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Autore: JaneD_Alexandra    19/07/2013    1 recensioni
Sequel di "An irish tale".
Giugno 2012, Dublino.
Anya è una promessa del tennis e molti dei suoi ammiratori, compreso il suo allenatore, sono pronti a scommettere sul match che la vedrà sfidarsi con la più giovane e famosa tennista inglese. Gli allenamenti si fanno duri, Mr. Harris, il mister, inizia a fare di tutto per vedere vincere la sua allieva, non sapendo in realtà che da un po' di giorni lei dorme male a causa di un sogno ricorrente: si rivede nelle campagne irlandesi di metà Ottocento, in una buia e uggiosa serata, mentre cammina verso una casetta al limitare di un villaggio. L'ambiente e le sensazioni sono così realistiche che decide di cominciare ad indagare.
Ancora una volta si ritroverà catapultata nel mondo della borghesia irlandese dell'Ottocento, due anni dopo gli eventi del 1856.
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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 An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO IV 
 

 
Seduta al tavolo della cucina, lasciava che fosse il ticchettio della lancetta dei secondi a scandire il tempo.
E la noia.
Lasciò ricadere il capo sulle braccia poggiate al tavolo con un mugolio. Non aveva ancora smaltito l’ubriacatura.
Si stropicciò la fronte sul dorso della mano, con lentezza e sospirò. Gli occhi si ritrovarono a pochi millimetri di distanza dall’orologio da polso e senza faticare per mettere a fuoco spedirono al cervello le informazioni che trovarono: un’offuscata e distorta visione del quadrante bianco e di una lancetta finissima che scendeva giù, giù, giù, con una lentezza maledetta, che andava indirizzandosi sempre più verso lei come in un tediante, crudele, asfissiante gioco della bottiglia.
Un angolo del duro quadrante infastidì l’arcata sopraccigliare e con un altro lamento Anya raddrizzò il collo.
Se solo avesse potuto scomparire, una buona volta.
Erano le tre e mezza del mattino. La casa era al buio, gli infissi chiusi. Solo la luce della cucina era accesa. Ma, sebbene l’avesse aiutata a non finire dritta dritta contro lo spigolo di un mobile, la maledisse con tutte le sue forze e, fatta leva sulle ultime energie, si allungò fino all’interruttore e la spense.
Sospirò con frustrato sollievo.
Un potente rombo di tamburi la colse alla sprovvista, pressando con forza immane ai lati della testa.
E che dio sia lodato!
Un’altra fitta.
Ma come diavolo aveva fatto a ridursi in quello stato?
Doveva aver bevuto proprio tanto … ma perché non ascoltava mai la vocina che Paride le aveva inculcato in quella testa senza ripieno? Perché?
Una domanda: perché?
 
Aveva appena lasciato la parruccheria per prendere la macchina e tornare, anche se di controvoglia, a casa, quando si era imbattuta in Brigitte, una compagna del liceo.
Non erano mai state affiatate, tutte e due, anzi, solo negli ultimi due anni di scuola avevano sviluppato una simpatia reciproca che non si era mai evoluta in un’amicizia vera e propria. Nonostante ciò, non appena il suo sguardo si era posato su di lei, Anya aveva fatto un gran sorriso e le si era avvicinata con le braccia aperte.
- Brigitte! Che sorpresa!
L’altra aveva fatto altrettanto e in meno di un minuto, presa improvvisamente dai convenevoli e dai ricordi della scuola, Anya aveva dimenticato il fortuito incontro al bar con Philip. Brigitte aveva ricambiato la stretta con una punta di compostezza in più, appuntando subito l’attenzione sulla piega ancora calda e profumata dei capelli di Anya, lisci e più setosi del solito.
- Ma guarda un po’! Hai fatto finalmente la lisciatura chimica?
