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Autore: KeyLimner    21/07/2013    2 recensioni
Una chiesa (sconsacrata, ma fa lo stesso), un ex-prete, e un abito bianco: gli ingredienti per il più tradizionale dei matrimoni ci sono tutti. Ma non tutto è come sembra... e un colpo di scena finale lo dimostrerà. Siete pronti a lasciar cadere i vostri preconcetti?
Genere: Erotico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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«E adesso può baciare la sposa».
Era ora. È incredibile quanto tempo ci voglia… anche in una cerimonia civile.
Era stata lei a volere che il ministro pronunciasse la celebre frase. Io l’avevo sempre ritenuta terribilmente stupida. “Non ho certo bisogno della licenza di qualcuno per baciarti”. Ma lei aveva insistito: c’era qualcosa di magico, diceva, nella trepida attesa dell’istante in cui, prima di procedere con la firma delle scartoffie del caso, il ministro ci avrebbe concesso di suggellare la nostra unione con un bacio. Io alla fine avevo ceduto… come su tutto il resto.
In fondo, era stata lei a organizzare ogni cosa. Le avevo lasciato carta bianca, sapendo quanto ci tenesse a rendere quell’evento indimenticabile. Era stata lei a volere che a sposarci fosse quel suo amico… non ricordo più il suo nome… Paolo… Pablo… perché da giovane aveva preso i voti, ma aveva abbandonato l’abito per sposare una bella ragazza che andava sempre a confessarsi da lui. Aveva voluto rendere la cerimonia più tradizionale possibile, compresi la sciocca attesa e gli stancanti convenevoli, che avevo creduto di potermi risparmiare. Anche i tripudi di fiori bianchi lungo le navate li aveva scelti lei. Avete capito bene, navate. Quando il funzionario del Comune ci aveva detto che avremmo potuto celebrare il rito in una chiesa sconsacrata, avevo visto i suoi occhi illuminarsi. Non che bruciassi dalla voglia di sposarmi in chiesa… non ho neanche il battesimo… ma nel vederla così eccitata avevo dato il mio assenso senza troppe storie. L’edificio era piccolo, senza imponenti statue o maestose vetrate, ma accogliente: la tipica chiesetta di campagna, immersa in un prato verde in cima a una collinetta. Era stato amore a prima vista.
Mi avvicinai, traboccante di emozione, per scostarle il velo. Ci misi un po’ a trafficare con l’ingombrante massa di tessuto trasparente, ma quando scoprii finalmente il suo sorriso commosso, i dolci occhi color cioccolato lucidi per l’emozione e le guance arrossate, sentii di colpo che aveva ragione lei: era valsa la pena attendere tanto a lungo solo per assaporare la magia di quel momento. Mi accostai al suo volto con una lentezza sorprendente - vista la mia proverbiale impazienza -, e con altrettanta lentezza chiusi gli occhi e piegai la testa per incontrare le sue labbra. Fu un bacio casto, ma intenso. Alle nostre spalle, partì uno scroscio di applausi.
Quando iniziammo a risalire la navata, una marea di gente ci assalì, costringendoci a separarci. In testa, naturalmente, mia madre, gli occhi gonfi di pianto e il lembo di un fazzolettino usato che fuoriusciva dalla borsetta. Nell’istante in cui uscimmo, ci sommerse una valanga di riso. Sentii i chicchi insinuarsi ovunque e pungermi la pelle.
Al ricevimento - in una saletta sobria, con pareti color panna e tavoli rotondi coperti da tovaglie dello stesso colore - non avemmo un attimo di tregua. Le persone da salutare e ringraziare sembravano non finire mai. A un certo punto mi dolevano le guance a forza di sorridere. Al tavolo a noi riservato non sedemmo che per una manciata di minuti, e non ricordo di aver toccato nessuna delle appetitose vivande che ci servirono, a parte una fetta minuscola di torta nuziale e una forchettata del riso Venere in salsa di granchio che mio padre aveva tanto decantato. Vidi Rachele sì e no tre volte, di sfuggita. Quando cominciarono a suonare dei lenti, ci ritrovammo al centro della pista: le nostre braccia si avvinghiarono strette, come a non volersi lasciare andare… poi altre persone giunsero a rubarmela.
Dopo che anche l’ultimo invitato fu sparito sul suo lucido macchinone nero, potemmo finalmente montare sul taxi che il padre di Rachele aveva fatto chiamare per portarci in albergo. La camera era già prenotata. Scendemmo dall’auto e attraversammo la hall rivolgendo un cenno di saluto al portiere, che rispose con un sorrisetto. Ai piedi della scalinata, Rachele si voltò verso di me e mi guardò in modo eloquente.
«Che c’è?».
«Non mi porti su in braccio?».
Rimasi di sasso. La osservai per capire se mi stesse prendendo in giro.
Faceva sul serio.
«Stai scherzando», ridacchiai.
