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Autore: memi    30/01/2008    5 recensioni
"E adesso era lì, ad affrontare tutto ciò per cui era scappato e da cui si era con ostinazione tenuto lontano. Era stato un vigliacco, un codardo, non meritava di essere il padrino di quella creatura e avrebbe tanto voluto poter riavere indietro Remus per dirglielo. Ma il punto era proprio quello, no?
Non torneranno. Non torneranno più."
Missing moment da collocarsi tra la fine dell'ultimo capitolo e l'epilogo di DH. Uno sguardo sul primo incontro tra Harry e il suo figlioccio, Teddy Lupin.
Genere: Triste, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Andromeda Tonks, Harry Potter | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Goodbye, goodbye

 

 

[Ringrazio Sae, senza il cui supporto non so se avrei mai pubblicato questa one-shot. E, ovviamente, quanti di voi leggeranno.]

 

 

“Harry… Vuoi che venga con te?”

 

La sua voce gli sembrò così lontana che se non le avesse tenuto la mano, avrebbe persino dimenticato di averla con lui. Gli sembrava di aver vissuto in un sogno per tutto quel momento, fino ad allora.

 

Una settimana.

 

Una lunga, eterna settimana a fissare con sguardo vacuo il tempo scorrere via senza avere la forza di prenderlo, di acciuffarlo. E aveva pianto? Non se lo ricordava. Il suo cuore era così vuoto, così scarno di emozioni da risultargli addirittura assurdo credere che un tempo, nemmeno tanto lontano, avesse davvero battuto.

Come aveva fatto?

 

Harry avrebbe voluto ricordarsene (avrebbe voluto davvero) mentre si attardava dietro quella porta marrone. La mano stretta sopra la maniglia, ma senza forza. Pareva un automa.

 

“Harry?”

 

E di nuovo la sua voce, così calda, così dolce che a sentirla gli si scioglieva qualcosa, proprio in quel petto freddato. Non era un controsenso?!

D’altronde, tutta la loro storia lo era. Lo era sempre stata.

Si era innamorato di lei quando ormai lei stava con un altro, senza nemmeno sapere della totalità dei pensieri devoti a lui soltanto. L’aveva baciata, poi, incurante del resto del mondo ed era stato bizzarro scoprire, mentre saggiava le sue belle labbra lampone, come fosse diventata lei il mondo, per lui. L’aveva lasciata per non metterla in pericolo, ed ironia della sorte lo era stata di più dopo che non durante.

E anche adesso, lei era di nuovo lì, al suo fianco, nonostante lui l’avesse allontanata un po’ per paura e un po’ per necessità.

 

Le strinse la mano, come faceva da una settimana a quella parte.

Dopo averla ritrovata (talmente perfetta nel collimare con la sua), non aveva più intenzione di lasciargliela andare. Era il suo contatto con la realtà, la sua forza, l’unica aria di cui avesse davvero bisogno per ricordargli di essere ancora vivo.

 

Eppure, per quanto non chiedesse altro di poterla avere vicino, sapeva che quella cosa toccava a lui. A lui soltanto. Nessun altro.

Scosse il capo.

“No, Ginny”, le disse, sorridendole con quel sorriso un po’ spento che aveva imparato ad esibire. “Devo farlo io”

 

Lei lo guardò, come a voler dire “lo so, l’ho sempre saputo” e lui l’amò ancora di più. Per ogni istante, ogni parola, ogni silenzio, sapeva di amarla un pochino di più. Chissà dove sarebbe andato a riversarsi tutto quell’amore…

 

Le accarezzò la guancia, morbida come la ricordava, e Ginny chiuse gli occhi a volersi perdere in quel contatto. Ma li riaprì subito dopo, più decisi di prima nel puntarli in quelli verdi di lui.

 

“Harry. Io non mi muovo di qui”

 

Lui sorrise e, con un groppo alla gola, le lasciò la mano. Fu un po’ come se anche l’ultimo brandello di vita morisse, lasciandolo in una landa deserta, e desolata, e fredda, terribilmente fredda.