Anya aveva scosso il capo, ridendo. Brigitte aveva sempre avuto una mania per i capelli. A quanto diceva lei stessa, spendeva più soldi nella loro cura che in vestiti; ed effettivamente la sua chioma poteva fare invidia alle modelle più belle e famose del mondo. Aveva i capelli lunghi fin quasi al fondo schiena, di un naturale biondo cenere chiaro che splendeva al minimo riverbero. Non avevano mai un nodo, nonostante fossero mossi, e da che la conosceva, non l’aveva mai vista con i capelli legati. In quel momento si era mossa facendoli fluttuare con ostentata disinvoltura, ma Anya non vi aveva prestato attenzione.
Avevano camminato per un po’ e Anya si era allontanata nuovamente dalla macchina dove avrebbe volentieri posato la grande borsa con l’equipaggiamento per il mare. Da quella breve chiacchierata Anya aveva scoperto che l’amica aveva abbandonato di recente l’università per dedicarsi a dei corsi di potenziamento di tedesco, essendo lei stessa di origini bavaresi da parte materna, poiché intendeva viaggiare lungamente in Germania e, se il caso l’avesse voluto, trasferirvisi definitivamente.
Da parte sua, Anya offrì una storia che personalmente trovava molto meno interessante, essendo stata squalificata da uno dei tornei per lei più importanti e soffrendo la lontananza del proprio ragazzo. A questo si aggiungeva l’acuto senso di sconfitta per il recente incontro con Philip, ma badò a non farne cenno per evitare prolungamenti di un problema che la faceva rabbrividire di fastidio al solo pensiero.
Alla fine, dopo un breve silenzio, Brigitte, in un mellifluo tentativo di consolarla, le aveva proposto di passare la serata con lei ed alcuni suoi amici al pub. Prima di rispondere Anya aveva sondato il suo sguardo e scandagliato ogni minima espressione, ricordando tutte le ramanzine che sua madre le aveva fatto nell’adolescenza e la contrarietà di Paride nel vederle anche solo mezzo bicchiere di vino in mano. Ma, considerato che non passava una serata del genere da molto tempo e che si prospettava una noiosa serata davanti alla tv, aveva accettato di buon grado.
 
Non poteva pentirsi di più di quello che stava già facendo.
Una birra da mezzo litro a digiuno, degli aperitivi alla frutta e un drink alcolico. E non le avevano dato neppure una fettina di limone.
E sì che la prossima volta accettava! Gradevole compagnia, per carità: un gruppetto di cinque ragazzi e quattro ragazze, lei compresa, ad un pub vicino alla costa.
Si sforzò di ricordare dei nomi. C’era Bradley, che le aveva fatto una corte spudorata fino a quando Brigitte non gli aveva detto che era già impegnata, momento in cui le sue attenzioni s’erano fatte ancor più insistenti. Un ragazzo abbastanza carino, ma frivolo in ogni dettaglio della persona e del carattere. Niente da fare. Gli aveva parlato per un po’, poi aveva preferito Jim, fissato con le arti marziali e i manga e mezzo giapponese nel look, con una camicia alla coreana … rossa?, e i capelli scuri sparati col gel.
Mannaggia a lei non ricordava gli altri. C’era Brigitte … e Sarah (della quale era sicurissima che non aveva tollerato la sua presenza sin dall’inizio) e poi qualche personaggio di contorno, bocconcini slavati senza punto, né virgola.
Una morsa fortissima affondò i suoi canini nelle tempie e la nausea montò di conseguenza. Aveva buttato l’anima appena arrivata a casa, non meno di un’ora prima. Quando aveva varcato la porta di casa era bell’e ubriaca, ma conservava quel po’ di lucidità sufficiente a ricordare l’ubicazione del gabinetto. Un fiume d’acido le aveva inondato l’esofago, era risalito sempre di più graffiando la gola e urticando il palato. Sfinita, era crollata sul pavimento, reggendosi come una beota al mobiletto degli asciugamani. A quel punto era scoppiata a ridere, aspettandosi da un momento all’altro sua madre che spalancava la porta del bagno e strabuzzava gli occhi per la sorpresa e il disgusto di trovarla in quello stato. Aveva riso di cuore, tenendosi lo stomaco malmesso con una mano e cercando di tirarsi su per farsi un bicchierone di acqua e bicarbonato con cui sciacquarsi la bocca, invasa da un sapore quanto mai orrendo, e aveva continuato a sghignazzare mentre tirava lo sciacquone e si sentiva sfiatare imboccando il corridoio per raggiungere la cucina.
