Goodbye, goodbye
[Ringrazio Sae, senza il cui supporto
non so se avrei mai pubblicato questa one-shot. E,
ovviamente, quanti di voi leggeranno.]
“Harry… Vuoi che venga con te?”
La sua voce gli sembrò così lontana che se non le avesse tenuto
la mano, avrebbe persino dimenticato di averla con lui. Gli sembrava di aver
vissuto in un sogno per tutto quel momento, fino ad allora.
Una settimana.
Una lunga, eterna settimana a fissare con sguardo vacuo il tempo
scorrere via senza avere la forza di prenderlo, di acciuffarlo. E aveva pianto?
Non se lo ricordava. Il suo cuore era così vuoto, così scarno di emozioni da
risultargli addirittura assurdo credere che un tempo, nemmeno tanto lontano,
avesse davvero battuto.
Come aveva fatto?
Harry avrebbe voluto ricordarsene (avrebbe voluto davvero) mentre si attardava dietro
quella porta marrone. La mano stretta sopra la maniglia, ma senza forza. Pareva
un automa.
“Harry?”
E di nuovo la sua voce, così calda, così dolce che a sentirla
gli si scioglieva qualcosa, proprio in quel petto freddato. Non era un
controsenso?!
D’altronde, tutta la loro storia lo era. Lo era sempre stata.
Si era innamorato di lei quando ormai lei stava con un altro,
senza nemmeno sapere della totalità dei pensieri devoti a lui soltanto. L’aveva
baciata, poi, incurante del resto del mondo ed era stato bizzarro scoprire,
mentre saggiava le sue belle labbra lampone, come fosse diventata lei il mondo,
per lui. L’aveva lasciata per non metterla in pericolo, ed ironia della sorte
lo era stata di più dopo che non durante.
E anche adesso, lei era di nuovo lì, al suo fianco, nonostante
lui l’avesse allontanata un po’ per paura e un po’ per necessità.
Le strinse la mano, come faceva da una settimana a quella parte.
Dopo averla ritrovata (talmente perfetta nel collimare con la
sua), non aveva più intenzione di lasciargliela andare. Era il suo contatto con
la realtà, la sua forza, l’unica aria di cui avesse davvero bisogno per
ricordargli di essere ancora vivo.
Eppure, per quanto non chiedesse altro di poterla avere vicino,
sapeva che quella cosa toccava a lui. A lui soltanto. Nessun altro.
Scosse il capo.
“No, Ginny”, le disse, sorridendole con quel sorriso un po’
spento che aveva imparato ad esibire. “Devo farlo io”
Lei lo guardò, come a voler dire “lo so, l’ho sempre saputo” e lui l’amò ancora di più. Per ogni
istante, ogni parola, ogni silenzio, sapeva di amarla un pochino di più. Chissà
dove sarebbe andato a riversarsi tutto quell’amore…
Le accarezzò la guancia, morbida come la ricordava, e Ginny
chiuse gli occhi a volersi perdere in quel contatto. Ma li riaprì subito dopo,
più decisi di prima nel puntarli in quelli verdi di lui.
“Harry. Io non mi muovo di qui”
Lui sorrise e, con un groppo alla gola, le lasciò la mano. Fu un
po’ come se anche l’ultimo brandello di vita morisse, lasciandolo in una landa
deserta, e desolata, e fredda, terribilmente fredda.
Sapeva che se fosse rimasto ancora lì, non avrebbe più avuto la
forza di voltarsi e varcare quella porta che lo sfidava con il suo silenzio,
perciò senza ulteriori indugi agguantò la maniglia e spinse.
***
Le persiane chiuse avevano lasciato la stanza in penombra, in un
silenzio che ad Harry parve quasi assordante. Si era richiuso la porta alle
spalle (forse per respingere la voglia di scappare) e il buio si era fatto
ancora più intenso costringendolo a fermarsi per cercare di abituare gli occhi
al nuovo cambiamento.
Il cuore batteva piano, lento, quasi spento e lui si chiese se
per caso non fosse morto.
