Steso supino
sul letto, a corto di forti emozioni.
Nella mia
stanza aleggia un silenzio freddo, asettico, così denso che
quasi mi
assorda. Il buio avvolge la mia figura ed incombe nella camera; non
riesco a vedere a più di dieci centimetri dal mio naso,
benché
nella mia mente mi sembra di vedere e riconoscere perfettamente i
contorni di ogni mobile, scartoffia, addirittura di ogni macchia di
umido sulle pareti e sul soffitto. Sospiro, mentre sento l'orologio
ticchettare nervosamente sul comodino. Sorrido maliziosamente, senza
neanche rendermene conto, mentre i miei occhi, incapaci a mentire,
tradiscono l' aria di finta e forte sicurezza che vorrei darmi,
assumendo un'espressione triste e rabbuiata. Continuo comunque a
sorridere, al pensiero che un orologio possa davvero essere nervoso,
quasi fosse un essere umano, quasi avesse visto ogni notte quel che
succede qui, quasi avesse mai avvertito dolore e spavento, quasi mi
guardasse a sua volta per essere rassicurato. Quasi mi chiedesse
flebilmente, sottovoce, angosciato: “lui...
è già qui?
Verrà anche stanotte?” Accarezzo la sveglia, quasi
avesse davvero
bisogno del mio conforto: “Non lo so, ma spero di no. Tu
continua
pure a respirare calmo”. L'orologio sembra allora
acquietarsi, e
ticchettare leggermente più debolmente, mentre capisco di
dover
sembrare davvero un folle, visto dall'esterno, a rassicurare un
orologio. Sorrido ancora, amaramente, sapendo che io non so invece se
potrò continuare a respirare anche domani mattina. Mi
soffermo su
quest'ultima riflessione: respirare, espirazione ed inspirazione, i
muscoli che si contraggono, la cassa toracica che si estende e
restringe, i polmoni che lavorano al ritmo di tutto l'intero
processo. Sembra così facile, respirare. Così
normale, necessario,
nemmeno ci accorgiamo di farlo, è forse l'unica cosa che
sappiamo
fare da soli da quando siamo nati, l'unica cosa della nostra
esistenza che mai nessuno ha dovuto insegnarci a fare, l'unica cosa
grazie alla quale esistiamo, effettivamente. Ed ora a me sembra una
cosa così maledettamente contingente, così non
necessaria né
decisa, né volontaria. Respiriamo perché
è il nostro corpo,
macchina perfetta, a farlo, non decidiamo noi se farlo o meno, o
perlomeno non abbiamo scelta. La nostra vita è legata
unicamente ad
un leggerissimo ed impercettibile alito, che strana cosa. Ci
affanniamo per tutta la vita a rincorrere desideri, aspirazioni,
dolori, piaceri, cercare cose grandi, e non ci rendiamo conto che la
cosa più importante è che continui ad esserci
quel piccolissimo,
leggerissimo, impercettibile soffio, spontaneo, contingente,
primitivo.
Perso in
queste riflessioni, sento il cuore bussare forte, prepotentemente,
nel mio petto, quasi a rimproverarmi della scarsa considerazione che
gli ho concesso riguardo al mio vivere. E va bene,
“amico”: un
soffio e un battito impercettibili. Nulla più. La nostra
esistenza
in questo mondo si racchiude tutto qui, in due concetti così
semplici, spontanei, contingenti. Quanto vorrei averne goduto
più a
lungo, chiudere gli occhi, ascoltare il mio respiro, posare una mano
sul petto, che calmo si alza ed abbassa, e sentire il mio cuore,
così
debole ed indifeso sotto la mia mano, ma così potente da
consentirmi
di vivere ogni giorno che passa; quanto vorrei aver dato prima
più
importanza a queste cose, al semplice spettacolo estasiante del
proprio vivere. Potrei farlo ora, mi dico. Non è mai troppo
tardi
per redimersi, decido tra me e me; alzo una mano e provo a portarla
al petto... mi fermo di botto, immobile, sgomento, la mano a
mezz'aria tra il buio della stanza e la vita del mio corpo.
Ecco.