Quando si fu calmata aveva fatto dei gargarismi e si era sciacquata il viso con l’acqua fredda; dopodiché si era lasciata cadere su una sedia e aveva cominciato a pensare.
Non avrebbe detto niente a Paride, questo era poco ma sicuro, non perché era geloso, ma perché non avrebbe retto un altro rimprovero.
E dio sapeva quanto fosse stufa di tutto ciò.
Si sentiva a pezzi, letteralmente. La spalla sinistra le faceva ancora male, dopo la caduta al match con Sonja, la testa pulsava da impazzire, aveva lo stomaco in subbuglio, la gola in fiamme e nel cervello le idee erano tanto confuse da non riuscire a star ferme, così che cozzavano, si urtavano l’un l’altra come molecole impazzite, producendo un rumore ed un caos infernali.
Ma si sentiva a pezzi anche dentro. Dove non lo sapeva dire; forse erano le spalle o le braccia stanche … o il petto.
Le venivano in mente le parole di Mr. Harris quando ci rifletteva su.
“Hai fatto schifo.”
Avvertì un improvviso dolore allo stomaco, come un morso; poi più giù, verso l’ombelico.
“Mi hai fatto fare la figura dell’incapace.”
Strizzò le palpebre per dimenticare. Massaggiò gli occhi con le dita, scosse il capo, arrendendosi e lottando contro qualcosa che non sapeva definire. Contrasse le dita delle mani fino a sentire le unghia penetrare nella pelle, contrasse i muscoli del viso in un ringhio silenzioso e un nuovo spasmo all’addome la avvolse con un’insana vampata di caldo.
 
Quando si svegliò, dal suo letto Linda la fissava con gli occhi spalancati.
- Che c’è?
Anya l’aveva guardata lungamente in viso.
“Che c’è?”?
- Anya?
Aveva Linda davanti. Sua sorella.
Le dita si strinsero, insicure, intorno ad un angolo di coperta. Poco a poco la percezione delle cose si diffuse al resto del corpo e realizzò di essere in pigiama, seduta sul suo letto, avvolta dalle sue coperte, nella sua stanza e si sorprese di essere sopravvissuta agli spasmi allo stomaco, anche se non al mal di testa e alla nausea. Si guardò intorno per avere la certezza di non stare sognando, puntellandosi sul materasso, aggrottando piano le sopracciglia e schiudendo le labbra per la sorpresa. Udì Linda sospirare, sul punto di dire qualcosa.
- A …
- Sì, che c’è? Cosa vuoi?
Stropicciò pigramente le palpebre con uno sbadiglio irritato e si girò verso la sorella.
- Ma a che ora sei tornata ieri sera? – riprese Linda malcelando il fastidio per il tono che aveva appena usato.
Anya ricadde sul cuscino in preda ad un forte languore, ma le occhiate di Linda su di sé le impedirono di rilassarsi. – E che ne so … - borbottò coprendosi la fronte con un braccio. Stava sistemandosi per voltarsi dall’altra parte, quando con un guizzo degli occhi (non poi tanto veloce, considerato il mal di testa) si girò di nuovo verso di lei. – Perché mi chiedevi cosa avessi?
Linda si mise a sedere sul letto, allungando il braccio verso il comodino per prendere l’orologio. Prendendo tempo con un’aria sostenuta, allacciò l’orologio al polso e si alzò.
