la notte della morte di Caroline. Ammetto che i parallelismi con il telefilm era doveroso farli quindi ho inquadrato i tre adolescenti come di ritorno da una festa e come sempre il più responsabile è Matt. Forse ho un po’ estremizzato i vari personaggi ma rendetevi conto che ho cercato di descriverli come dei ragazzi normalissimi pronti a fare stupidaggini e anche un po’ brilli. Mi sono calata nei personaggi e ho cercato di vedere il mondo da “ubriaca” ecco il perché delle lucciole viste da Caroline e del fatto che invece erano i fari di un camion. Anche Tyler che sente quel rumore, non ha nulla a che vedere con la licantropia o cose del genere, è tutto frutto di allucinazioni uditive a causa dell’alcol. Andando avanti, ci tenevo a ritagliarmi uno spazietto per Lizzie Forbes e per il suo lato materno. Quando Care ha avuto l’incidente nel telefilm ce l’hanno fatta vedere pochissimo così mi sono cimentata anche in lei e a sentire un po’ come una mamma in trepidazione per sua figlia. La notte in cui è morta Caroline è stata anche la notte in cui la paura del sangue ha cominciato a riaffacciarsi e questo l’ha turbata moltissimo. Anche qui è morta per soffocamento ma il sangue di vampiro le è stato direttamente iniettato nelle vene attraverso la flebo. Chi sarà stato? La risposta sembra più che logica anche se chissà…potrebbe essere Katherine così come potrebbe essere qualche altro vampiro, lascio il beneficio del dubbio a voi. E alla fine chi poteva esserci se non quel muso duro del Salvatore dagli occhi blu. Come si suol dire, si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato e il fatto che era particolarmente buio ha impedito al vampiro di vedere chi fosse la sua cena alias interlocutrice. La macchina che ha illuminato i due come potete immaginare è quella di Tyler, ecco perché afferma di aver visto Caroline con Damon. Ma Damon effettivamente non ricorda chi fosse o se l’è tenuto per sé? E vi lascio un po’ in sospeso così.
Il prossimo capitolo è quasi pronto quindi penso che la prossima settimana mi vedrete di nuovo qui. Sarà un capitolo molto amaro, con le urla di Caroline a tutto spiano ma anche momenti divertenti per i fratelli Salvatore. Si intitolerà Escamotage: secondo voi che cosa si inventeranno per salvare la bionda?
Grazie mille per le bellissime recensioni che mi lasciate, dico davvero.
Un bacio,
Sil.

   
 
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