Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: xhisdimples    19/07/2013    2 recensioni
“Quindi, puoi andare, se vuoi. Se lasciarci significa andare verso una vita migliore, fallo. Noi staremo bene Louis, te lo prometto.”
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

I LOVE YOU TOO BABY.

 

 

Esiste, al mondo, profumo più buono di quello della pelle di un bambino? Non credo.
I bambini, soprattutto se piccoli, profumano di buono, di casa, di giusto: uno strano miscuglio tra pulito, crema per irritazioni cutanee, latte e pane appena sfornato. Forse sono l’unica persona al mondo che sente questo odore, forse sono l’unica persona al mondo che ci farebbe un profumo per signore, forse sono l’unica persona al mondo che trova che la pelle di un bambino profumi di pane, ma lo adoro. Probabilmente perché porta ricordi felici, totalmente opposti a quelli che mi portano gli ospedali. Questi ultimi hanno un odore forte, aspro, asettico e per niente sano: tutto in un ospedale è grigio e triste, con un colore delle pareti assolutamente fastidioso, per non parlare poi dell’aria impregnata di disinfettante che fa prudere il naso e bruciare la gola.
Forse è per questo che mentre sono qui, seduto su una scomodissima sedia in plastica verde, di quelle che distruggono la schiena e le gambe ma tu sei troppo devastato dal tuo dolore per accorgetene, immergo il naso nell’incavo del collo della mia bambina: voglio che il suo dolce profumo sovrasti l’odore di cibo scadente e tristezza.
Come se poi servisse veramente a qualcosa: tutto, qui dentro, mi ricorda il motivo per il quale continuo a farmi massacrare le ossa da più di sei mesi. Non è certo l’odore ad infastidirmi o a farmi piangere tutte le dannate sere. Non è certo l’odore a farmi tirare pugni disperati al muro, come se fosse l’unico modo per scaricare la rabbia e il dolore. Non è certo l’odore ad aprirmi una voragine nel petto che temo non si rimarginerà mai più.
Emma, mia figlia, si stiracchia leggermente, solleticandomi il volto con la sua chioma di ricciolini rossi.
Ricordo perfettamente il primo instante in cui la vidi, immersa in una copertina di lana rosa, mentre si agitava all’interno della culla per neonati. Quando Louis aveva portato a casa la sua foto, non avevo realizzato quanto fosse bella.
Io non ho mai voluto figli: non che non mi piacciano i bambini, anzi, li trovo assolutamente adorabili, ma non sono mai stato dotato di alcun senso paterno. Louis, lui sì che ne aveva da vendere: forse badare alle sue 4 sorelline aveva aiutato, o forse era solamente naturalmente dotato. In ogni caso, quando era tornato a casa, una freddissima sera d’inverno, con una strana luce negli occhi, avevo capito che qualcosa sarebbe cambiato nelle nostre vite. Siamo stati svegli tutta la notte a discutere della possibilità di adottare quella bambina, non una qualunque, ma proprio la piccola Emma. La sua mamma l’aveva abbandonata appena dopo il parto e lei era stata affidata alle cure dell’infermiere Louis finché non le avessero trovato una famiglia.
“Dovresti vederla Harry!” Aveva esclamato quella sera, talmente eccitato da non accorgersi di stare agitando la tazza o delle goccioline di the che bagnavano il costoso tavolo in mogano gentilmente regalatoci da sua madre. “Sembra nata esattamente per diventare nostra figlia!”
In effetti, non aveva tutti i torti: la piccola aveva una cascata di boccoli, allora castani, che ricordavano molto i miei. Ciò che mi aveva fatto decidere era stata, però, la vista dei suoi occhi: quando ero andato all’ospedale con Lou per conoscerla, Emma aveva sollevato le palpebre rivelandomi due occhioni azzurro cielo. “Guardala amore, non è perfetta?” “Assolutamente.” Avevo replicato e mio marito, felice come non mai, mi era saltato al collo riempiendomi di baci. “Diventeremo papà, Harold!” Sapeva benissimo quanto odiavo che mi chiamasse col mio nome intero, ma in quel momento ero troppo occupato ad assaporare l’importanza di quel momento per dire qualcosa.
 