- Ti sei lamentata per tutto il tempo - disse - e poi hai gridato …
Anya aggrottò le sopracciglia. – G-gridato? Che dicevo?
Linda si diresse verso l’attaccapanni appeso dietro la porta e senza guardarla fece spallucce. Indossò una giacchetta di cotone, tirando su le maniche fino alla piega dei gomiti, e sbuffò bruscamente.
- Un sacco di cose incomprensibili … l’unica cosa che ho capito è stato il “no” che hai urlato quando ti sei svegliata ... e che mi ha fatto saltare in aria.
Anya era sempre più confusa. Aprì la bocca per dire qualcosa, la richiuse, la riaprì. Che si fosse svegliata nell’attimo in cui aveva gridato non le pareva possibile, perché la stanza era avvolta nel silenzio, come sempre.
- Fidati, non sto scherzando. E … se posso dirlo, senza che ti preoccupi esageratamente, ti sei lamentata anche questa notte … hai avuto gli incubi, per caso?
- No … - rispose sovrappensiero. Linda la guardò con il volto assonnato e aprì la porta. – Cioè, sì. Ma … non è un incubo a tutti gli effetti …
- Che vuoi dire?
Anya prese un respiro. A Linda non aveva mai raccontato del sogno, che già si ripeteva da diverso tempo, e nemmeno della sua esperienza durante il coma. Gliene aveva fatto accenno, una volta, ma l’aveva preso come uno scherzo e si era allontanata ridacchiando. Solo Paride lo sapeva, ma lui in quel momento era a Waterford e non l’avrebbe visto se non una settimana dopo. Le venne d’improvviso voglia di raccontarle tutto, scongiurarla di crederle e, se fosse stato il caso, chiamare Paride come testimone. Ma Linda, la sua adorata sorella, non avrebbe creduto neppure ad una parola.
- È un sogno che faccio da tempo … - azzardò, dopo mille tentennamenti. - … ma è una sciocchezza …
- Ne sei sicura? – domandò Linda, con un baleno di sospetto.
Ad Anya parve di deglutire un confetto intero. – Sì – sorrise, senza capire il perché di quella bugia – sicura …
- Bene – fece l’altra, varcando la soglia in direzione del corridoio, ma tornando indietro all’ultimo minuto – io, Paul e Ophelia andiamo a mare, questa mattina. Vuoi farci compagnia?
La giovane cacciò un’occhiata al cielo oltre la finestra.
- Un bagno freddo sarebbe un buon modo per smaltire gli effetti di quella sbornia maledetta di cui ancora porti i segni …
Anya arricciò un labbro con fare ostile.
- Allora?
- Ma come vi salta in mente di andare a mare in una giornata simile?! Pioverà fra poco!
- Vieni o no?
Si guardarono per un lungo momento. Linda aggrottò la fronte con un evidente atteggiamento di sfida, mentre Anya, vittima dell’emicrania, socchiuse le palpebre per sopportare meglio il dolore. Poi Linda storse la guancia, che tirò un angolo delle labbra in uno strano sorriso.
- Paride te ne direbbe quattro vedendoti così conciata …
- Sta’ zitta!
- Eccome se te le direbbe …
Seppure detto in tono scherzoso, quella frase colpì Anya da qualche parte, nel petto, ed ebbe il potere di aumentare quel senso di sconfitta che l’assillava dalla fine del torneo, che si era accresciuto il pomeriggio precedente al bar e che si riassumeva in una banconota da venti euro.
Hai fatto schifo.
Nessuno avrebbe voluto deludere. Nessun altro dopo Mr. Harris. Se anche Paride si fosse arrabbiato con lei sarebbe stata la fine. Qualcosa dentro di lei si sarebbe spezzata irrimediabilmente. Non poteva permetterselo.
Linda aprì la bocca per parlare.
- D’accordo! – esplose Anya con una fitta prepotente di dolore.
