Capii subito che c’era
qualcosa che non andava: per quanto fossi convinta di non provare più
nulla per
Yamcha, in tutti quegli anni non mi aveva mai nemmeno sfiorata l’idea
di un
altro uomo nella mia vita. Ero più propensa a ritrovare la mia perduta
ed
agognata libertà. Sospesi tutti i miei pensieri e cercai, per quanto
fosse possibile,
di godermi il resto della giornata e di non sembrare agli altri troppo
sovrappensiero.
Non avrei gradito domande invadenti, non era il momento. Non era mai il
momento.
Ma come avevo fatto a ridurmi
così? Mi sentivo sotto una maledizione. Come se un giorno avessi visto
una
maschera, ne fossi stata incuriosita e l’avessi provata. Come se da
quel giorno
mi fosse stato impossibile toglierla, come se avesse incominciato a
diventare
più pesante sul mio volto, di giorno in giorno. Non ce la facevo più,
era un
peso troppo grande, un peso che mi piegava la testa fin sotto il
terreno. Qual
era la chiave per spezzare la maledizione?
Quando tornammo a casa io,
mia madre e Susan ci accomodammo sulle poltroncine nel giardino
chiacchierando
davanti ad un the e godendoci un variopinto e suggestivo crepuscolo.
La padrona di casa non aveva
smesso nemmeno un attimo di parlare di James, il suo adorato
primogenito: ne
vantava l’aspetto, la prestanza fisica, le doti intellettive, i pregi
caratteriali. Non l’avevo conosciuto molto bene, ci scambiai giusto
qualche
parola di circostanza in quanto prediligeva la compagnia degli uomini
di casa. Trascorsa
una buona mezz’ora, ad ogni modo, l’argomento di conversazione non era
ancora
cambiato ed io cominciavo davvero ad irritarmi. Non era tanto perché
non mi
interessassero le qualità di James tessute come odi ad un Dio, quanto
il fatto
che le evidenti parzialità che si facevano tra i due figli fossero
spiattellate
con sgradevole naturalezza e nonchalance anche davanti agli estranei.
-Signora Smith, e di Vegeta
cosa sa dirci? – Intervenni provocatoriamente.
La sua espressione cambiò,
diventando meno definita.
-Ah … - Temporeggiò. –
Vegeta, Vegeta è un caro ragazzo. È solo molto diverso da James.
L’abbiamo
adottato quando aveva già dieci anni, due in meno di suo fratello. Per
tanto
tempo, difatti, io e mio marito abbiamo tentato di avere un secondo
figlio nostro, ma purtroppo non è
mai arrivato.
Abbiamo usufruito dei più moderni mezzi di fecondazione artificiale,
speso
parecchie migliaia di sterline, ma questa grazia non c’è mai stata
data. Perciò
decidemmo, come ultima ipotesi, di ricorrere all’adozione: ci dissero
subito
che non ci spettava un bambino europeo, ma non era un dettaglio
importante per
noi. –Sorseggiò il suo the puntando gli occhi nel vuoto per un momento.
– Quando
arrivò fra noi eravamo tutti al settimo cielo. Lui, però, non sembrava
condividere il nostro stesso entusiasmo. Da subito si presentò cupo,
solitario,
sempre in disparte. E Dio solo sa se non abbiamo provato in tutti i
modi a
coinvolgerlo e a farlo sentire a suo agio! Sembra quasi che con noi non
si sia
mai sentito a casa sua. Forse sarebbe stato meglio se l’avessero
affidato ad
un’altra famiglia. – Concluse. Quelle ultime parole mi lasciarono
addosso una
sensazione amara.
-E Samuel che ne pensa?- Domandò
mia madre, presa dall’ argomento. Era sempre stata una gran pettegola.
La
donnina sospirò.
-Sam non ha mai accettato il
fatto che non fosse come James. Gli ha sempre rivolto poche attenzioni,
non ha
voluto più insistere con lui dopo i primi tentativi di avvicinamento.
Vegeta,
così, si è chiuso ancora di più in se stesso. Ha abbandonato la scuola
appena
ha potuto e Sam non si è mai preoccupato del fatto che si guadagnasse
un futuro.
Ogni tanto gli chiede di potare le siepi e lui lo fa senza replicare,
ma per il
resto non interagiscono molto.- Spiegò.
-Non vi chiedete perché non stia
mai insieme a noi o che cosa faccia tutto il giorno via di casa?-
Domandai allora.
-Oh, no. Abbiamo smesso di
preoccuparcene anni fa. – Asserì come se fosse la cosa più naturale del
mondo.-Ma
io credo che non ami molto vivere qui. Forse un giorno, se riuscirà a
mettere
da parte un bel gruzzolo, andrà via.-
Sospirai. Non ne potevo più
di ascoltare quelle storie, le sentivo congetturate, elaborate e
ritrite
giustificazioni di una loro mancanza, come un modo per liberarsi la
coscienza e
scaricare su di lui ogni errore.
-Vegeta è un ragazzo molto
intelligente.- Intervenni. –I genitori dovrebbero comprendere un
figlio, non
abbandonarlo per concentrarsi su suo fratello solo perché
è più facile così. Che sia biologico o meno, questo non
cambia nulla. Con tutto il rispetto, signora Smith, ma io ho avuto
l’occasione
di parlargli, negli ultimi giorni, e le posso assicurare che è una
persona a
dir poco sorprendente, anche se molto sola e spesso incompresa. La sua
“diversità” non è necessariamente qualcosa di negativo, anzi.-
Le due donne mi guardarono
basite, senza proferire parola. Indubbiamente non si aspettavano che io
prendessi così animatamente le sue difese.