“Papà?” Una vocina dolce e leggera che riconoscerei tra mille, mi solletica l’orecchio. “Dormi?” Sorrido prima di aprire gli occhi e ritrovarmi il suo piccolo e rassicurante sorriso: sono sei mesi che non dormo veramente, ma non importa. “No amore, dimmi.” “Papà si è svegliato?” A quella domanda mi sento morire, vorrei tanto che la terra si aprisse e mi ingoiasse, così da non dover rispondere a questa domanda. “Non ancora piccola, papà era molto stanco.” Lei annuisce e mi accarezza la guancia con una manina paffutella, come a volermi dire che lei è lì per me.
Vorrei dirle la verità. Vorrei dirle che c’è la possibilità che “papà” non si vegli più, che “papà” era davvero stanco, così stanco della vita da doversi rifugiare nella droga per cercare un riposo o senso di appagamento che l’hanno costretto ad un coma. Vorrei dirle che probabilmente non vedremo più gli occhi azzurri di “papà”, così simili ai suoi, nei quali affogavo ogni singola volta.
Ma come? Con quale coraggio potrei dire ad una bambina che il suo “papà” non era felice della vita con lei, con me? Perché poi, alla fine, questo era il nocciolo della questione: Louis non era più felice da tempo, e io non avevo mai capito quanto grave fosse la faccenda. C’erano voluti un’overdose ed un salvataggio avvenuto appena in tempo, per farmi aprire gli occhi.
Che persona orribile: troppo accecato dalla fama di avvocato di successo, non mi ero accorto che la mia dolce metà stava andando a pezzi. Avevo anche iniziato a pensare che mi tradisse, ad un certo punto, quando tornava a casa ad orari impossibili “dall’ospedale” o quando non riusciva nemmeno a guardarmi negli occhi. Avrei dovuto capire, invece, che andava a drogarsi e si vergognava troppo per correre il rischio di farmelo leggere nel suo sguardo.
Ma questo, ormai, era il passato: ora il mio amore dagli occhi blu se ne stava sdraiato in letto d’ospedale, lo scheletro dell’ultimo sorriso ancora impresso sul volto, e una fastidiosa macchina a scandire il tempo a ritmo dei battiti del suo cuore affaticato. Quel metallico “bip” era l’unico segnale che Louis fosse ancora tra noi, era l’unico suono che avevo realmente paura di non sentire più, era la mia unica fonte di speranza. Lo avvertivo anche quando cadevo tra le braccia di Morfeo, per poi risvegliarmi dopo qualche minuto solo per accertarmi che il suono fosse ancora lì.
“Harry?” Stephanie, la capo sala del reparto terapia intensiva dell’Ospedale di Doncaster, fa il suo ingresso nella stanza trascinando i piedi. Tutta l’energia che traspariva da quella donna sembra essersene andata: lo sguardo spento, gli occhi gonfi e le spalle incurvate in avanti, dopo tutto Louis era suo amico e vederlo così, inerme, distruggeva anche lei.
“Ciao Stephanie!” Emma, da brava bambina educata, saluta l’infermiera mostrandole una schiera di dentini bianchi perfetti. La donna, per tutta risposta, la rimprovera giocosamente: non sono ammessi bambini in questo reparto dell’ospedale, ma nessuno ha potuto resistere alla dolcezza di mia figlia che pregava di vedere il suo papà.
Ridacchio sotto i baffi prima di alzare, finalmente, gli occhi verso Steph. Quando incontro i suoi, color nocciola, vorrei tanto non averlo fatto ed essere rimasto a fissare le piastrelle grigie: conosco quello sguardo, fin troppo bene. Ricordo tutte le volte in cui l’ho visto sulla faccia di Louis: tutte le volte che doveva comunicare la morte di un bambino, i suoi occhi, il suo mezzo sorriso, la voce strozzata, tutto, in lui, urlava “compassione”.
Ma la mia amica non poteva essere qui per dirmi proprio questo, giusto?