- Vuoi dire che …
- Sì, sì, sì, vengo … - disse, abbassando la voce. Si portò una mano alla fronte, mentre alzò l’altro braccio per indicarle la porta - … ma ora vattene! Sparisci!
Sul punto di bofonchiare qualcosa con aria infastidita, Linda strinse spasmodicamente le dita sulla maniglia, con ogni probabilità pensando a quanto mutevole fosse il carattere della sorella in quel periodo e a quanto complicato fosse assecondarla, visto che non gliene andava mai bene una e che aborriva ogni tipo di compagnia. Si chiese d’improvviso con chi fosse uscita la sera precedente, ma a quel tentennamento Anya rispose con un ringhio e Linda, confusa e sempre più infastidita, si dileguò.
 
 
La settimana che venne non fu priva di noia.
In primo luogo, mentre era a mare con Linda, Paride l’aveva chiamata per avvisarla che avrebbe rinviato la partenza da Waterford a causa di problemi di lavoro. Diceva che aveva perso alcuni appunti degli studi in Nuova Zelanda e stava perdendo tempo per farseli rispedire via e-mail; al termine di questo processo avrebbe compilato una relazione da presentare all’università di Dublino.
Quando le telefonò, il tono le parve parecchio dispiaciuto, anche se il rumore delle scartoffie e della tastiera del computer in sottofondo le diede l’impressione che lui, a differenza sua, non avrebbe sentito passare lentamente quei giorni di distanza.
Per ingannare l’attesa, decise di far compagnia alla madre nell’ambulatorio, prendendosi cura degli animaletti che le venivano portati. I casi di un gatto appena sterilizzato e alla ricerca di un padrone e di un cagnolino con una zampa e delle costole rotte a seguito di un incidente furono quelli che occuparono la maggior parte del suo tempo.
Di tornare ad allenarsi al circolo non ne voleva sapere, sebbene sentisse il bisogno di muoversi. Guardava ogni giorno il calendario e ogni giorno pensava al torneo che ancora non si era concluso e che con tutte le probabilità Sonja stava vincendo. E sempre pensava a Mr. Harris e ai suoi rimproveri e alla clamorosa sconfitta e alla spossatezza che non aveva saputo combattere.
Negli ultimi giorni di quella fatidica settimana all’ambulatorio veterinario giunse una signora con un cucciolo di cane piccolissimo che non mangiava più. La pelliccia, bianca con qualche macchia marrone e nera, e la conformazione fisica del cane fecero subito pensare ad Anya ad un incrocio di setter inglese. La padrona le disse che a causa di alcune complicazioni, la mamma dei piccoli era morta qualche giorno dopo il parto e che dei quattro cuccioli era rimasto solo quello.
Kate lo visitò attentamente, ma non diagnosticò nulla di anomalo. Disse alla padrona di dover trattenere la bestiola in ambulatorio fino a che non si sarebbe rimessa del tutto e quando la donna se ne andò lo affidò alle cure della figlia.
- Non potrò occuparmene subito – le disse avvolgendolo in una copertina di lana - perché devo fare la radiografia al cane con la zampa rotta …
Anya annuì prontamente, prendendo il fagotto tra le braccia. – È un cucciolo, Anya, quindi niente latte vaccino. Troverai del latte in polvere per cani nella dispensa. Per il resto sai cosa fare …
Da un basso mobiletto accanto alla porta Kate prese una scatola e la pose sul lettino delle visite. Anya vide che conteneva gli strumenti necessari per l’allattamento: un biberon, dei ciucci di sostituzione e un lungo cucchiaino, forse per miscelare il latte in polvere all’acqua. Sistemò meglio il fagotto su un braccio e prese la scatola per guardarvi meglio dentro.
- Adesso – riprese Kate con un’occhiata all’orologio – devo andare. Sono in ritardo … ci vediamo dopo!
Le diede un bacio sulla fronte, come faceva sempre per salutarla, ed uscì.