Ma poi la vide la culla adagiata poco più in là, e il balzo nel
petto gli aprì gli occhi.
Avanzò quasi d’istinto, stupendosi quasi di riscoprire tutta
quella forza. Le gambe tremavano, un po’, ma non accennarono ad abbandonarlo
per quanto breve potesse essere il tragitto dalla porta alla culla.
Harry si fermò solo quando non toccò con il corpo le sbarre di
ferro, incantato dal fagotto di coperte contenuto al suo interno.
Azzurre.
Azzurre come gli occhi di Ron, come il cielo più terso, come il
mare più limpido.
E al centro, ricamate con punti stretti e precisi, tre piccole
lettere.
T. R. L.
Teddy Remus Lupin.
Il cuore si stringe, il pugno affonda nello stomaco e il respiro
si mozza nel petto.
Harry aveva solo voglia di correre via, di scappare da
quell’aria pesante, eppure allo stesso tempo non riesce a muoversi di un
millimetro dalla posizione rigida assunta. Quasi gli avessero inferto un Pietrificus.
E sapeva, lo sapeva da tutta la settimana, che non avrebbe
potuto evitare quel confronto, che avrebbe dovuto farlo, che avrebbe dovuto
scoprire quelle coperte e guardare il viso che custodivano.
Anche se lo aveva già visto per foto.
Allungò una mano, accorgendosi a tremare, e con una velocità che
credeva di aver perso tirò via la coperta azzurra (troppo, troppo azzurra. Gli
feriva gli occhi).
Aveva le guance rosee, lo stesso viso a cuore della madre, i
capelli di un viola spento proprio come la prima volta che l’aveva conosciuta.
Harry lo ricordava ancora perfettamente quel momento e forse,
proprio per questo, aveva nella maniera più disperata tentato di evitare quel
momento.
Avrebbe voluto accarezzargli la manina stretta a pugno, ma ha
quasi paura di quel contatto. Ed era sciocco, sul serio. Che male avrebbe mai
potuto fargli quel frugoletto?
Ma Harry lo sapeva che non era lui di per sé a ferirlo, quanto i
ricordi in grado di suscitare nella sua mente intorpidita dagli eventi.
Si era chiuso nel suo mondo, aveva osservato quell’interminabile
settimana di sofferenza e gioia repressa da muto osservatore, stupendosi di non
riuscire più a provare emozioni per niente che non fosse, forse, per Ginny.
E adesso era lì, ad affrontare tutto ciò per cui era scappato e
da cui si era con ostinazione tenuto lontano. Era stato un vigliacco, un
codardo, non meritava di essere il padrino di quella creatura e avrebbe tanto
voluto poter riavere indietro Remus per dirglielo. Ma il punto era proprio
quello, no?
Non torneranno. Non
torneranno più.
Quasi non si era reso conto di aver iniziato a piangere se non
avesse visto, con gli occhi annebbiati, quelle stille allargarsi sulla coperta
azzurra.
Si portò una mano sul viso, sulla guancia, sentendola
particolarmente umida. Sì, stava davvero piangendo. Non erano di qualcun altro,
quelle lacrime erano le sue.
E si stupì Harry, perché proprio non pensava di esserne ancora
in grado.
“Nh”
Abbassò il capo e il cuore batté un po’ più forte
nell’incrociare due familiari occhi marroni.
Troppo familiari per resistere, per non scoppiare a piangere.
Quelli erano gli occhi di Remus. Erano gli occhi dei Malandrini. Un po’ di Ramoso, un po’ di
Felpato, un po’ di Lunastorta e persino un po’ di Codaliscia. O forse era lui
che vedeva tutto ciò?!
Anche Severus aveva visto tutte quelle emozioni nei suoi occhi
tanto simili a sua madre, a Lily? Probabilmente sì, per questo aveva
disperatamente tentato di catturare per sé quell’ultimo sguardo, prima di
morire.
