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Autore: _Syriana    23/07/2013    2 recensioni
Ci sono giorni in cui ti svegli e senti che tutto andrà per il verso sbagliato. Lo capisci dal primo sguardo fuori dalla finestra, quando vedi il sole oscurato dalle nuvole più nere. Lo capisci quando scendendo le scale scivoli sull’ultimo scalino, rischiando di sbattere l’osso sacro sul freddo legno e ti devi aggrappare alla ringhiera. Lo capisci quando, entrando in cucina scopri che il tuo dolce preferito è finito.
Quelli sono giorni sbagliati. Non c’è fisica, non c’è ragione. Sono solo giorni sbagliati, di quelli che vorresti cancellare dal calendario, oppure saltare a piedi pari con una macchina del tempo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Amelia Bones
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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12 Agosto 1976

-Flowers for Your grave-
 

 

«Mamma, mamma! Ho trovato un libro bellissimo!» urlò una bambina
dai profondi occhi azzurri, correndo verso la madre, nella luminosa cucina della loro casa.
«Di cosa parla, amore mio?» chiese la madre, con un sorriso dolce sulle labbra.
«Del significato dei fiori!» rispose la bambina, entusiasta «Vuoi leggerlo con me?»
«Certo, bambina mia, vediamo…»

 
Ci sono giorni in cui ti svegli e senti che tutto andrà per il verso sbagliato. Lo capisci dal primo sguardo fuori dalla finestra, quando vedi il sole oscurato dalle nuvole più nere. Lo capisci quando scendendo le scale scivoli sull’ultimo scalino, rischiando di sbattere l’osso sacro sul freddo legno e ti devi aggrappare alla ringhiera. Lo capisci quando, entrando in cucina scopri che il tuo dolce preferito è finito.
Quelli sono giorni sbagliati. Non c’è fisica, non c’è ragione. Sono solo giorni sbagliati, di quelli che vorresti cancellare dal calendario, oppure saltare a piedi pari con una macchina del tempo.
Ma non esiste una macchina del tempo, nemmeno nel Mondo della Magia. Quei giorni devi solo viverli, anche se, con il senno di poi, avresti solo voluto rimanere a letto. Sperando che sia domani.
 

«Cosa significa questo?» chiese la bambina, indicando un fiore viola
i cui petali erano leggermente a punta, e il pistillo filiforme.
«Questo, bambina mia, è il Croco. Significa “giovinezza gioiosa”. Proprio come te.»

 

12 Agosto 1976

 
Amelia Susan Bones era una ragazza davvero molto carina. A sedici anni, aveva mossi capelli color caramello, che le incorniciavano un incarnato pallido, su cui risaltavano splendenti due occhi blu come il mare più profondo. Il corpo snello, dalle movenze aggraziate. L’animo fiero come una leonessa, ma anche una malizia incredibilmente marcata. Non era perfetta, chi è perfetto in questo mondo di peccatori?, aveva le sue imperfezioni, come la marcata irrequietezza dell’animo, o la tendenza a infrangere qualsiasi tipo di regola che le venisse imposta. Come spesso ripeteva, a lei le regole piacevano immensamente proprio perché potevano essere infrante. I suoi genitori, ormai, si erano arresi al fatto che la loro bambina, si perché nonostante avesse sedici anni per loro sarebbe rimasta per sempre la loro bambina, fosse una persona incredibilmente ribelle di animo. E mentre sua madre aveva spesso crisi di nervi a causa di qualche colpo di testa che faceva la ragazza, il padre accoglieva sempre con un sorriso sulle labbra quello che faceva la figlia. Ma Amelia sapeva che i suoi genitori, nonostante tutto,  le avrebbero perdonato tutto, sempre. Perché era amore, amore puro, quello che Mr&Mrs Bones provavano per la figlia. “L’amore dei genitori supera ogni altro tipo di amore esistente, Amelia” le diceva sempre sua nonna, e mai la ragazza aveva dubitato di quelle parole.
Era il 12 Agosto 1976 e c’era caldo, nonostante enormi nuvole di pioggia minacciassero il cielo inglese. Non che fosse una cosa strana: difficilmente in Inghilterra potevi godere di più di una settimana di cielo limpido e senza una goccia di pioggia. E da quello che poteva ricordare Amelia, erano almeno nove giorni che non pioveva.
Amelia quel 12 Agosto voleva solo rimanere dentro la sua casetta nel centro di Londra,  un ventilatore puntato sulla faccia e il suo violino in mano, a suonare dolci melodie tutto il giorno.
Aveva imparato a suonare il violino da sua madre: difatti, Mrs Bones aveva una passione per gli strumenti musicali e il violino era sempre stato il suo preferito, passione che aveva trasmesso anche alla figlia minore.
Ma i suoi piani vennero sventati dalla madre che, bella come un fiore mattutino appena sbocciato, entrò nella sua stanza, chiedendo alla figlia di uscire per fare delle commissioni. Amelia, che non aveva mai disobbedito alla madre, anche se controvoglia uscì.
Ma, appena messo il piede fuori di casa, una strana sensazione si impossessò di lei.
Era una giornata sbagliata.
 