Nello stesso momento il cagnolino si mosse con un guaito e Anya pensò bene di iniziare a darsi da fare.
 
 
La testa era diventata parecchio pesante. Si buttava da un lato all’altro in continuazione, sulle note di un sonno che la cullava da qualche ora.
Gli occhi lacrimavano e si chiudevano. Anya sbadigliava, ma le forze per aprire e chiudere la mascella si esaurivano man mano.
Tra le braccia teneva ancora il fagotto con il cucciolo ed era rannicchiata a ridosso di una parete, circondata da ripiani metallici con strumenti medici sterili e dispense varie in cui erano conservati i medicinali più importanti. L’oscurità, rischiarita dalla luce dei lampioni che filtrava dalle imposte e da una lucina accesa all’altro capo dell’ambulatorio, aveva conciliato il sonno sin dal tramonto del sole.
Un fruscio appena percettibile tra le calde coltri la risvegliò e istintivamente mosse le braccia per cullare. Ma ricordò che non si trattava di un bambino, bensì di un cucciolo e si fermò, anche perché era troppo stanca per continuare.
Sollevò il braccio destro piegando il polso per controllare l’ora e si accorse di avere in mano il biberon pieno per metà di latte. Lo scosse con l’incertezza tipica del sonno e lo riabbassò; poi, in un singulto di curiosità, mosse le dita e borbottò un’imprecazione strascicata. Il latte si era raffreddato e quel che c’era di peggio erano gli strumenti fuori portata. Per raggiungerli avrebbe dovuto alzarsi.
Ebbe pochi minuti per riposarsi, prima che il cucciolo si risvegliasse e iniziasse a piagnucolare. Per sbaglio, lo cullò di nuovo e si alzò di malavoglia per scaldargli il latte.
Sul ripiano accanto al fornelletto c’erano i resti della sua cena: la carta di una focaccia con rucola e bresaola, una lattina vuota di birra, un involto con le insegne del locale. Mise il biberon nel pentolino d’acqua e accese il fornelletto. Cullò ancora il cucciolo, che continuava a mugolare, e presa dalla necessità di stiracchiarsi lo poggiò con tutto l’involto di coperte sul lettino delle visite e sbadigliò per un lungo momento, le braccia alzate e le dita incrociate. Istintivamente cercò una sedia per sedersi accanto al lettino, la ricordò presto che sua madre non era solita usarne, anche perché visitare un animale seduta non sarebbe stato comodo. Le uniche si trovavano nella sala d’aspetto.
Si versò un po’ di latte sul dorso della mano e accertatane la buona temperatura spense il fuoco. Il cucciolo si attaccò immediatamente alla tettarella, spingendosi in avanti con le zampette delicate e suggendo con la forza di chi ha fame. Anya continuò a guardarsi intorno alla ricerca di un modo di stare più comoda. Sospirò.
Mentre il cucciolo continuava a poppare fece caso al silenzio dell’ambulatorio e all’assenza di rumori nella strada. Solo allora ricordò di non aver ancora visto che ore erano e cercò con gli occhi l’orologio dell’ambulatorio. Corrugò il mento, sollevò un sopracciglio. Si erano già fatte le dieci di sera.
Quanto ancora il cucciolo avrebbe avuto bisogno di lei?
Pensò di metterlo in una scatola, su una copertina autoriscaldante, ma la prospettiva di lasciarlo tutto solo di notte non le andò per niente a genio. Si sarebbe svegliato sicuramente e l’avrebbe cercata. No, non sarebbe riuscita a dormire sapendo che non c’era nessuno con lui.
Si spostò così in sala d’aspetto e sedette, con enorme sollievo, su una sedia imbottita. Il cane continuò a ingurgitare latte e, guardandolo, Anya capì di essere di nuovo perfettamente sveglia.