Non poteva essere venuta a dirmi che i miei incubi peggiori si erano trasformati in realtà.
Non poteva essere venuta a dirmi che l’ultimo ricordo di mio marito sarebbe stato questo: una statua di cera con mille tubicini colorati attaccati alle braccia.
No, mi rifiuto di crederci.
“Harry, potresti seguirmi un attimo fuori?” Annuisco, disperato, chiedendo ad Emma di aspettarmi qui, di sorvegliare papà e, nel caso si svegliasse in mia assenza, di dirgli che lo amo. Lei sorride, felice di avere finalmente un impiego tanto importante, e si siede a gambe incrociate esattamente dove stavo io qualche secondo fa, il mento appoggiato sulle mani e lo sguardo vigile.
“Non può essere vero Stephanie, dobbiamo solo dargli tempo.” L’infermiera sospira, stanca, prima di puntare gli occhi scuri nei miei. “Sono passati mesi Harry, quanto tempo vuoi dargli ancora?”
La potenza delle sue parole mi colpisce in pieno e la mia testa inizia ad urlare. “Io non..” “Harry.” Tiro un pugno al muro, l’ennesimo di una lunga serie, graffiandomi le nocche già ricoperte di crosticine rosse. “Harry.” Ripete la donna, un altro pugno. “Harry!”
“Harry, Harry, Harry. Harry cosa?! Lo so come cazzo mi chiamo, okay?” Mi volto ed inizio a correre verso l’uscita, verso l’aria fresca e pulita. “Di a Emma che papà torna subito!” Non so se Stephanie mi ha risposto e, sinceramente, non voglio neanche saperlo: l’unica cosa che voglio, adesso, è mettere più distanza possibile tra me e quella stanza. So che è un comportamento da vigliacco: a 30 anni ho lasciato la mia bambina di 3 sola con il suo papà in coma, ma non ce la faccio davvero più.
Così mi ritrovo a correre, un piede dopo l’altro, i polmoni che scoppiano a causa del poco, anzi inesistente, esercizio. Un passo alla volta, veloce, contorni sfuocati, battito cardiaco accelerato, fiato mozzato, ginocchia che cedono, poi, finalmente, il cielo. Sono talmente affaticato che quasi non mi accorgo delle lacrime che mi rigano le guance, che i respiri corti non sono dettati dalla corsa ma sono, piuttosto, singhiozzi disperati.
Perché mi hai fatto questo Louis? Perché hai deciso di abbandonarmi? Di abbandonare Emma? Ripetevi sempre che lei era la luce dei tuoi occhi, la tua felicità, il tuo orgoglio più grande: perché hai gettato la spugna?
Mi porto le mani tra i capelli e tiro, forte, causandomi volontariamente un dolore che, a confronto con quello che provo all’altezza del cuore, è quasi sopportabile. Non posso farcela da solo, non posso crescere una figlia che mi ricorderà, giorno dopo giorno, cosa mi sono perso, non posso.
Quando sento delle gocce bagnarmi la base del collo, realizzo che ha iniziato a piovere. Una persona intelligente cercherebbe riparo sotto la tettoia dell’ospedale, io, invece, voglio che la pioggia mi abbatta. Apro le braccia, il naso all’insù e la testa leggermente piegata all’indietro: quasi mi sembra di riuscire ad avvertire il peso del cielo, delle nuvole cariche d’acqua e della mia rabbia repressa.
In momenti come questi mi chiedo se Dio abbia un momento per me: non vado mai in chiesa, non dico le “preghierine” prima di andare a letto, sono gay e ho anche adottato una figlia, insieme a mio marito gay. Se Lui è davvero tanto buono e misericordioso, però, perché non dovrebbe aiutarmi? Dopo tutto non desidero altro che la felicità di quella bambina e che mio marito, l’unico uomo che io abbia mai davvero amato, si risvegli dal coma: chiedo troppo? E’ così che mi ritrovo a sussurrare parole al vento, convinto che Qualcuno Lassù mi stia ascoltando e che, forse, esaudirà la mia preghiera.
 