«E questo, mammina?» chiese la piccola, indicando con il ditino paffuto un albero stampato  sulla pagina. La madre sorrise, ma fu un sorriso triste «Questo, tesoro, è il l’albero del lutto.
Il cipresso»

 
Amelia Bones amava passeggiare per Diagon Alley, ma non quel giorno. Quella sensazione, quella che qualcosa non andava non voleva lasciarla andare, e ad ogni passo non faceva che aumentare. Le attanagliava lo stomaco, come una mano invisibile che le stringeva le viscere.
Era una giornata sbagliata.
Amelia amava smaterializzarsi nello sgabuzzino della casa, non perché fosse comodo, anzi, ma perché era l’unico luogo della casa che non faceva sentire il fastidioso pop della smaterializzazione. L’aveva scoperto quando, tornata da una festa troppo tardi, sperando di non farsi sentire, si era smaterializzata in quello sgabuzzino. Aveva funzionato, nessuno si era accorto di nulla, e da allora aveva preso l’abitudine di usare quel punto della casa come stanza di arrivo.
Lo fece pure quel giorno.
Una mano sulla bocca, il polso stretto dalla morsa di una mano molto più grande della sua, c’era questo ad aspettare Amelia nello sgabuzzino. La mano di qualcuno amato, una mano preoccupata, ansiosa, spaventata.
Lui non doveva essere lì.
Una donna con i capelli color del cioccolato stava riversa a terra, lo sguardo vacuo e il volto sfigurato da profondi segni rossi sanguinanti.
 La stretta al polso si fece più intensa, quando lei cercò di strattonare via il polso per farsi lasciare.
Un uomo seduto su una sedia, mani e gambe legate, il viso voltato verso la donna. Lacrime di dolore sulle sue guance. Poi occhi azzurri come il cielo estivo, ma bagnati di lacrime amare, che incontravano allo specchio della parete opposta occhi identici, ma più giovani e segnati dall’angoscia.
 “Lasciami andare”. “No”. Una conversazione muta fatta di sguardi,, che solo tra fratelli ci può essere.
Due uomini incappucciati, le braccia sinistre segnate da Marchi indelebili, facevano domande sul resto della famiglia Bones. L’uomo legato alla sedia giurò che non c’era nessun altro dentro la casa.
Lei non doveva essere lì.
Solo quando furono certi che l’uomo non stava mentendo, una luce verde illuminò la stanza. Quegli occhi azzurri che si spegnevano, perdendo quel loro colore familiare e rassicurante.
Un urlo, strozzato da una mano premuta sulla bocca di una ragazza troppo piccola per aver visto la morte. Lacrime troppo dolorose per una ragazza così piccola e minuta.
Gli uomini se ne andarono.
Lei corse fuori, da quello sgabuzzino maledetto, e si inginocchiò a terra. Stavolta, quando urlò, non c’era nessuno a fermarla.
Fuori, un cipresso iniziava a crescere.
 

«E questo, e questo, mamma?» disse la bambina, eccitata, indicando un fiorellino
che sembrava aver perso la maggior parte dei petali.
«Addio, questo significa addio» disse la donna, accarezzando l’immagine del fiore.
 