Sento la
stanza raggelarsi ancora di più. D'un tratto tutto tace,
anche
l'orologio. Il silenzio tace e smette di assordarmi, il cuore perde
un battito, quasi fosse un corridore inciampato per lo stupore di
aver visto qualcosa, il respiro si affanna, quasi a voler riscattare
tutti gli anni in cui, sordo, non gli ho dato ascolto.
Eccolo. Lui
è qui.
È tornato
come ogni notte, e come c'era da aspettarsi. È venuto a
farmi visita
un mese fa, mentre stavo imprecando contro l'ingiustizia della vita a
causa di stupide questioni di lavoro e di cuori infranti. Quanto mi
pento di averlo fatto. Ogni notte entra nella stanza, non so da dove
arrivi, non so da dove entri, né da dove esca, a malapena so
cosa
voglia da me. Ma conosco bene il suo nome. Ed ancora meglio
ciò che
viene a fare qui, ogni notte. Resta sospeso quasi a mezz'aria al
bordo del mio letto, a fissarmi, senza fretta alcuna. Sento il suo
alito freddo fin dentro le viscere, e il mio corpo tutto
s'irrigidisce, immobile, ubbidiente al comando implicito che sembra
suggerirmi lui posizionandosi
ogni notte davanti a me, con gli occhi rossi fissi sul mio volto, le
lunghe dita ossee stringenti uno strano arnese, molto lungo e, pare,
estremamente affilato. Resta lì, mi fissa, senza muoversi, e
sembra
volermi suggerire di fare lo stesso, affinché possa cibarsi
come
ogni notte di “me”. Mi sento svuotare dentro, in un
posto
indefinito nel profondo del mio corpo: apre la bocca, e sento
qualcosa uscirmi dall'interno, qualcosa che non ho mai saputo
definire ma che sento così dannatamente mio e necessario.
Ogni volta
che finisce, cado in un sonno profondo, senza sogni, quasi la mia
vita si fosse interrotta per il periodo di mille anni, e quando mi
risveglio mi sento profondamente cambiato, svuotato, a corto di forti
emozioni.
Steso
supino, sul letto, nel buio, nel gelo, nel silenzio, il suo sguardo
fisso su di me; stasera per la prima volta mi sembra di capire: lui
si ciba della
mia anima.
Questa
sera è diverso: mi guarda, mi sorride, maligno. Apre la
bocca e
resto inorridito: una voce orrenda e straziante esce dalla sua bocca;
sulle prime non riesco a capire cosa mi stia dicendo, mi sembra di
sentire solo lo
strazio e il dolore dell'inferno intero. E forse è proprio
da lì
che lui proviene.
Scandisce
le parole, una seconda volta.
Non
riesco a capire ancora nulla, e lui
lo sa, perché possiede le anime di tutti gli uomini, e le
conosce
molto a fondo.
Si
spazientisce. E allora urla, con una voce stridente e acuta;
diabolica.
All'improvviso,
ogni sua parola mi sembra così maledettamente ed
orrendamente
chiara.
Mi
tappo le orecchie. No. Non voglio sentire. Non ancora. Non stasera.
Non ora. Mai.
Non
voglio sentire quelle parole. Non quelle.
Urlo
a mia volta, cercando di soffocare le orecchie in un cuscino, ma la
frase dello spettro della morte rimbomba nella mia mente, insistente,
cattiva: “stanotte finirò il mio lavoro”.
Posa
un'ossea mano sul mio petto. Sta per finire, tutto, ogni singola cosa
di quell'immenso piacere doloroso che si può definire vita.
Sento
l'ultimo pezzo della mia anima staccarsi.
Ecco
l'ultima, viva, grande ed estenuante sensazione che potrò
mai
provare. Dolore ed orrore.
Urlo.
Mi
guardo dall'esterno. Il mio corpo si accascia sul letto, inerme.
L'orologio sembra sporgersi verso di esso, preoccupato, ad
assicurarsi che io stia bene.
Ora
dovrò seguirlo. La
mia anima ora gli appartiene.
Non
sento niente. Non pena, non disperazione, non afflizione, non paura,
non consolazione, non sadico piacere, nulla.
Mi
permetto un ultimo, vuoto sorriso; è così,
dunque, che finisce ogni
cosa:
a
corto di emozioni.