Non so cosa mi abbia riportato all’interno di questo edificio e, soprattutto, non so dare un nome alla sensazione di calore che sembra avermi invaso: mi sento leggero, come se stessi camminando a 10 centimetri da terra. Forse quella chiacchierata col Signore è servita, ora sono pronto.
Salgo le scale due gradini alla volta: una parte di me vuole tornare in quella stanza con tutta la forza di cui è dotata, l’altra parte, invece, urla di rallentare, ha capito verso cosa sto correndo. Quando arrivo davanti alla porta bianca che ormai conosco in ogni minimo dettaglio di rifinitura, la guerra all’interno del mio cervello è ancora in atto, più violenta che mai. Vorrei voltarmi e scappare, ignorare la situazione e lasciare a qualcun altro la possibilità di decidere per me: sono sempre stato bravissimo in questo, ma oggi è diverso. Oggi non posso semplicemente rifugiarmi dietro la maschera del codardo, oggi la mia famiglia ha bisogno di me.
Varco la soglia della stanza in punta di piedi, attento a non fare il benché minimo rumore: Louis è esattamente dove e come l’avevo lasciato, più di mezz’ora fa, se non fosse per la piccola macchia colorata stesa accanto a lui. Emma, nel suo vestitino a fiori, stringe la mano del suo papà come faceva da piccola, quando aveva paura che qualche mostro sarebbe spuntato da sotto il letto per mangiarle i piedi. Quell’immagine mi stringe il cuore, e io non posso fare altro che sorridere.
Sempre il più silenziosamente possibile, avvicino la sedia in plastica al bordo del letto: se non fosse per le flebo attaccate al corpo di Lou, la scena potrebbe sembrare del tutto naturale e assolutamente dolcissima, peccato che non sia così.
Sospiro profondamente, cercando di scegliere le parole giuste. Quando Louis è entrato in coma, il dottore mi aveva raccomandato di parlargli: era sicuro che lui sentisse tutto e che, magari, la mia voce potesse riportarlo qui. Da quel momento, avevo iniziato a raccontargli anche le più futili banalità: spaziavo dalla mia giornata allo studio legale alle notizie relative alla nascita del Royal Baby. Ora, invece, mi ritrovavo a dover fare un discorso profondo e potenzialmente distruttivo.
“Ciao piccolo.” Aveva sempre adorato chiamarmi piccolo: per la differenza d’età, diceva, ma sapevo che lo faceva solo per vedere le mie guance colorarsi di rosso. “Hai visto? Em si è riappropriata del tuo petto: non mi lascia nemmeno un angolino.” Ridacchio, spostando alcuni boccoli ribelli dal viso della bambina: la sua espressione è serena, spero stia facendo un bel sogno, così da potersi dimenticare dell’incubo che è la realtà.
Sospiro di nuovo, pronto a dar voce alle mie paure. “Louis, devo dirti una cosa importante quindi, per favore, se stai ascoltando dammi un segno.” Taccio, aspettando qualcosa, anche se non so bene cosa. Dopo qualche minuto carico d’ansia e aspettativa, mi convinco che, forse, è meglio parlare e basta: potrei pentirmi di questa scelta, se aspettassi ancora un po’. “Amore, tu lo sai che ti amo con tutto il mio cuore: te l’ho sempre detto e non mi stancherò mai di farlo, ma ora sono davanti ad un bivio: trattenerti qui con la forza o lasciarti andare. Tu non sai cosa darei per rivedere i tuoi occhi ancora una volta, per riprovare il calore dei tuoi abbracci o riassaporare le tue labbra, ma devo fare ciò che è meglio per te. Quindi..” Mi fermo, costretto da una nuova serie di singhiozzi e lacrime amare. Coraggio Harry, puoi farcela. “Quindi, puoi andare, se vuoi. Se lasciarci significa andare verso una vita migliore, fallo. Noi staremo bene Louis, te lo prometto.”
L’eco delle ultime parole da me pronunciate mi rimbalza nella testa e io mi sento vittima di un uragano: vorrei solamente smettere di piangere, così da dimostrargli che davvero ce la farei senza di lui. Se voglio che lui stia bene devo sacrificare me stesso e sono pronto a compiere questo sacrificio.
Improvvisamente la velocità dei “bip” emessi dalla macchina che giace alla destra di Louis aumenta, il rumore si fa più assordante e io so che il momento è giunto. “Addio amore della mia vita, ti amo.” Mi ritrovo a sussurrare, poi, così come è venuto, il rumore se ne va, lasciandomi immerso nel silenzio.