«Niente affatto. È la regola».
Smisi di sghignazzare e un lampo di malizia mi attraversò gli occhi. Le cinsi la vita con un braccio, circondandole con l’altro le ginocchia per tirarla su. Subito l’articolazione della spalla scricchiolò in modo sinistro, ma strinsi i denti. Tutti nell’ingresso ci fissavano divertiti. Qualcuno azzardò un applauso quando accennai a muovermi verso la scalinata. La prima rampa andò tutto sommato bene, dopodiché, sentendo i muscoli che cominciavano a bruciare, mi chiesi quanto ancora avrei dovuto salire. Avevo dimenticato di chiedere il piano. Ma affacciandomi al corridoio per sbirciare i numeri sulle porte, dovetti constatare che mancava ancora un po’.
«L’ascensore non vale, vero?».
Rachele soffocò un risolino.
«Stiamo al terzo piano, se la cosa ti può consolare».
Ed ecco che… Stanza cinquantatré. Pareva un miraggio. La deposi a terra come un sacco di patate e mi piegai sulle ginocchia per riprendere fiato.
«Però, che eleganza». Si rialzò e prese a lisciarsi il vestito.
«Ringrazia di non essertela fatta di sedere. Ricordati di mangiare un po’ meno la prossima volta».
«Ma se non ho toccato cibo!».
Fui io ad aprire la porta della stanza. Era graziosa, con pareti dai toni pastello decorate da quadri astratti e mobili dello stesso legno chiaro del parquet. Un gigantesco letto matrimoniale troneggiava al centro della camera.
Ma che…
Scoppiai a ridere. Aveva fatto mettere le candele!
Mi voltai per baciarla senza neanche curarmi di chiudere la porta d’ingresso, ma lei mi bloccò. Fece un cenno verso la mia sinistra.
«Guardaci».
Seguendo la direzione del suo indice, mi ritrovai di fronte al nostro riflesso in un grande specchio verticale. Osservai prima l’immagine di noi due insieme, il gioco armonioso delle nostre mani intrecciate sul mio ventre. Poi mi soffermai su di lei.
Com’era bella…
Era poco più bassa di me: la sua faccia faceva capolino da dietro la mia spalla, attraversata da un sorriso beato che metteva in mostra la sua dentatura bianchissima - perfetta, se si escludeva un leggerissimo spazio fra gli incisivi superiori. Il corpo minuto era interamente fasciato da quel voluminoso abito bianco, tutto sbuffi e svolazzi (aveva voluto essere tradizionalista anche in questo, e aveva insistito affinché non lo vedessi che nel Grande Giorno). Dalle pieghe del velo sgualcito sbocciavano boccoli color miele. Gli occhi, solitamente docili, apparivano incredibilmente provocanti attraverso le ciglia nerissime di mascara.
Certo che il trucco fa miracoli. Alle volte mi pento di non essermi mai avvicinata a questa misteriosa arte, in grado di trasfigurare le persone secondo il proprio capriccio.
Io non sfoggiavo un milligrammo di trucco neanche quel giorno. La mia pelle olivastra appariva naturalmente levigata come al solito, gli occhi scuri sfacciati, con le corte ciglia pulite e le sopracciglia selvatiche. Il mio vestito era molto più essenziale: un lungo tubino blu scuro che mi si apriva ai piedi come una corolla. La scollatura lasciava scoperte le clavicole sporgenti e le spalle ampie e nervose.
Com’eravamo strane, vicine. Lei era il giorno: una montagna di panna montata, con il vestito candido, i riccioli biondi e la pelle di pesca. Io la notte: con i corti capelli color mogano, le orecchie da folletto e l’abito scuro.
Alla fine, ero contenta che mi avesse persuasa a metter su tutta quella pagliacciata. Ero sempre stata scettica verso il matrimonio: solo un’inutile esigenza di ufficializzare un legame già implicito. Ma mi rendevo conto ora di come tutte le moine, la fatica e lo stress non erano stati che un preludio di quell’istante. Tutto sommato, ero contenta che mi avesse fatta salire quasi di peso su quell’aereo per Barcellona… la città che per la prima volta avrebbe riconosciuto la nostra unione, anche se a più di mille chilometri da casa… soltanto per poter accedere a quella piccola bolla al di fuori del mondo.
E questo mi ricordò dove eravamo.
«Be’, abbiamo aspettato anche troppo, direi».
Con una manovra decisa, che nessuno si sarebbe aspettato da una creatura così angelica, mi trasse a sé. Io chiusi la porta con un calcio e la baciai con trasporto. Sentii la sua piccola mano che risaliva verso i miei seni. Il sangue mi ribollì nelle vene, facendomi fremere. La condussi al letto e ce la spinsi sopra con molta poca gentilezza. Poi mi alzai a contemplare quel disordinato ammasso di tessuto bianco.
«È arrivato il momento di scartare questa bomboniera».
  
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