Amelia odiava i funerali, fin da quando, ad appena sette anni, era stata obbligata dalla prozia più antipatica che la famiglia Bones potesse ricordare, a partecipare al funerale del suo caro marito. Amelia non l’aveva nemmeno mai visto. Da allora, la ragazza evitava di andare a qualsiasi tipo di funzione funebre.
Ma a chi piacciono, realmente, i funerali, se non ai becchini?
Quel giorno, stava seduta all’ombra di un boschetto di cipressi, e fissava con intensità la lapide che aveva davanti a se, ornata dai fiori di amello. Ormai se n’erano andati tutti, da tempo. Le avevano stretto le mani, le avevano detto parole vuote di condoglianze, anche persone che i suoi genitori non avevano nemmeno mai conosciuto. Che non avrebbero mai conosciuto.
Non aveva pianto, Amelia, quel giorno. Aveva pianto fin troppo, con i corpi dei genitori tra le braccia. Non li aveva lasciati andare, nemmeno quando i medici del San Mungo erano andati a prendere i corpi. Non aveva lasciato la mano di suo padre, finchè suo fratello non le aveva passato un braccio attorno alla vita e l’aveva staccata a forza dal padre.
Aveva pianto fin troppo, abbracciata al suo cuscino, nelle notti in cui non era riuscita a dormire, la mente persa in troppi pensieri, ricordi e azioni. Con la mente immersa nel dolore.
Ma non aveva pianto quel giorno, i suoi occhi erano rimasti asciutti. Voleva sembrare forte, perché sapeva che i suoi genitori avrebbero voluto vederla forte, anche in quell’oceano di dolore.
Lei non voleva deludere i suoi genitori.
Fissava la lapide, Amelia, quei nomi fin troppo amati incisi su una pietra, chiedendosi dove fossero in quel momento. Lei non credeva in Dio, ma una parte di lei sperava che fossero in un posto migliore.
Migliore di quell’inferno che era diventato la sua vita.
Quasi non si accorse che Edgar e Micheal, tutto quello che le rimaneva della sua famiglia, si erano seduti vicino a lei, finché non sentì la spalla di Micheal sotto la guancia e la mano di Edgar sul ginocchio. Allora si permise di piangere.
Edgar era tornato a lavoro qualche giorno dopo, tra le proteste dei colleghi, ma lui aveva detto che non riusciva a rimanere a casa. Doveva fare qualcosa.
Micheal era tornato alla sua missione in Australia, non poteva certo compromettere una missione che durava da tre anni.
Lei era rimasta sola, in una casa piena di ricordi, che le toglievano il respiro e la facevano morire un po’ di più ogni giorno.
 

«E’ bellissimo! Mamma, questo cosa vuol dire?» chiese la bambina, guardando incantata un fiore violetta, composto da quelle che sembravano tante campanelle.
La madre sorrise «Questo è per chiedere perdono, tesoro. Il giacinto viola»

 
Era tornata a scuola, Amelia, quel Settembre. I suoi fratelli, in accordo con il preside Silente e il corpo insegnanti, avevano detto alla ragazza che se voleva, avrebbe potuto posticipare il ritorno a scuola di qualche settimana.
Ma Amelia aveva rifiutato, ricordando per quanto i genitori fosse importante la sua istruzione, e quanto ci tenessero che lei uscisse con dei buoni voti da Hogwarts.
Era il suo sesto anno, e per la prima volta le carrozze che l’avrebbero condotta alla Scuola di Magia e Stregoneria non si trainavano da sole. Cavalli neri come la notte, scheletrici, con enormi ali trainavano tutte le carrozze. Thestral, li chiamavano, e potevano essere visti solo da coloro che hanno visto la morte.
La notte, Amelia non riusciva ancora a dormire, perché ogni volta che chiudeva gli occhi riviveva quella scena: sua madre, suo padre, la morte. Quindi passava le ore notturne a guardare fuori dalla finestra, a riconoscere le stelle e le costellazioni che le passavano davanti agli occhi.
A volte le capitava di pensare a cosa sarebbe successo se suo fratello l’avesse lasciata andare, quel giorno. Ovviamente lo sapeva. Sarebbe morta, insieme ai genitori.
Si chiedeva anche spesso se fosse stato meglio morire insieme a loro o vivere senza di loro, senza il loro amore.
Un ragazzo, solo qualche mese dopo, le avrebbe fatto capire che certe domande non devono nemmeno passarti per la mente. Le avrebbe fatto capire che la vita è una cosa preziosa, da conservare come un diamante nonostante le difficoltà e gli ostacoli. Che la vita vale la pena di essere vissuta.
Un ragazzo che –un po’ come lei- doveva ancora imparare a perdonare se stesso, per qualcosa di cui non aveva colpa.
La verità è che Amelia non sapeva se era in grado di perdonare se stessa per quello che era successo, si sentiva colpevole nonostante non avesse colpa.
 

La mamma faceva i biscotti, quando la bambina arrivò con le mani piene di fiori di lampone.
«E il lampone, mamma? Cosa vuol dire il lampone?». La donna non distolse lo sguardo dai dolcetti rotondi. «Rimorso» mormorò.