Di tanto in tanto una macchina di passaggio rompeva il silenzio o si udivano delle voci incomprensibili dalla fine della strada o dal marciapiede opposto, ma in generale i rumori erano veramente pochi, perché l’ambulatorio aveva sede in un quartiere isolato nella periferia di Dublino.
Dopo dei giorni all’insegna dei dubbi, del chiasso, di quella collosa, morbosa sensazione di sconfitta e rifiuto, quella calma assoluta, quella quiete che tanto pressava sulle orecchie, ma che avvolgeva il cuore di un’insolita pace, fu una delle cose più belle di quell’ultimo periodo. E guardare quella piccola creatura che mangiava con tanto entusiasmo non poté che amplificare quella pace, donandole delle preziose sfumature di gioia. Un formicolio le solleticò le pareti dello stomaco, risalì lungo la gola e inondò gli occhi di tenerezza. Se quello scricciolo aveva ancora tanta vitalità era anche merito suo.
Fu con quell’espressione rapita che si voltò di scatto verso la porta quando questa si aprì. La commozione fu mascherata solo inizialmente dallo spavento, ma alla vista del visitatore tornò e si miscelò ad un grande sorriso.
Paride non trovò parole per salutarla. Gli occhi lucidi di Anya parlarono per entrambi e un nodo gli strinse la gola come un foulard di seta. Conservando le chiavi in una tasca del jeans si avvicinò lentamente, con la stessa incredulità di chi è di fronte al più bel quadro del mondo. Con un fagotto fra le braccia e un biberon tenuto con tanta accortezza, Anya gli sembrò una mamma che allatta il figlio e per un attimo, istintivamente, immaginò che l’essere che teneva in braccio fosse figlio loro.
Anya si alzò per abbracciarlo e allargò leggermente le braccia per permetterglielo. Paride indugiò, ancora ubriaco di quell’inattesa tenerezza, lanciò un’occhiata al fagotto, poi guardò lei e si avvicinò ancora di un passo, fino a che i loro visi non furono vicinissimi.
Si guardarono negli occhi. Paride le prese il volto fra le mani, con delicatezza, e sfiorò le sue morbide labbra con un bacio leggero. – Ti amo – mormorò a fior di labbra – ti amo …
La baciò di nuovo, facendo lentamente scendere la mano sinistra lungo il collo, passandola fra i capelli, posandola sul braccio e poi sulla schiena, dove si fermò ed esercitò una leggera pressione per avvicinare il suo corpo al suo. Anya lo ricambiò con trasporto, contraccambiando la sua commozione con la gioia di averlo finalmente e nuovamente vicino. Lo abbracciò con l’unico braccio libero, rabbrividendo quando l’altra sua mano scese fino alla vita e ricercò il contatto febbrile con la sua pelle sollevando appena appena l’orlo della maglia. Un attimo dopo Anya sentì il tocco delle sue labbra cambiare, farsi più fremente e la presa delle mani variò di conseguenza, preda di un nuovo pulpito emotivo. Tentò di cogliere dei segni più evidenti sul suo viso, ma lui, cosciente o no, non lasciò che lo scoprisse e scese a baciare il collo, fermandosi poi sull’incavo fra questo e la spalla. Rinsaldò la presa intorno alla vita e Anya, perplessa, lo ricambiò.
Percepì nettamente il battito del suo cuore contro il proprio petto e lo sentì forte, rapido, rassicurante. Riempì i polmoni con dei lunghi sospiri di felicità, ma sulle sue labbra il sorriso si storse e poco a poco si dileguò quando sentì qualcosa colare lungo la spalla. Contemporaneamente il respiro di Paride divenne più irregolare e un respiro più brusco dei precedenti le fece intuire che stesse piangendo.
- Paride … ehi … cosa c’è? – mormorò passandogli una mano sul dorso e cercando di guardarlo in viso.
- No … - bisbigliò lui, carezzandole la schiena – … rimani così. È perfetto …
 

  
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