Sapeva che se fosse rimasto ancora lì, non avrebbe più avuto la forza di voltarsi e varcare quella porta che lo sfidava con il suo silenzio, perciò senza ulteriori indugi agguantò la maniglia e spinse.

 

***

 

Le persiane chiuse avevano lasciato la stanza in penombra, in un silenzio che ad Harry parve quasi assordante. Si era richiuso la porta alle spalle (forse per respingere la voglia di scappare) e il buio si era fatto ancora più intenso costringendolo a fermarsi per cercare di abituare gli occhi al nuovo cambiamento.

Il cuore batteva piano, lento, quasi spento e lui si chiese se per caso non fosse morto.

 

Ma poi la vide la culla adagiata poco più in là, e il balzo nel petto gli aprì gli occhi.

Avanzò quasi d’istinto, stupendosi quasi di riscoprire tutta quella forza. Le gambe tremavano, un po’, ma non accennarono ad abbandonarlo per quanto breve potesse essere il tragitto dalla porta alla culla.

Harry si fermò solo quando non toccò con il corpo le sbarre di ferro, incantato dal fagotto di coperte contenuto al suo interno.

Azzurre.

Azzurre come gli occhi di Ron, come il cielo più terso, come il mare più limpido.

E al centro, ricamate con punti stretti e precisi, tre piccole lettere.

 

T. R. L.

 

Teddy Remus Lupin.

 

Il cuore si stringe, il pugno affonda nello stomaco e il respiro si mozza nel petto.

 

Harry aveva solo voglia di correre via, di scappare da quell’aria pesante, eppure allo stesso tempo non riesce a muoversi di un millimetro dalla posizione rigida assunta. Quasi gli avessero inferto un Pietrificus.

E sapeva, lo sapeva da tutta la settimana, che non avrebbe potuto evitare quel confronto, che avrebbe dovuto farlo, che avrebbe dovuto scoprire quelle coperte e guardare il viso che custodivano.

 

Anche se lo aveva già visto per foto.

 

Allungò una mano, accorgendosi a tremare, e con una velocità che credeva di aver perso tirò via la coperta azzurra (troppo, troppo azzurra. Gli feriva gli occhi).

Aveva le guance rosee, lo stesso viso a cuore della madre, i capelli di un viola spento proprio come la prima volta che l’aveva conosciuta.

Harry lo ricordava ancora perfettamente quel momento e forse, proprio per questo, aveva nella maniera più disperata tentato di evitare quel momento.

 

Avrebbe voluto accarezzargli la manina stretta a pugno, ma ha quasi paura di quel contatto. Ed era sciocco, sul serio. Che male avrebbe mai potuto fargli quel frugoletto?

Ma Harry lo sapeva che non era lui di per sé a ferirlo, quanto i ricordi in grado di suscitare nella sua mente intorpidita dagli eventi.

Si era chiuso nel suo mondo, aveva osservato quell’interminabile settimana di sofferenza e gioia repressa da muto osservatore, stupendosi di non riuscire più a provare emozioni per niente che non fosse, forse, per Ginny.

E adesso era lì, ad affrontare tutto ciò per cui era scappato e da cui si era con ostinazione tenuto lontano. Era stato un vigliacco, un codardo, non meritava di essere il padrino di quella creatura e avrebbe tanto voluto poter riavere indietro Remus per dirglielo. Ma il punto era proprio quello, no?

 

Non torneranno. Non torneranno più.

 

Quasi non si era reso conto di aver iniziato a piangere se non avesse visto, con gli occhi annebbiati, quelle stille allargarsi sulla coperta azzurra.

Si portò una mano sul viso, sulla guancia, sentendola particolarmente umida. Sì, stava davvero piangendo. Non erano di qualcun altro, quelle lacrime erano le sue.

E si stupì Harry, perché proprio non pensava di esserne ancora in grado.

“Nh”

Abbassò il capo e il cuore batté un po’ più forte nell’incrociare due familiari occhi marroni.

Troppo familiari per resistere, per non scoppiare a piangere.

Quelli erano gli occhi di Remus. Erano gli occhi dei Malandrini. Un po’ di Ramoso, un po’ di Felpato, un po’ di Lunastorta e persino un po’ di Codaliscia. O forse era lui che vedeva tutto ciò?!