Così belli e così dolorosi insieme nel carico di emozioni in
grado di trasportarsi dietro… Harry si sentiva un po’ come Severus in quel
momento (finalmente riusciva a capirlo). Per quanto non desiderasse altro che
non doversi più confrontare con quegli occhi, non riusciva a smettere di
specchiare se stesso in quelle iridi castane.
“Tadah!”, squittì il bimbetto dalla culla, sorridendo alla sua
direzione e allargando le braccia in un abbraccio inconsistente.
Harry si chinò e, tra le lacrime, scoprì un sorriso quando lui
gli afferrò un dito con la mano. Stringeva forte per essere così piccolo, così
indifeso. Gli venne in mente Remus, di nuovo, e la sua forza nell’affrontare le
cose. E gli venne in mente Ninfadora (anche se lei odiava essere chiamata
così), con la sua tenacia nel combattere le ingiustizie.
C’era un po’ di entrambe in quel bambino. E un po’ di suo padre,
e di sua madre, e di Sirius, e di Silente, e di Fred…
Oppure era davvero lui che continuava a vedervi tutti quei volti
ormai persi…
These mist covered mountains [Queste montagne coperte da nebbia]
Are a home now for me [Ora
sono una casa per me]
But my home is the lowlands [Ma la mia casa è la pianura]
And always will be [E lo sarà sempre]
Someday you'll return to [A volte tornerete]
Your valleys and your farms [Nelle vostre valli e nelle vostre
fattorie]
And you'll no longer burn [E non brucerete più]
To be brothers in arm [Per essere compagni d’armi]
Through these fields of destruction [Attraverso questi campi di
distruzione]
Baptism of fire [Battesimo del fuoco]
I've watched all your suffering [Ho guardato tutta la vostra
sofferenza]
As the battles raged higher [Quando le battaglie infuriavano
davvero]
And though they did hurt me so bad [E anche se mi hanno fatto così male]
In the fear and alarm [Nella paura e nell’agitazione]
You did not desert me [Non mi avete mai abbandonato]
My brothers in arms [Oh, miei compagni!]
There's so many different worlds [Ci sono tanti modi differenti]
So many different suns [Tanti soli differenti]
And we have just one world [E viviamo in mondi diversi]
But we live in different ones [Anche se ne abbiamo soltanto uno]
Now the sun's gone to hell [Ora il sole è andato all’inferno]
And the moon's riding high [E la luna sta alta nel cielo]
Let me bid you farewell [Fatemi dire addio a voi]
Every man has to die [Ogni uomo è destinato a morire]
But it's written in the starlight [Ed è scritto nelle stele]
And every line on your palm [E in ogni linea sul tuo palmo]
We're fools to make war [Siamo davvero matti a far combattere
la guerra]
On our brothers in arms [Ai nostri compagni d’armi!]
“Ehi, Teddy”
Lo disse piano, quasi avesse avuto paura di ferire le sue povere
orecchie utilizzando qualche decibel in più. O magari proprio non possedeva
quei decibel di voce da aggiungere.
Gli sembrava così strano essere il padrino di quel bambino così
sorridente, così pieno di vita (proprio come Tonks). Lui che non riusciva a
ricordarsi come si vive.
Che avrebbe avuto da imparargli? Sarebbe stato in grado di
sorreggerlo nei momenti di sconforto? Sarebbe stato un punto di riferimento, o
l’avrebbe considerato un altro volto a cui sorridere?
Senza neanche accorgersene aveva allungato le mani verso di lui,
fino a prelevarlo da quel caldo giaciglio. Era così piccolo, così leggero che
gli fece impressione per un istante. Ma poi lo strinse a sé, tra le sue braccia
e si lasciò fermo a fissarlo con occhi ancora troppo vuoti.
E lui, impertinente, gli sorrideva allegro, sordo al suo dolore.
Semplicemente troppo piccolo per capire la devastazione che si respirava tra
quegli oggetti. Neh, avrebbe voluto
chiedergli Harry, non senti il vuoto che
ci circonda?
Ma come avrebbe potuto? Era davvero troppo piccolo, Teddy.
