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Autore: dawnechelon    23/07/2013    3 recensioni
Il gelo non riguarda più solo il mio movimento emotivo interno, sono diventata io stessa il gelo. Mi pare quasi di essere una creatura diversa dagli esseri umani ordinari: la mia temperatura corporea è sempre più bassa, il mio corpo è avvolto da un freddo perenne, che punge sulla mia pelle, e quasi mi avvolge non permettendomi di sentire il calore. Non so nemmeno più cosa voglia dire sentire il calore.
Dawn. Sono l'alba, ed ancora non ho incontrato il Sole che mi trascini via dal baratro.
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. Loss.


L'essere umano è per natura portato a temere ciò che non conosce. L'ignoto, lo straniero, l'alieno. Tutto ciò che non risulta già presente nella nostra memoria ci spaventa, e talvolta allo stesso modo, con la stessa forza, ci attira. Le persone parlano di masochismo. Quell'irrazionale tendenza al volersi fare del male a tutti i costi, quel costante amare il proprio dolore, quasi da non riuscire a farne a meno. Certe persone non riescono a stare lontane da quel dolore troppo a lungo, qualcosa di più forte di loro, qualcosa di inspiegabile come una forza divina, allaccia la sua anima all'involucro del dolore e li rende un guscio di vuoto, di solitudine, di freddo. Non spetta a loro la decisione, non rincorrono il dolore fino a perderci il fiato. Sono coincidenze, cosa a cui sinceramente non riesco più a credere, che si susseguono l'una dopo l'altra e ti fanno precipitare.
Essendo coincidenze, ovviamente non hai il tempo per renderti conto di che sta succedendo, o di cosa sta per succedere. Non puoi prepararti, non c'è paracadute che possa salvarti da quella caduta libera. Non c'è una garanzia per proteggerti da quella minaccia. Dopotutto, esiste forse un antidoto ad una morte imminente? Esiste una cura che ti possa aiutare a sopportare la perdita di una persona a te cara? Morte e dolore vanno a braccetto, silenziosi, e arrivano quando meno te l'aspetti, in punta di piedi, come se temessero di poter turbare l'equilibrio della tua semplice vita. Eppure, sferrano il loro attacco quando meno te l'aspetti e non ti danno il tempo di renderti conto che succede. E non importa se stai ancora soffrendo per una ferita che comincia a risanarsi con difficoltà dopo che ti è stata strappata la pelle. Non importa quanto ti senta vulnerabile e fragile, non c'è pace per te, e così non ci fu per me.

Avevo perso da poco più di due mesi Julian, e non avevo minimamente superato quanto era successo. Qualcosa mi diceva che forse non sarei mai riuscita a superare o solo ad accettare la sua perdita. Le immagini di quella sera non mi avevano mai abbandonata, percorrevano avanti e indietro la mia memoria, insinuandosi nei miei pensieri in momenti svariati della giornata. Talvolta mentre stavo a scuola, talvolta mentre studiavo, talvolta nei sogni, che si trasformavano in incubi. E mi risvegliavo piangendo, tremando, in preda al panico più totale, rannicchiata sotto le lenzuola che stringevo fra le mani come se fossero l'unica forma di protezione che avevo. Cercavo di non fare rumore, di non farmi sentire da nonna Annie, che dormiva serenamente nella stanza accanto alla mia.
Non potevo e non volevo disturbare il suo sonno, non meritava di passare notti in bianco preoccupandosi per me. Faceva già molto per me, e non volevo arrecarle altre preoccupazioni.
Si era presa cura di me, non facendomi mai mancare nulla, da quando avevo cinque anni, quando persi i miei genitori. Se non fosse stato per lei, probabilmente sarei finita in qualche orfanotrofio, oppure affidata ai parenti più vicini, che non avevo mai conosciuto troppo bene dato che non abitavano a Londra come noi. Ringraziavo ogni giorno di averla con me, di aver avuto una persona così amorevole nella mia vita, che decise di prendermi e crescermi come fossi sua figlia, dandomi tutto l'amore e l'affetto di cui avevo bisogno.
Non ricordavo molto dei miei genitori, imparai a conoscerli bene negli anni dopo la loro morte, attraverso innumerevoli foto che li ritraevano nelle diverse tappe della loro storia, e grazie ai racconti di nonna Annie. Amava parlarmi dei miei genitori, e amava ripercorrere i suoi anni migliori con me. Il suo amore irrazionale per il passato si rifletteva in me, e molte volte ci eravamo trovate a vagheggiare epoche lontane insieme, provando ad immaginare come sarebbe stata la nostra vita in un differente periodo storico. E nel corso degli anni trascorsi insieme mi aveva contagiato con il suo amore per il pianoforte. Avevo sempre sentito una forte affinità con la musica, come se la mia vera essenza fosse fatta di musica e  non di parole. Mi trovavo decisamente più a mio agio nel comporre o nel riprodurre una melodia al pianoforte piuttosto che nel parlare. Faticavo ad esprimermi, ma ogni qualvolta ne avevo bisogno, la musica sembrava esserci per me. Il pianoforte era il mio tramite con la realtà, esprimeva le mie emozioni e le mie sensazioni alla perfezione e parlava per me. Riuscivo a descrivere una persona meglio attraverso una melodia, che a parole.