Anche Severus aveva visto tutte quelle emozioni nei suoi occhi tanto simili a sua madre, a Lily? Probabilmente sì, per questo aveva disperatamente tentato di catturare per sé quell’ultimo sguardo, prima di morire.

Così belli e così dolorosi insieme nel carico di emozioni in grado di trasportarsi dietro… Harry si sentiva un po’ come Severus in quel momento (finalmente riusciva a capirlo). Per quanto non desiderasse altro che non doversi più confrontare con quegli occhi, non riusciva a smettere di specchiare se stesso in quelle iridi castane.

 

“Tadah!”, squittì il bimbetto dalla culla, sorridendo alla sua direzione e allargando le braccia in un abbraccio inconsistente.

 

Harry si chinò e, tra le lacrime, scoprì un sorriso quando lui gli afferrò un dito con la mano. Stringeva forte per essere così piccolo, così indifeso. Gli venne in mente Remus, di nuovo, e la sua forza nell’affrontare le cose. E gli venne in mente Ninfadora (anche se lei odiava essere chiamata così), con la sua tenacia nel combattere le ingiustizie.

C’era un po’ di entrambe in quel bambino. E un po’ di suo padre, e di sua madre, e di Sirius, e di Silente, e di Fred…

Oppure era davvero lui che continuava a vedervi tutti quei volti ormai persi…

 

 

These mist covered mountains [Queste montagne coperte da nebbia]
Are a home now for me [
Ora sono una casa per me]
But my home is the lowlands
[Ma la mia casa è la pianura]
And always will be
[E lo sarà sempre]
Someday you'll return to
[A volte tornerete]
Your valleys and your farms
[Nelle vostre valli e nelle vostre fattorie]
And you'll no longer burn
[E non brucerete più]
To be brothers in arm
[Per essere compagni d’armi]

Through these fields of destruction
[Attraverso questi campi di distruzione]
Baptism of fire
[Battesimo del fuoco]
I've watched all your suffering
[Ho guardato tutta la vostra sofferenza]
As the battles raged higher
[Quando le battaglie infuriavano davvero]
And though they did hurt me so bad
[E anche se mi hanno fatto così male]
In the fear and alarm
[Nella paura e nell’agitazione]
You did not desert me
[Non mi avete mai abbandonato]
My brothers in arms
[Oh, miei compagni!]

There's so many different worlds
[Ci sono tanti modi differenti]
So many different suns
[Tanti soli differenti]
And we have just one world
[E viviamo in mondi diversi]
But we live in different ones
[Anche se ne abbiamo soltanto uno]

Now the sun's gone to hell
[Ora il sole è andato all’inferno]
And the moon's riding high
[E la luna sta alta nel cielo]
Let me bid you farewell
[Fatemi dire addio a voi]
Every man has to die
[Ogni uomo è destinato a morire]
But it's written in the starlight
[Ed è scritto nelle stele]
And every line on your palm
[E in ogni linea sul tuo palmo]
We're fools to make war
[Siamo davvero matti a far combattere la guerra]
On our brothers in arms
[Ai nostri compagni d’armi!]

 

 

“Ehi, Teddy”

Lo disse piano, quasi avesse avuto paura di ferire le sue povere orecchie utilizzando qualche decibel in più. O magari proprio non possedeva quei decibel di voce da aggiungere.

Gli sembrava così strano essere il padrino di quel bambino così sorridente, così pieno di vita (proprio come Tonks). Lui che non riusciva a ricordarsi come si vive.

Che avrebbe avuto da imparargli? Sarebbe stato in grado di sorreggerlo nei momenti di sconforto? Sarebbe stato un punto di riferimento, o l’avrebbe considerato un altro volto a cui sorridere?

 

Senza neanche accorgersene aveva allungato le mani verso di lui, fino a prelevarlo da quel caldo giaciglio. Era così piccolo, così leggero che gli fece impressione per un istante. Ma poi lo strinse a sé, tra le sue braccia e si lasciò fermo a fissarlo con occhi ancora troppo vuoti.