Ed è in quel preciso istante che la realtà si abbatte su di me con una brutalità infernale: Emma non avrà mai un fratellino, non dovrò più lottare per il mutuo, non avrò mai più marito. Vorrei gridare, lanciare tutto per aria, prendere a pugni qualsiasi cosa o persona mi trovi davanti, invece mi limito a piangere come un idiota, il più rumorosamente possibile: tutti devono sentire il mio dolore.
“Shh.. Harold, sve-glierai la bam-bambina.” Ridacchio: sono talmente disperato che mi sembra di sentire la sua voce, e che il “bip” meccanico sia tornato a fare da sottofondo ai miei singhiozzi. Che stupido, lui è morto, ci ha abbandonati, devo capirlo. “Harry?” Alzo la testa, sorpreso dalla realisticità di quella voce, e mi sento mancare il fiato: Louis mi osserva, sorridente. Il primo pensiero è quello di abbracciarlo, fanculo le flebo o la delicatezza della sua situazione: mio marito è vivo! Poi, però, decido di strofinarmi violentemente gli occhi: non è umanamente possibile, ho sentito il silenzio della macchina, l’ho visto morire.
Quando riapro gli occhi la situazione non è cambiata minimamente: quei due oceani che mi erano mancati come l’aria mi fissano, quelle labbra che muoio dalla voglia di baciare sono incurvate nel sorriso più bello del mondo: Louis è vivo, e lo è davvero.
“Louis.” Sussurro, quasi temendo che, se parlassi ad un tono di voce normale, tutto questo sparisse. “Amore mio.” Per la prima volta in più di sei mesi mi ritrovo a piangere di gioia: una felicità pura e travolgente mi investe non lasciando spazio ad altri sentimenti.
Lui, in cambio, mi rivolge un altro sorriso. “Allora, me.. me lo d-dai un bacio?” Parla lentamente, con tono affaticato e stanco, ma non mi interessa. Mi fiondo sulle sue labbra, un tempo così morbide e calde, ora secche, pronto a recuperare tutto il tempo perduto. “Mi sei mancato così tanto.” Affermo, senza interrompere il contatto tra le nostre labbra. “A-anche tu.” Replica.
“Papà?” La voce sottile della nostra bambina ci interrompe, costringendomi a staccarmi, anche se di malavoglia. Ormai abituato, rispondo ad Emma, ma lei non mi ascolta minimamente: osserva, con gli occhi lucidi, Louis. “Papà si è svegliato.” Non riesco a capire se la sua sia una domanda o un’affermazione, così mi limito ad annuire, le lacrime che scendono copiose. “Papà si è svegliato!” Questa volta lo urla, lanciandosi poi tra le braccia del padre e stringendolo stretto, come non poteva fare da mesi.
“Ciao scricciolo.” Anche Louis piange adesso, e, anche se so che sono lacrime di gioia, vorrei solo riempirlo di baci fino a farlo sorridere come qualche secondo fa: voglio vederlo felice.
“Papà si è svegliato!” Emma che, nel frattempo, sembra aver ristretto il suo vocabolario a queste 4 parole, scende dal letto e corre verso il corridoio, urlando la stessa frase.
“Harry?” La voce stanca di Lou richiama la mia attenzione. “Mi di-dispiace.” “Shh..” Appoggio la mia fronte alla sua, sprofondando nei suoi occhi. “Non dirlo neanche per scherzo, okay? Sei qui adesso, sei vivo, e io non potrei essere più felice.” Lui allunga il mento, fino a far combaciare nuovamente le nostre labbra: se si potesse vivere di baci e aria, io sarei perfettamente appagato. “Ti amo Louis.” “Anche io piccolo.” E lì, circondato dalle infermiere accorse per assistere a tale miracolo, riesco a sentire le mie guance andare a fuoco.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

SPAZIO AUTRICE
 

Ho davvero scritto una OS Larry? Non ci posso credere.
Honestly, era un po’ che ci pensavo, ma non riuscivo mai a venire a capo di niente, poi oggi pomeriggio, mentre tornavo a casa dal lavoro, la storia ha iniziato a prendere forma nella mia testa.
Appena ho acceso il pc, ho iniziato a scrivere, senza mai fermarmi: ora è l’1.40 del mattino e, finalmente, questa OS è giunta al termine.
Scusate se non è fantastica: non sono una Larry Shipper e quindi, probabilmente, non riesco a vedere “certe cose”, ma ci ho provato e spero apprezzerete lo sforzo.
Fino alla fine, ero convinta di “uccidere” Louis, poi ho pensato che, avendo già scritto una OS dove muore Harry (“Buon Natale Harry”), questa volta ci sarebbe stato bene un lieto fine.
Spero che tutto, nella storia, sia chiaro e che possa piacere.
Grazie a te che/se lascerai una recensione ma anche a tutti coloro che leggeranno e basta.
TWITTER - @xhisdimples
Pace, amore e Larry :)

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: xhisdimples