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Autore: Euachkatzl    23/07/2013    2 recensioni
“Black window of la porte? Ma non è quella…”
“Sì, Tico, è quella che tu non riesci a suonare neppure su Guitar Hero” gli rispose Richie, un po’ pentito di avermi preso in giro, ora che stavo suonando perfettamente una delle canzoni più difficili che avesse mai sentito.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Never say goodbye, never say goodbye,
You and me and my old friends,
Hoping it would never end,
Say goodbye, never say goodbye,
Holdin’ on, we got to try,
Holdin’ on to never say goodbye

 
Sentii un braccio cingermi le spalle e qualcuno darmi un bacio dolce su una tempia. “Paura?” mi chiese Jon. “No” mentii, provocandogli una risatina, che fortunatamente soffocò. Mancava solo che venisse a ridermi in faccia. Stavo seduta su un divanetto del nostro camerino, tremando e recitando mentalmente qualsiasi preghiera mi venisse in mente. Qualcuna forse la inventai, a qualcuna cambiai le parole, era passato tantissimo dall’ultima volta che ero entrata in una chiesa. Tico mi porse una bottiglia di birra, tutti ne avevano in mano una. “Ti prego, dopo non mi ricordo neanche come si fa un accordo” rifiutai.
“No, seriamente, sciogliti un po’, che sennò schizzi male” insistè Tico. Presi la bottiglia e bevvi un sorso di birra. Accidenti, faceva davvero schifo. Feci una faccia strana e posai quella specie di veleno sul tavolino di fronte a me. Ma che cazzo bevevano i portoghesi?
“Aiuto, non ce la posso fare” mormorai, gettando la testa all’indietro.
“Dai, tutti abbiamo passato il primo concerto e siamo ancora vivi” mi incoraggiò Dave, dall’alto della sua esperienza di tipo trent’anni di live. Per carità, anch’io ne avevo fatti di concerti, ma mai di fronte a 20mila persone. Persone che, tra l’altro, non volevano me, volevano i Bon Jovi. Che cazzo ci facevo io là in mezzo? Tentai di scacciare quei pensieri e intrapresi un’altra conversazione con Dio, magari gli avrei fatto tanta pena da fargli decidere di darmi una mano. “Ragazzi, il gruppo di apertura inizia adesso, è meglio se venite” ci avvisò un tecnico. Ci alzammo e ci dirigemmo verso il palco. Dopo che la band finì di suonare, si spensero tutte le luci. ‘Oddio, è saltato tutto e non si fa il concerto. Grazie Dio, mi hai ascoltato’. E invece ricordai che era tutto normale, anche le prove generali quel pomeriggio erano cominciate così. Le prime parole di You give love a bad name  andavano cantate al buio, lasciando poi spazio a un disastro di luci e suoni. Presi il mio posto sul palco, vicino a Logan, e chiusi gli occhi. “Me la sto facendo sotto quanto te, sai?” mi confessò lui, tentando di smorzare la tensione. Accennai un mezzo sorriso e posai le dita sul manico della chitarra, le feci scorrere su e giù, giusto per accertarmi di ricordarmi almeno il do, e il concerto iniziò. Shot through the heart, and you’re too blame… Darlin’ you give love a bad name. Dopodichè, il disastro di luci e suoni che avevo previsto. Un disastro che però, tutto sommato, mi piaceva. Era ordinato nel suo disordine. Era familiare nei suoi continui cambi di programma. Era il sogno della mia vita. Era il concerto con i Bon Jovi.
 
Il tipo che ha detto che quando ci si diverte il tempo passa in fretta non sa di aver detto una grandissima stronzata. Il tempo passa in fretta se non te lo sai gustare. Io, quelle due ore di concerto, le assaporai lentamente, senza correre. Suonai ogni singola nota percependo le vibrazioni che la mia chitarra provocava, ascoltai tutte le parole che Jon cantò, quelle parole che lui e gli altri, in trent’anni di musica, erano riusciti a unire in modo perfetto. Fu maledettamente bello. Avrei potuto morire da un momento all’altro. Dalla felicità, dal rumore assordante che si sentiva sul palco, dall’emozione quando Jon mi prese per mano e facemmo quel famoso inchino a fine concerto. E, sinceramente, mi pareva il modo migliore per morire.
 