Ed è per quel motivo che in quella giornata del primo autunno, dove il sole ancora riesce a farsi spazio tra le fronde degli alberi ed illumina le giornate anche se con meno calore, mi trovai a suonare in quell'occasione che non avrei mai voluto vivere.
Un male più forte della sua forte vitalità, mi aveva portato via nonna Annie. I medici la definirono "una leucemia fulminante" e dissero che non avrebbero potuto fare nulla per poterla salvare. Cercavano di confortarmi, dicendomi che quei pochi giorni che le restavano mi sarebbero stati d'aiuto. Avrei potuto comprendere ciò che stava succedendo, avrei potuto spendere tutto il tempo che mi era concesso con lei, avrei potuto allietare la sua lenta e silenziosa dipartita. Allietare la morte? Cercavano forse di prendermi in giro?
Come si poteva rendere lieta la morte? Come potevano chiedermi di mantenere la calma, e di vivere quei giorni serenamente? Certo, sarebbe stato decisamente più semplice in quel modo, sarebbe stato razionale, ponderato e forse sarei riuscita a sopportare l'immagine dei suoi occhi che si spegnevano, della luce che lasciava il suo volto. Quella era una cosa che un medico avrebbe potuto fare, che una persona senza cuore avrebbe potuto fare, ma come potevano chiedere a me, a sua nipote, di restare calma di fronte alla sua morte? Era tutto ciò che mi restava, era la mia forza, era la ragione per cui riuscivo a vivere dopo la perdita di Julian, e mi stava lasciando anche lei. Quegli ultimi giorni non uccisero solo lei, ma furono una dolorosa tortura anche per me, che la vedevo indebolirsi minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, e non potevo fare nulla per impedirglielo. Avrei voluto darle la mia forza, essere per lei la cura che lei era stata per me in tutti quegli anni, eppure non mi era concesso. La morte era più forte dell'amore, e la morte me la portò via.
Il prete che celebrò il suo funerale mi chiese se volevo dire qualcosa in merito, qualcosa che ricordasse la nonna nella sua versione migliore, nei suoi giorni di salute e di entusiasmo, ma non riuscivo a pensare a parole adatte. Non ce n'erano, non ce ne sarebbero mai state. Sapevo bene che chiedergli di suonare al termine della funzione forse era una richiesta troppo esagerata, e che probabilmente non me l'avrebbe mai concesso. Ed invece mi disse che se era quello che sentivo veramente, me l'avrebbe lasciato fare. Se era quello il modo in cui volevo salutarla, avrei potuto farlo.

E mi ritrovai fasciata in un abito nero, decisamente non adatto a me, con i capelli raccolti in uno chignon non troppo perfetto, e ogni fibra del mio corpo ghiacciata dal dolore.
Accanto a me sedevano dei familiari che non avevo mai conosciuto, di cui sapevo vagamente il nome che mi abbracciavano, mi tenevano per mano, e mi dicevano che sarebbe andato tutto bene, che avremmo potuto superare quella perdita insieme, come una famiglia. Ma la mia famiglia in quel giorno non erano loro. Non potevo definire famiglia volti a me sconosciuti, non se nel loro abbraccio non sentivo il minimo calore.
Non sapevo se fosse colpa mia o loro, ma non sentivo nulla. Nulla che riuscisse a confortarmi, ad accarezzare il mio cuore scheggiato ormai troppe volte.
Sentivo solo qualcosa di estremamente potente lacerarmi internamente, stringere il mio cuore, e soffocare i miei polmoni. Era la presa stretta, salda, e crudele della sofferenza che mi consumava, fino a rendermi un guscio vuoto.
L'unica forma di consolazione, l'unico rifugio che riuscii a trovare in quel giorno fu la mia musica. La nostra musica.
Al termine della funzione, mi diressi verso il pianoforte che stava in chiesa, e mi sedetti sullo sgabello, senza dire nulla. Non volevo dire nulla, non ci sarei mai nemmeno riuscita, dato il nodo alla gola che mi stava soffocando e che soffocava le mie emozioni.
Mi limitai a lasciarmi andare alla forma di amore più pura che ormai mi restava. E chiusi gli occhi, lasciando che la realtà svanisse per un attimo, concedendo al mio cuore ricordi felici, che parlavano esclusivamente di lei, e di noi. Quelle note erano parole, e descrivevano la donna che mi aveva salvato la vita. La sua forza, la sua sensibilità e la sua premura.
Il mio cuore parlava attraverso i tasti bianchi e neri di quello strumento magico, che aveva l'incredibile potere di strappare le mie emozioni e donarle agli altri in modo molto meno violento, con dolcezza, e riconoscenza. Aveva l'incredibile capacità di dimostrare che dopotutto qualcosa era rimasto in me, di me.
E quella fu l'ultima volta che riuscii a sentirmi relativamente viva. Terminata il mio omaggio, un applauso fragoroso inondò la chiesa ed una lacrima percorse il mio viso. La cancellai subito con il dorso della mano, e tornai al mio posto.
I miei parenti mi guardarono con sguardo meravigliato, e la folla sembrava non voler terminare quell'applauso. Mi unii a loro, perché tutto quello era per lei, non per me. Io non avevo fatto nulla, era lei a meritare quell'amore. Deglutii a vuoto, abbassando lo sguardo a terra quando tornò a regnare il silenzio, e proseguii nelle procedure che avrebbero portato a termine quella funzione. Non proferii parola, evitai il contatto con chiunque, ed una volta che il suo corpo fu restituito alla terra, accanto ai miei genitori, presi un pugno di terra e lo gettai sulla sua bara. Mi ripulii malamente le mani sul vestito, e mi allontanai per tornare a casa, accompagnata dalla sorella di mio padre. Loro abitavano nell'appartamento accanto a quello della nonna, dove vivevo io, e cercarono di occuparsi di me nei giorni successivi, ma non esistevo più.
Non ero più me stessa. Quello era l'inizio della fine.
  
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