-E tu quando ci avresti
parlato, esattamente?- Udii la voce di Yamcha dietro di me, un
po’aspra.
Sobbalzai e mi salì il cuore
in gola. Provai un sentimento di vergognosa colpevolezza. Ma era una
colpevolezza dovuta ad ombre di pensieri che soltanto io conoscevo, per
cui tentai
di non agitarmi e di non dare nell’occhio.
-Ieri l’ho incontrato mentre
andavo al supermercato, mi ha tenuto compagnia ed abbiamo chiacchierato
per un
po’.- Spiegai con tutta la disinvoltura che potei mostrare.
Mi alzai d’istinto e lui mi
prese la mano, tirandomi a sé. Ridacchiò sottovoce mormorando che per
un attimo
s’era “addirittura” ingelosito.
Povero
idiota, non aveva capito un bel niente.
La madre, più degli altri in
quel momento, mi guardava sconcertata, un po’ per il tono che avevo
usato, un
po’ perché forse nessuno aveva mai detto qualcosa di carino su suo
figlio. La
conversazione, comunque, fu volutamente interrotta lì.
Arrivata in camera, quindi,
tolsi gli orecchini e li poggiai sul comodino accanto al mio letto, mi
spogliai
in fretta ed indossai la mia vestaglia da notte, stiracchiandomi e
godendomi il
fugace relax di uno sbadiglio. Stropicciandomi gli occhi, soddisfatta
di quei gesti
un po’ infantili che conciliavano il sonno, mi voltai per chiudere la
persiana,
prima di gettarmi a peso morto sul materasso.
Ma con mia grande sorpresa
davanti alla mia finestra, nel giardino, c’era Vegeta a fissarmi.
Trasalii.
-Si può sapere da quanto
tempo mi stai spiando?- Lo rimproverai imbarazzata.
-Abbastanza da godermi lo
spettacolo.- Rise, poggiandosi al davanzale con un fare sicuro e
borioso. Non
capivo se dicesse sul serio o mi stesse prendendo in giro.
-Sei solo un villano
screanzato!- Arrossii. Lui sghignazzò ancora.
-Per fortuna non hai parlato
di me in questi termini davanti a mia madre.- Ribatté secco, senza
mezzi
termini, facendomi intendere che, non sapevo come, aveva ascoltato la
nostra
conversazione. Io mi impacciai ancora di più.
-Mi sembrava il minimo.- Risposi.
–Non mi andava giù che tu venissi messo da parte in quel modo, che si
parlasse
di te come un cane da accudire forzatamente.- Tentai di esser seria.
Silenzio da parte di
entrambi. Poi, in un attimo, senza nemmeno darmi il tempo di
accorgermene, me
lo ritrovai in camera. Con la sua invidiabile agilità aveva scavalcato
in pochi
secondi.
-Che stai facendo?! Esci
subito da qui!- Gli intimai. Sentivo i capillari del viso esplodermi in
un improvviso
calore e sperai che non si notasse.
Mi fece cenno di abbassare la
voce. Io, non so nemmeno per quale motivo, obbedii. Attendemmo qualche
secondo muti
e con le orecchie tese per controllare se i decibel delle mie lamentele
avessero destato la preoccupazione di qualcuno, ma notammo che l’intera
casa
era, ormai, assopita.
-Non dirò niente a nessuno
del fatto che sei qui, promesso, ma devi andartene.- Insistetti.
Ignorò completamente le mie
incitazioni e mi afferrò un braccio, avvicinandomi leggermente di più a
sé. Mi
fissò con quegli occhi liquidi, così profondi che avevano la capacità
di farmi
pensare a tutto e a niente, di farmi tremare le ginocchia, di farmi
dimenticare
di respirare.
-Pensi realmente quelle cose,
quelle che hai detto a mia madre?- Mi chiese soltanto. Ma la sua voce
diceva
molto di più. Sembrava diversa da quella che avevo udito le altre
volte,
sembrava una voce che riuscivo a percepire soltanto io.
-Perché mai avrei dovuto
mentire?- Ebbi la forza di rispondere.
Poi lasciò la presa.
-Perché ora lo stai facendo,
quando dici che non mi vuoi qui e che devo andarmene.- Provocò,
abbozzando un
sorriso.
-Non mento. Io non mento
mai.-
-Che bugiarda.- Ridacchiò ed
io non potei fare altro che accompagnarlo, per non sembrare più
ridicola.
Forse lo stavo
sognando,
magari ero già addormentata nel mio letto ed il mio inconscio si stava
prendendo gioco di me. Se così fosse stato davvero, non avrei voluto
affatto svegliarmi.
Perché
negartelo, Chichi? Non
mi nasconderò da te. Sei sempre stata sveglia ed intuitiva, quindi
immagino che
avrai già capito da un po’come stavano veramente le cose. Ero presa da
un
sentimento che mi coinvolgeva fino all’ultimo centimetro e che mi
riscaldava il
sangue nelle vene. Ci misi un po’ad ammetterlo a me stessa, è vero, ma
il mio
corpo reagiva fregandosene del mio raziocinio. Credo che, una volta
arrivati a
quel punto, non si possa negare. Non c’è una via di fuga. Non si può
dire “sono
un po’ innamorata”. Però si può distinguere l’amore dall’infatuazione.
E lì
trovi il cavillo per salvarti, avvocato del diavolo. “E’ solo una
cotta.” Pensai.
Il problema, quello vero, è che mentre mi
spremevo le meningi per dare una definizione a ciò che sentivo per
Vegeta, ero
ancora fidanzata con Yamcha.