Seconda tappa, Madrid. Terza, Parigi. Quarta, Londra. O2 Arena.
“Siamo tornaaaaaaaaaati” urlò Richie di fronte all’edificio.
“Siamo tornati” mormorai. Mi fermai a guardare lo stadio da lontano, ripensando ai Seventh, a quello che aveva detto Edo: ‘Un giorno suoneremo qui’. Sì, io la sera seguente avrei suonato lì, su quel palco, su quello stadio pieno. Gli altri erano già andati avanti e Richie, accortosi che ero rimasta in piedi in mezzo al marciapiede, a fissare imbambolata l’edificio, si avvicinò a me.
“Dai, non avrai paura anche stavolta”
“No, è solo che Londra mi fa tornare tanti ricordi in testa…”
“Facciamo una cosa stupida” lo guardai confusa. Le cose stupide proposte da Richie la maggior parte delle volte sono vere e proprie cazzate “Adesso prendiamo la metro e andiamo in centro a farci un giro” Lo guardai ancora più strano. “Stai dando i numeri?”
“Dai, Juju, lo so benissimo che non hai voglia di provare” Detto questo, mi cinse la vita e mi prese alla ‘sacco di patate’, allontanandosi dallo stadio, dove gli altri erano già entrati. Scalciai per un po’ ordinandogli di mettermi a terra, ma senza successo. Alla fine mi arresi e lui mi lasciò scendere.
Trovare la metropolitana fu semplice, trovare il metrò giusto fu appena appena più difficile, anche perché non avevamo idea di dove andare.
“Prendiamo questo” mi urlò Richie dalla banchina, mentre io cercavo di capirci qualcosa nell’immenso tabellone degli orari. Mi fidai di Richie e salii. Ci ritrovammo stipati in un vagone strapieno di gente, quasi non si respirava.
“L’hai scelto a caso, questo tram?” chiesi. Lui annuì. “Sì, ma mi sono pentito. Alla prossima fermata scendiamo” E così fu. Uscimmo da quella camera a gas e respirammo a pieni polmoni. Non è che nel sottosuolo di Londra ci sia un’aria così pulita, ma tutto sarebbe stato meglio di quel metrò. Sulla parete di fronte a noi campeggiava un cartello con scritto ‘South Kensington’.
“Hai una minima idea di dove siamo?” mi domandò Richie, mentre salivamo le scale.
“A Londra” risposi, ironica. Uscimmo e girammo a destra, così, a caso. Camminammo per un po’, in silenzio. Era un silenzio piacevole, dopotutto. Non era uno di quei silenzi imbarazzanti, in cui non fai altro che cercare un argomento di conversazione decente, era uno di quei silenzi leggeri, uno di quelli che riesci a goderti. Avevamo passato un brutto periodo, io e Richie, e sentire che potevamo camminare vicini, in silenzio, era una cosa bellissima. Ad un certo punto la sua mano afferrò la mia, le sue dita si intrecciarono alle mie, che si schiusero senza che me ne accorgessi. Arrossii, sperando che Richie non mi vedesse. E invece, a giudicare dal sorrisetto che gli spuntò in faccia, mi aveva vista eccome. Entrammo in un parco pubblico e ci sedemmo su una panchina, un enorme gelato in mano come i bambini.
“Che ricordi ti porta, Londra?” mi chiese Richie, interrompendo quel magnifico silenzio nel modo peggiore possibile. Non avevo certo voglia di raccontare tutta la mia vita in quel pomeriggio perfetto.
“È stato l’ultimo viaggio che ho fatto con Edo e gli altri” riassunsi brevemente, lasciando che il mio sguardo si perdesse nel vuoto.
“Jon mi ha raccontato tutta la storia tempo fa. Mi dispiace davvero di come sia andata” mi disse Richie, e i suoi occhi si posarono su di me, sui miei capelli rossi. Non sentendo una mia risposta, decise di continuare il suo discorso. “Sai, l’inizio non è stato semplice neppure per me. Ne ho passati di gruppi, ho litigato con una marea di gente, ma poi è arrivato Jon, che è stato un po’ una benedizione. Dio mi aveva visto e aveva deciso di darmi una mano, probabilmente”
“Non ci credo a Dio” mormorai. Sperai di non dover spiegare quella frase, invece non ebbi scampo. “Se Dio c’è, perché io sono senza genitori, perché ho dovuto soffrire così tanto per realizzare i miei sogni? Perché sono qui, su questa cazzo di panchina, quando l’unico posto in cui vorrei essere è vicino a Edo?” A quel punto la tristezza diventò troppo grande per essere soffocata, le lacrime cominciarono a scendere sulle mie guance pallide. Richie mi abbracciò forte. “Perché hai incontrato proprio me, quella sera al Depandance?”
 
