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Autore: Claudia Poe    21/07/2013    1 recensioni
È così che tutto finisce, credo: a corto di emozioni.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Steso supino sul letto, a corto di forti emozioni.
Nella mia stanza aleggia un silenzio freddo, asettico, così denso che quasi mi assorda. Il buio avvolge la mia figura ed incombe nella camera; non riesco a vedere a più di dieci centimetri dal mio naso, benché nella mia mente mi sembra di vedere e riconoscere perfettamente i contorni di ogni mobile, scartoffia, addirittura di ogni macchia di umido sulle pareti e sul soffitto. Sospiro, mentre sento l'orologio ticchettare nervosamente sul comodino. Sorrido maliziosamente, senza neanche rendermene conto, mentre i miei occhi, incapaci a mentire, tradiscono l' aria di finta e forte sicurezza che vorrei darmi, assumendo un'espressione triste e rabbuiata. Continuo comunque a sorridere, al pensiero che un orologio possa davvero essere nervoso, quasi fosse un essere umano, quasi avesse visto ogni notte quel che succede qui, quasi avesse mai avvertito dolore e spavento, quasi mi guardasse a sua volta per essere rassicurato. Quasi mi chiedesse flebilmente, sottovoce, angosciato: “lui... è già qui? Verrà anche stanotte?” Accarezzo la sveglia, quasi avesse davvero bisogno del mio conforto: “Non lo so, ma spero di no. Tu continua pure a respirare calmo”. L'orologio sembra allora acquietarsi, e ticchettare leggermente più debolmente, mentre capisco di dover sembrare davvero un folle, visto dall'esterno, a rassicurare un orologio. Sorrido ancora, amaramente, sapendo che io non so invece se potrò continuare a respirare anche domani mattina. Mi soffermo su quest'ultima riflessione: respirare, espirazione ed inspirazione, i muscoli che si contraggono, la cassa toracica che si estende e restringe, i polmoni che lavorano al ritmo di tutto l'intero processo. Sembra così facile, respirare. Così normale, necessario, nemmeno ci accorgiamo di farlo, è forse l'unica cosa che sappiamo fare da soli da quando siamo nati, l'unica cosa della nostra esistenza che mai nessuno ha dovuto insegnarci a fare, l'unica cosa grazie alla quale esistiamo, effettivamente. Ed ora a me sembra una cosa così maledettamente contingente, così non necessaria né decisa, né volontaria. Respiriamo perché è il nostro corpo, macchina perfetta, a farlo, non decidiamo noi se farlo o meno, o perlomeno non abbiamo scelta. La nostra vita è legata unicamente ad un leggerissimo ed impercettibile alito, che strana cosa. Ci affanniamo per tutta la vita a rincorrere desideri, aspirazioni, dolori, piaceri, cercare cose grandi, e non ci rendiamo conto che la cosa più importante è che continui ad esserci quel piccolissimo, leggerissimo, impercettibile soffio, spontaneo, contingente, primitivo.
Perso in queste riflessioni, sento il cuore bussare forte, prepotentemente, nel mio petto, quasi a rimproverarmi della scarsa considerazione che gli ho concesso riguardo al mio vivere. E va bene, “amico”: un soffio e un battito impercettibili. Nulla più. La nostra esistenza in questo mondo si racchiude tutto qui, in due concetti così semplici, spontanei, contingenti. Quanto vorrei averne goduto più a lungo, chiudere gli occhi, ascoltare il mio respiro, posare una mano sul petto, che calmo si alza ed abbassa, e sentire il mio cuore, così debole ed indifeso sotto la mia mano, ma così potente da consentirmi di vivere ogni giorno che passa; quanto vorrei aver dato prima più importanza a queste cose, al semplice spettacolo estasiante del proprio vivere. Potrei farlo ora, mi dico. Non è mai troppo tardi per redimersi, decido tra me e me; alzo una mano e provo a portarla al petto... mi fermo di botto, immobile, sgomento, la mano a mezz'aria tra il buio della stanza e la vita del mio corpo.
Ecco.