E lui, impertinente, gli sorrideva allegro, sordo al suo dolore. Semplicemente troppo piccolo per capire la devastazione che si respirava tra quegli oggetti. Neh, avrebbe voluto chiedergli Harry, non senti il vuoto che ci circonda?

Ma come avrebbe potuto? Era davvero troppo piccolo, Teddy.

Anche lui aveva reagito così alla morte dei suoi genitori? Anche lui si era rintanato tra le braccia di Hagrid (o forse di Sirius prima ancora?), ignaro del lutto appena subito?

Allora…

Anche Teddy un giorno si sarebbe specchiato nello Specchio delle Brame e avrebbe rivisto i suoi genitori ancora lì con lui?

 

“È così ingiusto…”

 

E le lacrime scendevano giù, inarrestabili, come non facevano da tempo, come non avevano fatto per tutta quella settimana. La nebbia si diradava, il torpore svaniva a poco a poco, la realtà lo schiacciava con il suo impatto atroce. Tutto ciò che aveva cercato di evitare era ritornato, come per incanto, semplicemente attraverso il sorriso di un bambino.

Del suo figlioccio.

Vedere Teddy significava assimilare tutti i lutti per cui era stato male e tutti quelli per cui non aveva ancora avuto il tempo per metabolizzare. Significava specchiarsi nei suoi occhi e rivederne altri, tutti diversi ma tutti accumunati da quella scintilla che adesso la vedeva brillare in quelle iridi castane. Significava ripercorrere la sua stessa vita, a ritroso nel tempo, fino a ritrovarsi in fasce ad aspettare un abbraccio che non sarebbe mai più arrivato.

Era finito tutto, tutto, tutto. Non c’era più niente.

Non era rimasto più niente.

Chi avrebbe chiamato mamma o papà, adesso, Teddy?!

 

Harry non voleva che fosse stato solo, proprio come lo era stato lui sedici anni prima della sua nascita. Non avrebbe permesso a quel frugoletto di sentirsi spaesato, perso, un giorno. Gli sarebbe stato vicino, lo avrebbe confortato nei momenti di dolore (quando i ricordi troppo poco vividi sarebbero riapparsi), avrebbe sorriso dei suoi successi e pianto per i suoi fallimenti, avrebbe ascoltato i suoi sfoghi, l’avrebbe rialzato sempre dopo una caduta…

Sarebbe stato un buon padrino, sì.

Il migliore che Remus e Tonks avessero mai potuto sognare per il loro figlio.

E ogni giorno, fino alla fine, avrebbe ripetuto lui quanto gli volevano bene i suoi genitori, quanto erano speciali e quanto grande era stata l’impresa che avevano affrontato per lui. Soltanto per lui.

 

Non avrebbe mai, mai permesso che Teddy si sarebbe sentito solo, un giorno.

 

Mai.

 

Lo strinse a sé, un po’ più forte, e come non faceva da giorni il suo cuore ritornò a bruciare, e anche se faceva male adesso almeno era vivo.

E pianse, lasciando ai suoi occhi il compito di buttar via tutto quel dolore represso che lo aveva chiuso in quello stato catatonico. E lo abbracciò, perché lui c’era e Teddy doveva saperlo che aveva un padrino che si sarebbe preso cura di lui.

 

Sempre.

 

###

 

“Harry!”

Il ragazzo si voltò e come promesso, si ritrovò Ginny di fronte. Non era sorpreso, era solo contento di saperla ancora lì con lui nonostante il vuoto degli ultimi giorni.

 

Prima ancora di accorgersene, spinto solo da una forza di volontà che credeva di aver perduto ma che Teddy gli aveva fatto inconsapevolmente ritrovare, la abbracciò. Proprio come aveva stretto a sé e al suo cuore il giovane Lupin appena pochi istanti prima.

 

“Ginny…”

 

I suoi capelli profumavano di muschio selvatico, lo stesso odore che aveva ormai da tempo associato a lei. Lo respirò a fondo, lasciando che si inoltrasse nei suoi polmoni pigri fino ad avvolgergli il petto come un manto delicato e fresco.