Tornammo all’arena dopo un paio d’ore, trovando tutti in preda al panico, con Doc che continuava a gridare cose al telefono. “Dove cazzo eravate?” ci urlò il manager, avvicinandosi a noi arrabbiato come non mai.
“A fare un giro” rispose Richie, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.
“A fare un giro” ripetè Doc. Non immagino neppure quanta fatica fece per non prenderci a schiaffi. Ce la cavammo con una lavata di testa di un quarto d’ora. “E adesso tutti in hotel, e non uscite da lì finchè non arrivo io”
 
La vista dalla mia camera d’albergo era una cosa incredibile. Londra era illuminata di mille colori e, dal decimo piano, era uno spettacolo. Luci a perdita d’occhio. Mi sedetti sul letto a guardare quel panorama bellissimo, ripensando alla chiacchierata che mi ero fatta con Richie quel pomeriggio. Mi lasciai cadere sul materasso morbido e chiusi gli occhi, ma fui costretta a riaprirli di colpo quando sentii la voce di Doc urlare: “E questa che cazzo è?” Uscii in corridoio e trovai il resto del gruppo in pigiama, a piedi scalzi o coperti da pantofole piuttosto oscene, davanti alla porta della camera di Richie. “Che succede?” chiesi, avvicinandomi a loro. Non ottenni risposta, sentii solo la voce di Doc urlare di nuovo, da oltre la porta. “È l’ultima cazzata che sopporto. Fanne un’altra e il tuo tour finisce qui. E insieme al tuo tour la tua carriera. Sono stato abbastanza chiaro?” Sentimmo i passi pesanti del manager avvicinarsi alla porta e ci scansammo tutti. Appena uscito, si trovò addosso cinque paia di occhi che chiedevano il perchè di quella sgridata. Doc ci ignorò completamente e ci ordinò di andare a dormire. Ci avviammo tutti verso le nostre camere, ma a metà strada mi bloccai. Dovevo assolutamente sapere che diavolo era successo. Silenziosamente, scivolai verso la porta di Richie e bussai piano. Lui mi venne ad aprire subito, con una faccia piuttosto stralunata. “Che è successo?” domandai preoccupata. Lui si spostò dalla soglia, facendomi cenno di entrare. Mi accomodai a gambe incrociate sul letto, mentre lui si sedette su una poltroncina di fronte a me. Aveva il viso teso, preoccupato, gli occhi arrossati. Si passò una mano sul viso e gettò la testa all’indietro. Restò in quella posizione per un paio di minuti, mentre io lo fissavo, inerme. Non avevo la minima idea di che fare. Poi lui si alzò, si avvicinò a me e le sue labbra si appoggiarono leggere sulle mie. Presa completamente alla sprovvista, girai la testa e mi allontanai da lui, che per tutta risposta si avvicinò, riaccorciando la distanza tra i nostri corpi. Le sue mani mi accarezzarono le guance, con un gesto delicato e affettuoso. Mi scostò i capelli dal viso, per poi baciarmi di nuovo. Lo fermai anche questa volta. “Che stai facendo?” gli chiesi. “Faccio l’ultima cazzata che Doc mi ha concesso” mi sussurrò all’orecchio.
“Richie…” lo pregai. Lui si bloccò. “Che c’è?”
“Sei fatto” dissi, quasi disgustata. “Mi avevi giurato che non sarebbe successo mai più”
“Anche tu mi avevi giurato che non avevi baciato Jon” Mi ritrovai completamente spiazzata di fronte a quella frase, detta con una lucidità devastante. Mi alzai e me ne andai, sbattendo la porta più forte che potevo.
 