Sento la stanza raggelarsi ancora di più. D'un tratto tutto tace, anche l'orologio. Il silenzio tace e smette di assordarmi, il cuore perde un battito, quasi fosse un corridore inciampato per lo stupore di aver visto qualcosa, il respiro si affanna, quasi a voler riscattare tutti gli anni in cui, sordo, non gli ho dato ascolto.
Eccolo. Lui è qui.
È tornato come ogni notte, e come c'era da aspettarsi. È venuto a farmi visita un mese fa, mentre stavo imprecando contro l'ingiustizia della vita a causa di stupide questioni di lavoro e di cuori infranti. Quanto mi pento di averlo fatto. Ogni notte entra nella stanza, non so da dove arrivi, non so da dove entri, né da dove esca, a malapena so cosa voglia da me. Ma conosco bene il suo nome. Ed ancora meglio ciò che viene a fare qui, ogni notte. Resta sospeso quasi a mezz'aria al bordo del mio letto, a fissarmi, senza fretta alcuna. Sento il suo alito freddo fin dentro le viscere, e il mio corpo tutto s'irrigidisce, immobile, ubbidiente al comando implicito che sembra suggerirmi lui posizionandosi ogni notte davanti a me, con gli occhi rossi fissi sul mio volto, le lunghe dita ossee stringenti uno strano arnese, molto lungo e, pare, estremamente affilato. Resta lì, mi fissa, senza muoversi, e sembra volermi suggerire di fare lo stesso, affinché possa cibarsi come ogni notte di “me”. Mi sento svuotare dentro, in un posto indefinito nel profondo del mio corpo: apre la bocca, e sento qualcosa uscirmi dall'interno, qualcosa che non ho mai saputo definire ma che sento così dannatamente mio e necessario. Ogni volta che finisce, cado in un sonno profondo, senza sogni, quasi la mia vita si fosse interrotta per il periodo di mille anni, e quando mi risveglio mi sento profondamente cambiato, svuotato, a corto di forti emozioni.
Steso supino, sul letto, nel buio, nel gelo, nel silenzio, il suo sguardo fisso su di me; stasera per la prima volta mi sembra di capire:
lui si ciba della mia anima.
Questa sera è diverso: mi guarda, mi sorride, maligno. Apre la bocca e resto inorridito: una voce orrenda e straziante esce dalla sua bocca; sulle prime non riesco a capire cosa mi stia dicendo, mi sembra di sentire
solo lo strazio e il dolore dell'inferno intero. E forse è proprio da lì che lui proviene.
Scandisce le parole, una seconda volta.
Non riesco a capire ancora nulla, e
lui lo sa, perché possiede le anime di tutti gli uomini, e le conosce molto a fondo.
Si spazientisce. E allora urla, con una voce stridente e acuta; diabolica.
All'improvviso, ogni sua parola mi sembra così maledettamente ed orrendamente chiara.
Mi tappo le orecchie. No. Non voglio sentire. Non ancora. Non stasera. Non ora. Mai.
Non voglio sentire quelle parole. Non quelle.
Urlo a mia volta, cercando di soffocare le orecchie in un cuscino, ma la frase dello spettro della morte rimbomba nella mia mente, insistente, cattiva: “stanotte finirò il mio lavoro”.
Posa un'ossea mano sul mio petto. Sta per finire, tutto, ogni singola cosa di quell'immenso piacere doloroso che si può definire
vita.
Sento l'ultimo pezzo della mia anima staccarsi.
Ecco l'ultima, viva, grande ed estenuante sensazione che potrò mai provare. Dolore ed orrore.
Urlo.


Mi guardo dall'esterno. Il mio corpo si accascia sul letto, inerme. L'orologio sembra sporgersi verso di esso, preoccupato, ad assicurarsi che io stia bene.
Ora dovrò seguir
lo. La mia anima ora gli appartiene.
Non sento niente. Non pena, non disperazione, non afflizione, non paura, non consolazione, non sadico piacere, nulla.
Mi permetto un ultimo, vuoto sorriso; è così, dunque, che finisce ogni cosa:
a corto di emozioni.


  
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