 
C’erano giorni in cui Amelia spariva da Hogwarts. Per quanto le sue compagne provassero a cercarla, nessuna riusciva mai a trovarla.
Ma era facile, dopotutto, capire se quel giorno Amelia si sarebbe fatta trovare o meno. Sul comodino della ragazza, un bicchiere con i residui di un succo di frutta –al lampone- faceva bella mostra di se.
In realtà, Amelia non andava davvero da nessuna parte, semplicemente camminava per l’immenso parco di Hogwarts, almeno finché i suoi piedi non imploravano pietà. Allora si sedeva all’ombra di un cipresso e leggeva un libro, preferibilmente in latino. Più teneva la mente impegnata –tra le leggende e i miti greci scritti nelle “Metamorfosi” di Ovidio o tra le orazioni di Cicerone- meno pensava a quello che era stato.
A ciò che lei era stata, insieme alla sua famiglia. Ai sorrisi dei suoi genitori, alle vacanze estive a Parigi che avevano programmato. Alle scampagnate con suo padre e Micheal, entrambi così fissati per i boschi. Alle lezioni di violino con la madre, con Edgar che cercava di distrarla.
Ma nemmeno la lettura la distraeva, quando i ricordi decidevano di prenderle la mente e portarla con loro, e in quei momenti nulla riusciva più a riportarla alla realtà.
Quando ripensava a quel giorno, 12 Agosto 1976, un enorme senso di rimorso le attanagliava lo stomaco e le corrodeva la mente. Non riusciva a pensare a nulla, non riusciva a sentire nulla, se non il rimorso.
Avrebbe dovuto imparare a perdonare ed amare se stessa, per ricominciare ad amare gli altri.
 

«Mamma, ti ho portato una cosa!» annunciò felice la bambina, porgendo alla madre un enorme fiore rosa, i cui petali sembravano pezzi di carta pesta colorati.
«E’ bellissimo, bimba mia. Un garofano rosa». La bambina annuì contenta.
«Ho chiesto a papà. Vuol dire “non mi dimenticherò mai di te”»

 
Garofani rosa ornavano la tomba dei coniugi Bones. Una ragazza dai capelli color del caramello guardava quelle pietre fredde, inespressive, che commemoravano due persone fin troppo espressive e che le avevano donato più calore di quanto lei ne avrebbe mai più potuto avere.
Il cappotto nero faceva da contrasto al terreno candido, appesantito dalla neve che era caduta solo quella notte. Era la Vigilia di Natale.
Amelia aveva sempre amato il Natale. Amava lo scambio di regali, i biscotti alla cannella e lo zabaione nel bicchiere. Amava l’albero natalizio, con le sue palline e lucine e amava farlo insieme ai suoi fratelli. Amava appendere sopra la porta d’ingresso il vischio, solo per vedere le persone imbarazzarsi nello scambiarsi il classico bacio. Amava il pranzo di Natale, dove la confusione e le chiacchiere erano d’obbligo.
Ma soprattutto amava il calore famigliare, il fatto di essere tutti riuniti.
Quell’anno, però, non ci sarebbero stati tutti. Sarebbero mancate le due persone più importanti di tutte, e Amelia sentiva un vuoto dentro, che non sarebbe mai riuscita a colmare.
Nemmeno i suoi fratelli, con i loro scherzi e i loro giochi, sarebbero riusciti a toglierle quella tristezza che le incrinava il sorriso.
Ma si era ripromessa, per se stessa, per i suoi genitori, per tutti quelli che tenevano ancora a lei, che avrebbe fatto tutto quello che era nelle sue capacità per essere felice.
Almeno all’apparenza.
 

« Cucciola, mi passeresti il rosmarino?» chiese la madre, intenta a legare un arrosto.
La bambina che le sedeva accanto sbuffò, e allungò una manina a prendere un ramo della piantina
«Il rosmarino, tesoro mio, significa il ricordo» le disse l’adulta, sfiorando con le foglie spinose della piantina il naso della bimba, che scoppiò a ridere.

 
Un uomo sorrideva, abbracciato ad una donna più bassa di lui, in una vecchia foto ingiallita dal tempo, gli angoli rovinati e consumati. Si muoveva, quella foto, mostrando come solo qualche secondo dopo le labbra dei due protagonisti si sfiorassero in un bacio dolce come una torta di panna e zucchero.
Una mano piccola e delicata sfiorò quell’immagine, quasi venerandola con il tocco, con un amore appena trattenuto nel gesto. I genitori di Amelia non avevano mai amato farsi fotografare, e le poche foto che la ragazza conservava di loro erano quelle scattate prima ancora della nascita di suo fratello maggiore Micheal.
Amelia aveva paura di potersi dimenticare dei genitori, e questa era la sua vera paura più grande. Non era andare in guerra, combattere contro i Mangiamorte, morire contro di loro.
La sua paura più grande era dimenticare il profumo della madre quando alla mattina la svegliava con un bacio dolce sulla fronte; di dimenticare il sorriso del padre e la sua leggera carezza sul braccio quando scendeva a fare colazione.
Aveva paura che, con il passare degli anni, la sua memoria avrebbe iniziato a vacillare fino a sfumare quei visi che lei tanto amava.
Per questo, si attaccava a quelle fotografie come se fossero un salvagente nel mezzo dell’oceano. Non voleva dimenticare, non avrebbe mai voluto dimenticare.
In fondo al cuore, sapeva che non avrebbe mai potuto dimenticare.
 