Ci trovammo tutti la mattina dopo nella sala da pranzo dell’albergo, per fare colazione. Tutti tranne Richie. “Qualcuno ha saputo qualcosa di ieri sera?” chiese Dave. La domanda era più rivolta a me che a tutta la band, dato che il tastierista mi aveva vista perfettamente sgusciare nella camera di Richie. Abbassai la testa senza rispondere fissando il cappuccino, che di colpo si fece interessantissimo. Il silenzio regnò per tutta la colazione, della durata di appena un quarto d’ora. Dopodichè, tornammo nelle nostre camere. Alle quattro del pomeriggio Doc bussò a tutte le porte, urlandoci di uscire, che era arrivato il momento delle prove. Controvoglia, mi alzai dal letto e mi trascinai verso l’ascensore, dove il resto del gruppo mi aspettava bello pimpante. “Juju, sembri un po’… assonnata” mi fece notare Jon, con un sorrisone. “Rincoglionita” lo corressi, sbadigliando. I sonnellini pomeridiani sono un suicidio, ti fanno svegliare più stanco di prima. “Richie?” chiesi, guardandomi intorno. Vedemmo quest’ultimo uscire dalla sua stanza. Aveva più o meno la mia stessa faccia. “Ed ecco un altro reduce del sonnellino pomeridiano” rise Tico, tirando una pacca sulla spalla al suo chitarrista.
 
Le prove generali sono una di quelle cose che non vorresti mai fare ma che alla fine finiscono per farti divertire tantissimo. Sono tre ore di salti, risate e cazzeggi vari, prese per il culo e scherzi a manetta. In più, quel giorno c’erano dei tizi che dovevano filmarci per i videoclip delle ultime canzoni. “Dovete fare più cazzate del solito” ci spiegò Doc, ancora arrabbiato con Richie per quello che era successo la sera prima. Fu dura far più cazzate del solito, visto il gigantesco numero che eravamo soliti raggiungere, ma bene o male riuscimmo nell’intento. Alla fine delle prove eravamo abbastanza devastati. Andammo nel camerino e ci lanciammo chi sui divanetti, chi sotto la doccia, intenzionati a non fare assolutamente nulle per le prossime due ore. Il trambusto che fecero le 20mila persone appena aprirono i cancelli ci fece capire che era arrivato il momento di svegliarsi, che stavamo per fare un altro concerto. Mi lavai il viso con l’acqua fredda, mi misi l’eyeliner sulle palpebre e un po’ di mascara. Tornai in camerino e trovai Doc che stava facendo un discorso al gruppo, al quale mancava però Richie. Sentendo i miei passi Doc si voltò e mi chiese in malo modo dove mi ero cacciata. “Ero… a truccarmi” risposi timidamente, chiedendomi il motivo per il quale il manager fosse nuovamente incazzato. Mi sedetti di fianco a Jon.
“Stasera Richie non suona” ci spiegò brevemente Doc, facendoci restare più o meno… di merda, diciamo. “Juju, le canzoni le conosci, farai un ottimo lavoro” Si voltò e fece per andarsene, ma lo fermai. “No, aspetta, perché Richie non si fa il concerto?”
“Credo che tu lo sappia perfettamente, Juju” mi rispose, per poi attraversare la soglia del camerino e sparire dalla mia vista. Tutti mi guardavano con una faccia interrogativa, curiosi di sapere tutta la storia.
“Richie è tornato ai vecchi vizi” dissi, facendo scoppiare un borbottio generale. In quel momento, un tecnico ci chiamò per salire sul palco, era arrivata l’ora di togliere dal cervello le preoccupazioni e concentrarsi sulla musica.
 
Nota dell’autrice:
…oddio, no! Che casino che ho creato D: Mi dispiace tanto per tutti quelli che erano convinti che la storia fosse finita, ma invece continua un altro po’.  :)
Volevo ringraziare tutti quelli che recensiscono sempre, tutti quelli che hanno messo la storia tra le preferite/seguite e tutti quelli che non l’hanno messa in lista ma se la sono letta dall’inizio alla fine (lo so che ci siete anche voi ;))
 
Bacioni, Euachkatzl <3
  
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