Anche lui aveva reagito così alla morte dei suoi genitori? Anche
lui si era rintanato tra le braccia di Hagrid (o forse di Sirius prima
ancora?), ignaro del lutto appena subito?
Allora…
Anche Teddy un giorno si sarebbe specchiato nello Specchio delle
Brame e avrebbe rivisto i suoi genitori ancora lì con lui?
“È così ingiusto…”
E le lacrime scendevano giù, inarrestabili, come non facevano da
tempo, come non avevano fatto per tutta quella settimana. La nebbia si
diradava, il torpore svaniva a poco a poco, la realtà lo schiacciava con il suo
impatto atroce. Tutto ciò che aveva cercato di evitare era ritornato, come per
incanto, semplicemente attraverso il sorriso di un bambino.
Del suo figlioccio.
Vedere Teddy significava assimilare tutti i lutti per cui era
stato male e tutti quelli per cui non aveva ancora avuto il tempo per
metabolizzare. Significava specchiarsi nei suoi occhi e rivederne altri, tutti
diversi ma tutti accumunati da quella scintilla che adesso la vedeva brillare
in quelle iridi castane. Significava ripercorrere la sua stessa vita, a ritroso
nel tempo, fino a ritrovarsi in fasce ad aspettare un abbraccio che non sarebbe
mai più arrivato.
Era finito tutto, tutto, tutto. Non c’era più niente.
Non era rimasto più
niente.
Chi avrebbe chiamato mamma o papà, adesso, Teddy?!
Harry non voleva che fosse stato solo, proprio come lo era stato
lui sedici anni prima della sua nascita. Non avrebbe permesso a quel frugoletto
di sentirsi spaesato, perso, un giorno. Gli sarebbe stato vicino, lo avrebbe
confortato nei momenti di dolore (quando i ricordi troppo poco vividi sarebbero
riapparsi), avrebbe sorriso dei suoi successi e pianto per i suoi fallimenti,
avrebbe ascoltato i suoi sfoghi, l’avrebbe rialzato sempre dopo una caduta…
Sarebbe stato un buon padrino, sì.
Il migliore che Remus e Tonks avessero mai potuto sognare per il
loro figlio.
E ogni giorno, fino alla fine, avrebbe ripetuto lui quanto gli
volevano bene i suoi genitori, quanto erano speciali e quanto grande era stata
l’impresa che avevano affrontato per lui. Soltanto per lui.
Non avrebbe mai, mai permesso che Teddy si sarebbe sentito solo,
un giorno.
Mai.
Lo strinse a sé, un po’ più forte, e come non faceva da giorni
il suo cuore ritornò a bruciare, e anche se faceva male adesso almeno era vivo.
E pianse, lasciando ai suoi occhi il compito di buttar via tutto
quel dolore represso che lo aveva chiuso in quello stato catatonico. E lo
abbracciò, perché lui c’era e Teddy doveva saperlo che aveva un padrino che si
sarebbe preso cura di lui.
Sempre.
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“Harry!”
Il ragazzo si voltò e come promesso, si ritrovò Ginny di fronte.
Non era sorpreso, era solo contento di saperla ancora lì con lui nonostante il
vuoto degli ultimi giorni.
Prima ancora di accorgersene, spinto solo da una forza di
volontà che credeva di aver perduto ma che Teddy gli aveva fatto
inconsapevolmente ritrovare, la abbracciò. Proprio come aveva stretto a sé e al
suo cuore il giovane Lupin appena pochi istanti prima.
“Ginny…”
I suoi capelli profumavano di muschio selvatico, lo stesso odore
che aveva ormai da tempo associato a lei. Lo respirò a fondo, lasciando che si
inoltrasse nei suoi polmoni pigri fino ad avvolgergli il petto come un manto
delicato e fresco.
Come aveva fatto a resistere tutto quel tempo alla voglia di
abbracciarla?
Non lo sapeva ma ad un tratto si rendeva conto che non gli
bastava più. Voleva di più. Aveva bisogno di più.