«Mamma…» iniziò la bambina, guardando la madre curiosa e tenendo nella mano un fiore.
La madre guardò la bambina, sorridendo dolce «Ora non posso, Amelia.
Che ne dici di andare a giocare con papà ed Edgar in giardino?».
La bimba annuì, correndo fuori dalla stanza, e scomparve dalla vista della madre in un bagno di luce. La sua risata, però, risuonò nelle orecchie della madre fino alla fine.
 

Ci sono giorni in cui ti svegli e senti che tutto andrà per il verso sbagliato. Lo capisci dal primo sguardo fuori dalla finestra, quando vedi il sole oscurato dalle nuvole più nere. Lo capisci quando scendendo le scale scivoli sull’ultimo scalino, rischiando di sbattere l’osso sacro sul freddo legno e ti devi aggrappare alla ringhiera. Lo capisci quando, entrando in cucina scopri che il tuo dolce preferito è finito.
Quelli sono giorni sbagliati. Non c’è fisica, non c’è ragione. Sono solo giorni sbagliati, di quelli che vorresti cancellare dal calendario, oppure saltare a piedi pari con una macchina del tempo.
Ma non esiste una macchina del tempo, nemmeno nel Mondo della Magia. Quei giorni devi solo viverli, anche se, con il senno di poi, avresti solo voluto rimanere a letto. Sperando che sia domani.
Ma sono quei giorni che alla fine ti rimangono incisi nella pelle e più in profondità.
Incisi a ferro, fuoco e sangue.
Incisi nel cuore, date che sconvolgono una vita e la modellano, la cambiano, fino a creare nuove persone dalle vecchie. Sono quelle giornate che ti fanno uscire dal tuo guscio, quella che tu pensavi fosse la tua vera pelle, e rivelano cosa sei in realtà.
Le farfalle sono la prova di Dio che ognuno di noi può avere una seconda possibilità.
Da quel bozzolo grezzo di bruco, quelle giornate ti trasformano in una farfalla. Attraverso il dolore, le lacrime, le urla e i pianti, il tuo animo cambia e si trasforma, si rafforza. Dopo quelle giornate, sai che nulla può più spezzarti così in profondità.
12 Agosto 1976. Incisa a ferro, fuoco e sangue.
 
 
 
 
Per amore di Canon:
- I genitori di Amelia sono realmente morti quando la ragazza andava ancora ad Hogwarts, e le rimangono i due fratelli. Di uno, Edgar Bones sappiamo il nome, del secondo, il padre di quella che sarà Susan Bones, non sappiamo il nome. Ho dato il nome indicativo Micheal.
Non c’è nemmeno una data precisa sulla morte dei genitori. Ho scelto il 12 Agosto 1976, ma non è una data particolare.
 
Note:
-Il sottotitolo “Flowers for Your Grave” è preso dal titolo del primo episodio di “Castle-Un detective tra le righe”.
-“Le farfalle sono la prova di Dio che ognuno di noi può avere una seconda possibilità” è presa dal telefilm “Nikita”, che consiglio vivamente.
-Il significato dei vari fiori l’ho preso dal Dizionario del libro “Il linguaggio segreto dei fiori”, quindi è possibile che non tutti i significati corrispondano a quelli di altri libri.
 
Angolo dell’Autrice:
Questa è la prima volta che scrivo su Harry Potter, nonostante io abbia sempre letto moltissimo in questa sezione. Questa OS è nata in una giornata al mare, e l’ho scritta in una nottata.
Spero di non aver sbagliato qualche parola, o di non aver scritto qualcosa di male. Se fosse, non esitate a scrivermi e io provvederò.
Un enorme ringraziamento all’immensa Giusi, Beta di questa storia, che ha letto e corretto questa storia alla velocità della luce.
Un grazie anche a voi, che avete letto. Se volete, lasciate un commento.
 
Un bacio,
Fra.
   
 
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