Come aveva fatto a resistere tutto quel tempo alla voglia di abbracciarla?

Non lo sapeva ma ad un tratto si rendeva conto che non gli bastava più. Voleva di più. Aveva bisogno di più.

Si chinò su di lei e, stupendola, la baciò su quelle sue belle labbra. Dio, come gli erano mancate quelle labbra…

E tutta la marea di emozioni che provò a quel contatto furono davvero troppo intense per poterle decodificare e capire. Tant’è che a lui proprio non importava decodificarle e capirle, gli bastava sapere che c’erano. Ancora.

Perché era vivo, vivo! Anche se una parte di sé, lo sapeva, l’aveva persa per sempre assieme a tutti quei compagni, a quei fratelli…

 

Si separò da lei con il cuore in gola e il respiro corto, ma non ce la fece ad allontanarsi troppo dal suo profumo perciò si poggiò con la fronte su quella di lei.

“Ginny”, la chiamò, di nuovo. “Ho visto Teddy. L’ho preso in braccio e l’ho abbracciato. È stato…così… Non è giusto, Ginny”

Lei sospirò, scuotendo il capo, appena.

 

“No, Harry, non lo è. Non lo è mai stato”

 

Lui lo sapeva che si stava riferendo alla guerra, a tutte le perdite che avevano subito, al fratello, a Remus, a Ninfadora, a Sirius, a Silente, a James, a Lily, a Severus, a Ted, e ancora, e ancora… Ma più di tutti, lui lo sapeva, Ginny si stava riferendo a quel bambino che adesso nell’altra stanza dormiva tranquillamente, senza sapere che la guerra si era portata via tutto e tutti, senza risparmiare nessuno. Nemmeno i suoi genitori, nemmeno lui che adesso era solo.

No, non solo. Non più.

 

“Ginny, voglio prendermi cura di lui. Voglio essere presente in ogni istante della sua vita, voglio accompagnarlo ad Hogwarts il primo giorno e per tutti gli altri anni, voglio portarlo a vedere le partite di Quidditch e ricordare con lui tutte le persone che sono scomparse. Voglio che si ricordi dei suoi genitori, del loro gesto. E voglio che non si senta mai solo, mai, perché non lo è”

 

Lei sorrise, con quel sorriso tanto simile a quello di Ron.

 

“Sarai un ottimo padrino, Harry. Ne sono sicura”

 

Lui gli sorrise, poi, prendendole la mano, si avviò con lei verso le scale. Sotto nel soggiorno c’era ancora la figura di Andromeda, invecchiata forse di cento anni in quell’unica settimana, ma bellissima lo stesso come quando l’aveva vista la prima volta. Harry le sorrise, appena, e lei capì che come per lei, Teddy era stata la cura anche per lui.

Poi lui la ringraziò, senza alcuna ragione apparente, ma Andromeda afferrò lo stesso il senso di quel gesto e per questo non poté che ammirarlo.

Aveva perso tanto e Harry aveva perso forse persino di più, ma insieme al suo Teddy (ne era certa) sarebbero stati in grado di andare avanti, anche se era tremendamente difficile.

Lui era la loro cura e loro non avrebbero mai permesso a nessuno di fare del male a quel bambino un po’ paffutello che dormiva ad un piano sopra di loro.

Né ora, né mai.

Era tutto ciò che Remus e Ninfadora avrebbero sempre voluto per lui, adesso Andromeda lo sapeva, quando avevano deciso di andare lo stesso a combattere per una causa che era la stessa di tutti loro.

 

Dopotutto, non l’avevano lasciato solo.

Prima di andare via si erano preoccupati, con un amore talmente radicato da far venire i brividi, che il loro piccolo Teddy avesse sempre avuto accanto chi sapevano si sarebbe preso cura di lui senza remore.

La nonna e il padrino.

Andromeda e Harry.

 

 

 

 

 

[Disclaimer: Harry Potter e i suoi personaggi non mi appartengono ma sono © copyright del rispettivo autore e della casa. Non vengono ivi da me utilizzati a scopo di lucro ma per puro diletto. La canzone riportata è “Brothers in arms” di proprietà dei Dire Straits.]

  
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