Si chinò su di lei e, stupendola, la baciò su quelle sue belle
labbra. Dio, come gli erano mancate quelle labbra…
E tutta la marea di emozioni che provò a quel contatto furono
davvero troppo intense per poterle decodificare e capire. Tant’è che a lui
proprio non importava decodificarle e capirle, gli bastava sapere che c’erano. Ancora.
Perché era vivo, vivo! Anche se una parte di sé, lo sapeva,
l’aveva persa per sempre assieme a tutti quei compagni, a quei fratelli…
Si separò da lei con il cuore in gola e il respiro corto, ma non
ce la fece ad allontanarsi troppo dal suo profumo perciò si poggiò con la
fronte su quella di lei.
“Ginny”, la chiamò, di nuovo. “Ho visto Teddy. L’ho preso in
braccio e l’ho abbracciato. È stato…così… Non è giusto, Ginny”
Lei sospirò, scuotendo il capo, appena.
“No, Harry, non lo è. Non lo è mai stato”
Lui lo sapeva che si stava riferendo alla guerra, a tutte le
perdite che avevano subito, al fratello, a Remus, a Ninfadora, a Sirius, a
Silente, a James, a Lily, a Severus, a Ted, e ancora, e ancora… Ma più di
tutti, lui lo sapeva, Ginny si stava riferendo a quel bambino che adesso
nell’altra stanza dormiva tranquillamente, senza sapere che la guerra si era
portata via tutto e tutti, senza risparmiare nessuno. Nemmeno i suoi genitori,
nemmeno lui che adesso era solo.
No, non solo. Non più.
“Ginny, voglio prendermi cura di lui. Voglio essere presente in
ogni istante della sua vita, voglio accompagnarlo ad Hogwarts il primo giorno e
per tutti gli altri anni, voglio portarlo a vedere le partite di Quidditch e
ricordare con lui tutte le persone che sono scomparse. Voglio che si ricordi
dei suoi genitori, del loro gesto. E voglio che non si senta mai solo, mai,
perché non lo è”
Lei sorrise, con quel sorriso tanto simile a quello di Ron.
“Sarai un ottimo padrino, Harry. Ne sono sicura”
Lui gli sorrise, poi, prendendole la mano, si avviò con lei
verso le scale. Sotto nel soggiorno c’era ancora la figura di Andromeda,
invecchiata forse di cento anni in quell’unica settimana, ma bellissima lo
stesso come quando l’aveva vista la prima volta. Harry le sorrise, appena, e
lei capì che come per lei, Teddy era stata la cura anche per lui.
Poi lui la ringraziò, senza alcuna ragione apparente, ma
Andromeda afferrò lo stesso il senso di quel gesto e per questo non poté che
ammirarlo.
Aveva perso tanto e Harry aveva perso forse persino di più, ma
insieme al suo Teddy (ne era certa) sarebbero stati in grado di andare avanti,
anche se era tremendamente difficile.
Lui era la loro cura e loro non avrebbero mai permesso a nessuno
di fare del male a quel bambino un po’ paffutello che dormiva ad un piano sopra
di loro.
Né ora, né mai.
Era tutto ciò che Remus e Ninfadora avrebbero sempre voluto per
lui, adesso Andromeda lo sapeva, quando avevano deciso di andare lo stesso a
combattere per una causa che era la stessa di tutti loro.
Dopotutto, non l’avevano lasciato solo.
Prima di andare via si erano preoccupati, con un amore talmente
radicato da far venire i brividi, che il loro piccolo Teddy avesse sempre avuto
accanto chi sapevano si sarebbe preso cura di lui senza remore.
La nonna e il padrino.
Andromeda e Harry.
[Disclaimer: Harry Potter e i suoi
personaggi non mi appartengono ma sono © copyright del rispettivo autore e
della casa. Non vengono ivi da me utilizzati a scopo di lucro ma per puro
diletto. La canzone riportata è “Brothers in arms” di proprietà dei Dire Straits.]